La Repubblica Palermo
15 Febbraio 2014 - Pag. I
Quel muro che divide due città colpevoli
(Le parti in neretto non sono state pubblicate per motivi di spazio)
Francesco Palazzo
Passato il miraggio di
essere città della cultura, ci proviamo con l'UNESCO, per diventare patrimonio
dell'umanità. Ma la percezione è di avere smarrito il senso di essere
comunità dove prevalga la normalità e non l'inseguimento di eccezionalità. È
giusto, in tale situazione, chiamare in
causa la politica che ci rappresenta nelle istituzioni e che governa. Ma il
quadro va completato. Quel rudere della Vucciria,e i tanti altri sparsi per i
quattro mandamenti, era da tempo sotto gli occhi di tutti. Forse quelli della
movida palermitana pensavano che potesse risorgere da solo tra un aperitivo e un
drink? Come mai s'indignano soltanto adesso? Una residente del centro storico,
riferendosi alla movida, ha dichiarato a Repubblica che le sembra di vivere
all'interno della sezione gastronomica della fiera del mediterraneo (buonanima).
Le sere e le notti dei fine settimana questi luoghi della goduria si riempiono
di gente che è assolutamente indifferente al contesto. Gli basta premere
sull'acceleratore del divertimento. Ma come si fa a divertirsi in luoghi
degradati? Lo schema di gioco sembra il seguente. Da un lato il disinteresse,
direi l'ammutinamento, di larga parte dei cittadini palermitani, frequentatori
delle movide o meno, dall'altra l'amministrazione che interviene quando i
balatoni vengono giù e, in questo caso, che potrebbe ripetersi visto le
condizioni di altri stabili, per sì e per no, erige muri. E magari saranno stati
necessari nel caso specifico. Però, a parte il fatto che gli spazi chiusi
risultano un terreno fertile per i malintenzionati, sono il simbolo più
efficace che si accoppia all'altra dimensione di cui parlavamo prima.
L'indifferenza e i muri, quelli visibili e quelli invisibili, quest'ultimi i più
rognosi, rischiano di diventare le impronte di una città. Stretta tra la logica
del non vedo, a meno che non mi caschi addosso, e quella del tufo. Chi comanda
in questa città, si chiede Enrico del Mercato, in un sintetico ed efficace
editoriale? Dobbiamo rispondere, purtroppo, che ciascuno ha in mano un piccolo
pezzo del mosaico del presente e del futuro di Palermo e lo gestisce come un
diritto inalienabile. Una città divisa in tribù. Ognuna ne tira giù un pezzo
quotidianamente ed è pronta ad scandalizzarsi a corrente alternata. E' questa la
malattia del capoluogo. E' un veleno che non uccide Palermo, perché, certo, una
città non muore mai. Ma i suoi abitanti si. Magari, tra un passo di movida e un
altro, pensano di vivere in una metropoli viva e moderna. In realtà tra
l'olivetta che annega nel bicchiere e un'azione politica che non ce la fa, pur
con tutta la buona volontà di questo mondo, dobbiamo raccontarci una storia che
difficilmente può avere un decorso diverso che non sia il sopravvivere
annaspando. A meno che non si abbia la volontà di riscrivere un nuovo patto di
cittadinanza. Ma, occorre dire onestamente, la situazione appare molto
compromessa. E non si pensi che tale smarrimento della bussola riguardi soltanto
il centro antico (su quello moderno, poi, meglio non parlare). Fatevi una
passeggiata nelle periferie e la sensazione di spaesamento sarà ancora più
netta. Passo spesso da Brancaccio e la situazione, più di vent'anni addietro
descritta da don Puglisi, è peggiorata, ormai costituisce la prassi alla quale
più nessuno si oppone. Insomma, tra centro storico, zone residenziali e
periferie emerge il tesserino di riconoscimento di una città in cui comandano
tutti e non comanda nessuno. Su un aspetto, tuttavia, bisogna essere chiari. A
Palermo non può primeggiare la violenza, il far west. Chi mesi addietro ha
creato disordini a Piazza San Domenico e quelli che a Piazza Garraffello hanno
abbattuto i muri nottetempo, non possono pensare di essere in qualche modo
giustificati. Se dobbiamo scegliere, non sottacendo le lacune di una giunta
municipale da rivedere e di un consiglio comunale di livello non certo
eccellente, stiamo dalla parte di chi ha la legittimazione popolare per agire,
purché non innalzi il vessillo dell'antimafia anche nei casi dove nulla c'entra.
Non stiamo affatto con chi ha scambiato le proprie opinioni in pietre da
scagliare contro un muro che non è certo quello di Berlino. Lì si difendeva la
libertà, qui, con tutto il rispetto, solo un prosecco.