LiveSicilia - Domenica 29 Luglio
Francesco Palazzo
Nella metà degli anni Ottanta, dalle parti di Brancaccio, la festa estiva del santo - pare - servì anche a suggellare la pax mafiosa scoppiata nel territorio dopo anni di ammazzatine in ogni angolo del quartiere. La chiamarono guerra di mafia. Era la scalata al potere dei corleonesi. Vero o no che fosse il collegamento tra quella manifestazione religiosa, con spettacoli e giochi di fuoco d'ordinanza, e la situazione meno cruenta dentro Cosa nostra, è un fatto che le processioni, con tutto il corollario di raccolta di fondi casa per casa e negozio per negozio, saldino, sovente, tradizione, credulità popolare, fede genuina, chiesa cattolica e criminalità. Non accade sempre, non accade dappertutto, ma lo si può dire con una certa sicurezza. E' ovvio che in queste manifestazioni venga coinvolta tanta gente che non c'entra nulla con la mafia. Io stesso, per dire, se non fosse stato per il servizio militare, avrei tranquillamente partecipato, nel mio quartiere d'origine, all'evento di devozione popolare citato all'inizio. Allora poco mi occupavo di certe letture dei fatti. Sono cose che ho saputo e intuito dopo. Né si può dire che tutti coloro che fanno parte dei comitati organizzatori difendano o rappresentino interessi mafiosi. Sarebbe stupido e ingiusto affermarlo.
Ma, anche negli ultimi anni, sempre in quel rione, ho avuto modo di verificare che, parallelamente ai festeggiamenti per il santo, anzi talvolta spostate di qualche settimana rispetto ad essi, sembra per attendere che qualcuno lasci le patrie galere e possa assistere a piede libero, si svolgono esibizioni canore di tutto rispetto. I neomelodici napoletani vanno forte pure lì e le dediche dal palco, per gli ospiti dello stato, non mancano. Don Puglisi, dal 1990 al 1993, e prima ancora di lui Rosario Giuè, la cui fondamentale opera di parroco a Brancaccio dal 1985 al 1989 mai si cita quando si parla di quella zona, cercarono, riuscendoci, di porre dei paletti su tale argomento. Per dire che la chiesa, quando non si gira dall'altra parte, può fare molto per evitare che altri si approprino del culto per i propri fini.
Pensavo a questo, tornando ai miei vent'anni, età in cui, come dice Guccini, è tutto ancora intero, riflettendo sulle polemiche relative ai saluti verso i carcerati formulati durante il concerto che alla Kalsa ha fatto da contorno ad una festa religiosa. La constatazione da fare, secondo me, realisticamente, evitando di scandalizzarci davanti all'ovvio, è che il cuore dei quartieri popolari, più o meno periferici, ha nei confronti dell'agire e del pensare mafioso una condivisione molto profonda e di lunga durata. Che quelli delle zone bene (viene da ridere quando qualcuno si esprime in tal modo), non vogliamo ammetterlo, perché ci piace pensare che le nostre quattro fiaccolate in occasione degli anniversari illuminino tutti gli antri oscuri e maleodoranti di questa città e della Sicilia intera, è un discorso. Che, probabilmente, fa da guanciale morbido alle nostre coscienze di benpensanti che vogliono farla facile. Che le cose stiano in un altro modo, e se ne freghino della circostanza che noi preferiamo non vederle, è un dato che non c'è neanche bisogno di dimostrare.
La cartina di tornasole sono gli applausi a scena aperta, lunghi e sentiti, tante standing ovation, indirizzati a chi dai vari palchi snocciola i nomi degli ospiti delle patrie galere. Momentaneamente rapiti alla vista, ma vivi e vegeti nel cuore degli amici e degli amici degli amici. Cosa voglio rappresentare con tutto questo? Che esiste senz'altro la borghesia mafiosa. Che la mafia, dall'unità ad oggi, è soprattutto un fatto di classi dirigenti. Ma è altresì, ognuno stabilisca la percentuale che ritiene più opportuna, un vissuto di popolo. Che condivide, protegge, tramanda e foraggia le mafie sui territori. Solo che spesso siamo propensi a condannare duramente la borghesia, forse al di là dei propri demeriti e collusioni. E troviamo più congeniale, al contrario, emettere un giudizio più clemente sul popolo spicciolo. Ritenendolo, quasi sempre, vittima necessitata e non coprotagonista volontario, quale secondo me è, dei sistemi mafiosi. Forse dovremmo ripensare un po' il tutto e chiederci perché le mafie hanno ancora tanto consenso. E che parte abbiano le moltitudini che vivono nei quartieri popolari nella costruzione e nella fortificazione di esso.
Ma, anche negli ultimi anni, sempre in quel rione, ho avuto modo di verificare che, parallelamente ai festeggiamenti per il santo, anzi talvolta spostate di qualche settimana rispetto ad essi, sembra per attendere che qualcuno lasci le patrie galere e possa assistere a piede libero, si svolgono esibizioni canore di tutto rispetto. I neomelodici napoletani vanno forte pure lì e le dediche dal palco, per gli ospiti dello stato, non mancano. Don Puglisi, dal 1990 al 1993, e prima ancora di lui Rosario Giuè, la cui fondamentale opera di parroco a Brancaccio dal 1985 al 1989 mai si cita quando si parla di quella zona, cercarono, riuscendoci, di porre dei paletti su tale argomento. Per dire che la chiesa, quando non si gira dall'altra parte, può fare molto per evitare che altri si approprino del culto per i propri fini.
Pensavo a questo, tornando ai miei vent'anni, età in cui, come dice Guccini, è tutto ancora intero, riflettendo sulle polemiche relative ai saluti verso i carcerati formulati durante il concerto che alla Kalsa ha fatto da contorno ad una festa religiosa. La constatazione da fare, secondo me, realisticamente, evitando di scandalizzarci davanti all'ovvio, è che il cuore dei quartieri popolari, più o meno periferici, ha nei confronti dell'agire e del pensare mafioso una condivisione molto profonda e di lunga durata. Che quelli delle zone bene (viene da ridere quando qualcuno si esprime in tal modo), non vogliamo ammetterlo, perché ci piace pensare che le nostre quattro fiaccolate in occasione degli anniversari illuminino tutti gli antri oscuri e maleodoranti di questa città e della Sicilia intera, è un discorso. Che, probabilmente, fa da guanciale morbido alle nostre coscienze di benpensanti che vogliono farla facile. Che le cose stiano in un altro modo, e se ne freghino della circostanza che noi preferiamo non vederle, è un dato che non c'è neanche bisogno di dimostrare.
La cartina di tornasole sono gli applausi a scena aperta, lunghi e sentiti, tante standing ovation, indirizzati a chi dai vari palchi snocciola i nomi degli ospiti delle patrie galere. Momentaneamente rapiti alla vista, ma vivi e vegeti nel cuore degli amici e degli amici degli amici. Cosa voglio rappresentare con tutto questo? Che esiste senz'altro la borghesia mafiosa. Che la mafia, dall'unità ad oggi, è soprattutto un fatto di classi dirigenti. Ma è altresì, ognuno stabilisca la percentuale che ritiene più opportuna, un vissuto di popolo. Che condivide, protegge, tramanda e foraggia le mafie sui territori. Solo che spesso siamo propensi a condannare duramente la borghesia, forse al di là dei propri demeriti e collusioni. E troviamo più congeniale, al contrario, emettere un giudizio più clemente sul popolo spicciolo. Ritenendolo, quasi sempre, vittima necessitata e non coprotagonista volontario, quale secondo me è, dei sistemi mafiosi. Forse dovremmo ripensare un po' il tutto e chiederci perché le mafie hanno ancora tanto consenso. E che parte abbiano le moltitudini che vivono nei quartieri popolari nella costruzione e nella fortificazione di esso.