domenica 16 febbraio 2014

I muri della Vucciria e la difesa del prosecco.

La Repubblica Palermo 
15 Febbraio 2014 - Pag. I

Quel muro che divide due città colpevoli

(Le parti in neretto non sono state pubblicate per motivi di spazio)
Francesco Palazzo

Passato il miraggio di essere città della cultura, ci proviamo con l'UNESCO, per diventare patrimonio dell'umanità. Ma la percezione è di avere smarrito il senso di essere comunità dove prevalga la normalità e non l'inseguimento di eccezionalità. È  giusto, in tale situazione, chiamare in causa la politica che ci rappresenta nelle istituzioni e che governa. Ma il quadro va completato. Quel rudere della Vucciria,e i tanti altri sparsi per i quattro mandamenti, era da tempo sotto gli occhi di tutti. Forse quelli della movida palermitana pensavano che potesse risorgere da solo tra un aperitivo e un drink? Come mai s'indignano soltanto adesso? Una residente del centro storico, riferendosi alla movida, ha dichiarato a Repubblica che le sembra di vivere all'interno della sezione gastronomica della fiera del mediterraneo (buonanima). Le sere e le notti dei fine settimana questi luoghi della goduria si riempiono di gente che è assolutamente indifferente al contesto. Gli basta premere sull'acceleratore del divertimento. Ma come si fa a divertirsi in luoghi degradati? Lo schema di gioco sembra il seguente. Da un lato il disinteresse, direi l'ammutinamento, di larga parte dei cittadini palermitani, frequentatori delle movide o meno, dall'altra l'amministrazione che interviene quando i balatoni vengono giù e, in questo caso, che potrebbe ripetersi visto le condizioni di altri stabili, per sì e per no, erige muri. E magari saranno stati necessari nel caso specifico. Però, a parte il fatto che gli spazi chiusi risultano un terreno fertile per i malintenzionati,  sono il simbolo più efficace che si accoppia all'altra dimensione di cui parlavamo prima. L'indifferenza e i muri, quelli visibili e quelli invisibili, quest'ultimi i più rognosi, rischiano di diventare le impronte di una città. Stretta tra la logica del non vedo, a meno che non mi caschi addosso, e quella del tufo. Chi comanda in questa città, si chiede Enrico del Mercato, in un sintetico ed efficace editoriale? Dobbiamo rispondere, purtroppo, che ciascuno ha in mano un piccolo pezzo del mosaico del presente e del futuro di Palermo e lo gestisce come un diritto inalienabile. Una città divisa in tribù. Ognuna ne tira giù un pezzo quotidianamente ed è pronta ad scandalizzarsi a corrente alternata. E' questa la malattia del capoluogo. E' un veleno che non uccide Palermo, perché, certo, una città non muore mai. Ma i suoi abitanti si. Magari, tra un passo di movida e un altro, pensano di vivere in una metropoli viva e moderna. In realtà tra l'olivetta che annega nel bicchiere e un'azione politica che non ce la fa, pur con tutta la buona volontà di questo mondo, dobbiamo raccontarci una storia che difficilmente può avere un decorso diverso che non sia il sopravvivere annaspando. A meno che non si abbia la volontà di riscrivere un nuovo patto di cittadinanza. Ma, occorre dire onestamente, la situazione appare molto compromessa. E non si pensi che tale smarrimento della bussola riguardi soltanto il centro antico (su quello moderno, poi, meglio non parlare). Fatevi una passeggiata nelle periferie e la sensazione di spaesamento sarà ancora più netta. Passo spesso da Brancaccio e la situazione, più di vent'anni addietro descritta da don Puglisi, è peggiorata, ormai costituisce la prassi alla quale più nessuno si oppone. Insomma, tra centro storico, zone residenziali e periferie emerge il tesserino di riconoscimento di una città in cui comandano tutti e non comanda nessuno. Su un aspetto, tuttavia, bisogna essere chiari. A Palermo non può primeggiare la violenza, il far west. Chi mesi addietro ha creato disordini a Piazza San Domenico e quelli che a Piazza Garraffello hanno abbattuto i muri nottetempo, non possono pensare di essere in qualche modo giustificati. Se dobbiamo scegliere, non sottacendo le lacune di una giunta municipale da rivedere e di un consiglio comunale di livello non certo eccellente, stiamo dalla parte di chi ha la legittimazione popolare per agire, purché non innalzi il vessillo dell'antimafia anche nei casi dove nulla c'entra. Non stiamo affatto con chi ha scambiato le proprie opinioni in pietre da scagliare contro un muro che non è certo quello di Berlino. Lì si difendeva la libertà, qui, con tutto il rispetto, solo un prosecco.

lunedì 10 febbraio 2014

Testimoni di giustizia. Qualche spiraglio e una vita difficile.

La Repubblica Palermo

9 Febbraio 2014

I TESTIMONI DI GIUSTIZIA E I RITARDI DELLO STATO

Francesco Palazzo

Grazie all'associazione nazionale dei testimoni di giustizia, i quali quasi sempre vivono lontani dalla loro terra — e già questa è una sconfitta per tutti — che non hanno voluto più essere rappresentati da nessuno se non da loro stessi, è stata approvata la legge numero 125, di conversione del decreto legge 101 del 2013. Il percorso è stato favorito da pezzi di politica sensibili all’argomento. L’articolo 7 consente ai testimoni di lavorare negli uffici pubblici. Parliamo non di mafiosi pentiti, anche se per lungo tempo sono stati trattati allo stesso modo, ma di semplici cittadini che hanno deciso di non girare la testa dall'altra parte quando si è trattato di rivelare fatti o denunciare i loro estorsori. Le crude storie di abbandono, raccontate il 20 gennaio scorso in un programma RAI (Presa Diretta) a loro dedicato, parlano da sole e sono disarmanti. Soprattutto perché ben conosciute dalle istituzioni e dalla politica. Del resto, che questo ultimo passaggio, ossia l’arruolamento tra le file della pubblica amministrazione, sia stato atteso da più di vent’anni, la dice lunga su come sono stati trattati questi cittadini e cittadine che hanno semplicemente deciso, da incensurati, di fidarsi dello stato. Attualmente non superano le cento unità. La norma, che va a modificare una legge del lontanissimo 1991, dispone che queste persone, in analogia a quanto già in atto per i familiari delle vittime di mafia e terrorismo, anche se non più sottoposte al programma di protezione, ma non per questo non più in pericolo, possono accedere a un percorso di inserimento nei pubblici uffici, rispettando titoli di studio e professionalità posseduti. Ora si attendono i provvedimenti attuativi, in particolare, sembra, un decreto che il Ministero degli Interni dovrebbe inviare al Ministero della Funzione Pubblica. Un buon risultato, dunque. Che rischia di risultare problematico nella sua applicazione.