venerdì 21 settembre 2012

Don Puglisi: la beatificazione e l'indifferenza.


CENTONOVE
Settimanale di Politica, Cultura, Economia
N. 35 del 21 9 2012 - Pag. 46
Don Puglisi e l'auto bruciata
Francesco Palazzo
 
Il diciannovesimo anniversario della morte di don Puglisi si può raccontare parlando della beatificazione che sarà celebrata a Palermo il 25 maggio 2013. Oppure lo si può leggere attraverso un episodio accaduto nella notte tra il 12 e il 13 settembre. Cioè nei giorni in cui nel quartiere e in città, con diverse manifestazioni, si ricordava quanto avvenne quella sera del 15 settembre 1993. C'era (e c'è) una macchina completamente bruciata dentro un parcheggio privato. A venti metri del busto in marmo raffigurante Puglisi, posto al centro della piazza con la corona di alloro ancora fresca. A non più di quaranta metri, che sono ancora meno dei cento passi famosi, dalla chiesa di S. Gaetano. Dove don Pino visse gli ultimi suoi tre anni di sacerdozio e di vita. Il mezzo appartiene ad un giovane commerciante, un artigiano orafo, che si è esposto a viso aperto nella battaglia antiracket. Forse cortocircuito, ma che le auto brucino per questo motivo è davvero molto improbabile, forse un attentato ben camuffato. In ogni caso, visto la persona a cui è capitata la disavventura e il rione in cui avviene il fatto, un fatto inquietante. Che richiederebbe, proprio nel quartiere che fu di Puglisi, qualche gesto deciso e concreto di solidarietà. Invece si è soltanto registrato un gelido silenzio. Si può dare una chiave di lettura, partendo da questa circostanza, su come arriva, nel luogo della sua profezia, l'eredità di Puglisi alla beatificazione? Si può provare. Anche perché l'indifferenza di oggi fa a pugni con le parole chiare e nette che don Pino pronuncio in un'omelia domenicale dell'estate del 93. Qualche mese prima che un proiettile alla testa lo fermasse per sempre schiantandolo su un marciapiede sotto casa. Rosso in viso e con le grandi orecchie infiammate dalla rabbia, dall'altare commentava molto duramente, facendo arrivare aperta solidarietà alle vittime e invitando i fedeli ad andarli a trovare, l'incendio notturno delle porte di tre componenti del Comitato Intercondominiale Hazon. Con il quale lui lavorava da tempo nel territorio per portare diritti e servizi senza chiedere una lira di finanziamenti pubblici, anzi rimettendoci di tasca sua. Ancora non si sapeva, lo diranno i processi, i pentimenti successivi e le sentenze, ma erano stati gli scagnozzi della famiglia mafiosa locale a compiere l'operazione. Come si permettevano quegli inermi cittadini, non legati a qualche potente della politica, ed un parroco con i gomiti dei maglioni mal rattoppati, a chiedere che a Brancaccio si potesse vivere dignitosamente? Puglisi non attese gli esiti delle indagini. Da persona nata e cresciuta in quei luoghi, seppe subito in che direzione guardare e cosa dire pubblicamente per non lasciare da sole le vittime dell'attentato incendiario. Da quel grido di accusa di allora e dal silenzio odierno si sono fatti passi in avanti o indietro? Se non vogliamo vestirci dell'antimafia retorica delle ricorrenze, un abito che a molti piace indossare, bisogna ammettere che si è tornati parecchio indietro. E non soltanto per l'episodio citato. Nel rione è tornata, più forte dei tempi di Puglisi e che lui volle combattere con tutte le sue forze sino alla fine, una cappa micidiale di indifferenza e paura. Che si mescola con i piccoli gesti della criminalità spicciola, comprese attività di abusivismo selvaggio e predatorio o spaccio di sostanze stupefacenti, che avvengono alla luce del sole, e le grandi manovre della mafia, sempre presente. Basta farsi una passeggiata nei luoghi che furono di don Pino, e prima di lui di un altro coraggioso parroco, Rosario Giuè, di cui poco si parla nelle ricostruzioni storiche, per rendersi conto della distanza che intercorre tra la beatificazione di maggio e la realtà che connota uno dei posti da cui dipende la salvezza o la dannazione di Palermo. E forse dell'intera Sicilia.

domenica 16 settembre 2012

Regionali 2012. Si fa presto a dire elezioni.

LiveSicilia
16 Settembre 2012
Le elezioni.....embè?
Francesco Palazzo
 
 
 
Voi chiamatele, se proprio restate contenti, elezioni. Io penso di aver capito una cosa. Il giro di valzer siciliano, che si ballerà nei seggi d'inizio autunno, è la prova generale di quella che sarà la nuova legge elettorale a livello nazionale. Voi votate tranquilli e poi pensiamo noi a fare le alleanze nelle assemblee rappresentative. Mani libere e cuore leggero. Gente a cui, evidentemente, piacere vincere facile. Pensate un po' cosa ne sarà della Sicilia e dei siciliani nella prossima assemblea regionale siciliana. Quello che abbiamo visto in passato sarà ricordato con struggente tenerezza. All'indomani del voto, visto che nessuno dei contendenti si aggiudicherà la maggioranza, considerato lo spezzatino di candidature in campo, si aprirà il mercato e tutti, proprio tutti, nessuno escluso, cercheranno di portare a casa qualcosa. Alcuni tacciano di gossippari coloro che fanno balenare ipotesi di accordi già stabiliti sottobanco tra alcuni degli attuali contendenti. Hanno perfettamente ragione.
Ma quali gossip e gossip! La realtà, come sempre in Sicilia, è più frizzante e incredibile di qualsiasi pettegolezzo da corridoio o chiacchiera da bar. Dicono che la polverizzazione di facce e le alleanze variabili come il tempo, siano la conseguenza logica di un bipolarismo malato cronico da tempo. E siccome uno sta male, meglio prendere bene la mira, sparargli un colpo alla tempia e farla finita subito. Per risparmiare nella spesa sanitaria potrebbe essere un ottimo metodo. L'eredità che lascia il morituro, del resto, è consistente. Direi regale. Seppellito l'osso della logica bipolare, sulla quale si sta andando al voto negli Stati Uniti, ma noi siamo, inutile dirlo, più avanti anni luce, rimarrà nelle mani dei partiti, degli eletti, dei forti gruppi di pressione, tutta la polpa. Volete che non ci venga fuori una succulenta pietanza?
In questo scenario, secondo voi, che cosa possono dire i candidati alla presidenza di chiaro e definito sulle quattro cose da fare subito affinché la Sicilia non affondi? Niente di significativo e percettibile. Solo balbettii. Se le alleanze si fanno dopo le elezioni, come si fa a pronunciare parole chiare? Vi immaginate cosa significherà comporre un governo sotto il fuoco di fila dei tanti pretendenti ai vari troni della politica regionale che spunteranno come funghi da lunedì 29 ottobre? Allora forse è meglio, almeno per questo giro, evitare di prenderci in giro e non chiamarla elezione diretta del governatore della Sicilia. La legge elettorale, infatti, promuovendo la balcanizzazione del consenso politico, viene assolutamente svilita e annullata. I siciliani e le siciliane, che lo sappiano o no, ma sarebbe onesto recapitargli il messaggio, non eleggeranno un bel nulla. Solo una faccia, più o meno sorridente, più o meno affidabile, che salverà la forma della democrazia. Il resto, la sostanza, a cutra, come dicono a Berlino e dintorni, se la contenderanno quelli che contano, non molti, in Sicilia.
Si poteva fare diversamente? Certamente. Bastava che i quattro candidati più accreditati facessero, visto che dicono tutti di amare la Sicilia, che perciò sta morendo di questo troppo asfissiante trasporto affettivo, un gesto di responsabilità. Presentando due coalizioni all'elettorato siciliano e proponendo tre o quattro cose da fare per non continuare a bere l'acqua di una crisi finanziaria molto seria. E magari indicando due squadre di assessori. Non è un obbligo, quest'ultimo. Ma certamente gli elettori avrebbero apprezzato e si sarebbero potuti orientare meglio. Ma figuriamoci. Siamo a pane e acqua e voi chiedete il salmone. Ma dove vivete? In realtà stiamo tornando, a Roma come a Palermo, ma in Sicilia si anticipa sempre perché siamo i più furbi del suolo italico, all'età della pietra della democrazia rappresentativa. Tu mi dai il voto e poi non rompere che ci penso io che ne so più di te. Dal 28 ottobre sera, non pensateci più. La messa (in scena) della partecipazione sarà finita e potrete andare in pace.

mercoledì 5 settembre 2012

Italo e la Siclia del novecento con i treni che non arrivano mai.

La Repubblica Palermo - Mercoledì 5 Settembre 2012
Pag. I
Quel treno superveloce di un altro pianeta
Francesco Palazzo

Il 26 agosto è partito Italo. E' un treno che collega, più volte al giorno, Roma e Milano in due ore e 45 minuti. Dispone di collegamento wireless gratuito, servizio ristorante e addirittura di un vagone cinema. Troppa grazia. Roma e Milano distano quasi 600 chilometri. Cosa può importare a chi vive e si sposta in Sicilia tale notizia? Niente. Solo che ad inizio autunno si andrà alle urne per il rinnovo dell'assemblea regionale e per l'elezione del governatore. E viene, così, a tempo perso, voglia di confrontare Italo, che beato lui corre veloce, con la lentezza esasperata dei nostri viaggi regionali lungo le linee ferroviarie. Che è un po' la proiezione sul territorio dei ritardi barocchi, perché spesso travestiti da rivoluzione, della nostra politica. Per dire, se volevate andare il 26 agosto, cioè nel giorno in cui Italo emetteva il primo vagito, da Palermo a Catania, separate da 209 chilometri, due terzi in meno di quelli che ci sono tra Roma e Milano, dovevate mettervi buoni buoni e considerare che ci avreste impiegato da un minimo di 2 ore e 45 minuti, con un convoglio partente alle 6 e 38, quindi con levataccia incorporata, ad un massimo di 4 ore e minuti 16. E questi sono i tempi migliori. Perché se, per caso era vostra intenzione prendere le mosse, invece, il giorno prima, 25 agosto, il gioco si sarebbe fatto ancora più duro. Da un minimo di 4 ore e 28 e un massimo di 6 e 05 minuti. Ovviamente, wireless, punti ristorazione e cinema ve li potevate scordare. E ancora non avete visto niente. Perché, se sempre il 26 agosto, pensavate di recarvi sciaguratamente in quel di Siracusa, potevate dimenticare la dimensione temporale. Perché, se sceglievate di partire comodamente alle 10 e 07, sappiate che sareste arrivati alle 18 e 20, in tutto 8 ore e 13 minuti. Palermo da Siracusa è divisa da 258 chilometri, meno della metà di quelli che intercorrono tra Roma e Milano. Uno, però, potrebbe obiettare. Ma che ci dovevo andare a fare io a Catania e Siracusa? Giusto. Non è un obbligo. Voi vi sareste tenuti più vicini, andando magari a visitare il bel centro storico di Trapani. Sono 107 chilometri, una bazzecola: Italo ci metterebbe meno di mezz'ora. In tal caso, potevate agilmente scegliere tra 2 e 31 minuti o, preferendo affrontare la vita con calma, vivervi per intero il treno che vi avrebbe scaricato a Trapani in 4 ore e 21 minuti. Ma se vi fosse venuto il desiderio di visitare i luoghi del Commissario Montalbano, per il 26 agosto niente da fare, non c'erano treni per Ragusa, e neanche il 25. Il 27 avreste avuto una sola possibilità. In sette ore nette il vostro treno avrebbe percorso i 271 chilometri che staccano i palermitani dai ragusani. Potremmo proseguire con i tempi che ci vogliono per collegare Palermo con le restanti province di Messina, Enna, Caltanissetta e Agrigento. Ma non aggiungeremmo niente di significativo alla nostra storia. A questo punto, però, qualcuno dirà che la politica siciliana c'entra poco con questo scenario. Formalmente sarà anche così. Parliamo di infrastrutture novecentesche che non possono essere ammodernate ricorrendo al bilancio della regione. Ma tutti sappiamo che le cose stanno in un altro modo. Solo una classe dirigente locale di non altissimo livello poteva determinare, nei quasi sette decenni autonomisti, queste condizioni di modernità mancata. Fanno, perciò, sorridere quei contendenti per le le elezioni d'autunno che si sfidano sull'autonomismo, ormai ridotto a una bandiera lacerata e piena di buchi. Manco buona per essere sventolata nelle infinite stazioni da dove transitano i treni siciliani che non arrivano mai.