giovedì 28 aprile 2016

Antimafia? Houston, abbiamo un problema.

La Repubblica Palermo
27 aprile 2016 - Pag. I

Perché l'antimafia segna il passo

Francesco Palazzo

 È da rifondare l’antimafia? Se Cosa nostra ci fa compagnia da tre secoli, possiamo dire, parafrasando l’astronauta,«Houston, abbiamo un problema». Come si affronta? Innanzitutto, con spirito laico. Ha ripreso vigore la polemica sul libro di Fiandaca e Lupo, “La mafia non ha vinto”. Gli autori mettono in discussione l’esistenza di una trattativa Stato-mafia. La querelle nasce dal fatto che i due sono stati invitati a corsi per magistrati. Molti testi che si schierano per l’esistenza della trattativa sono stati pubblicati. Fiandaca e Lupo forniscono due punti di vista che ci servono. Poi, occorre non ritenere l’antimafia un blocco monolitico, di fronte al quale trovare la chiave per risolvere il problema. Dovremmo tornare a riflettere sulle antimafie. Concretamente, senza perdersi nei labirinti delle parole. Del resto, se dovessimo non chiamarla più antimafia, ma in altro modo, si risolverebbe forse l’intreccio problematico? Vediamo, dunque, di mostrare alcuni tornanti di questa antimafia che mostra la corda. Cominciamo da quella fatta di emotività. Risposta comprensibile, che spesso nulla lascia sul campo e casistica ampia. Citiamo la polemica sugli occhiali con una frase di Impastato come messaggio pubblicitario, che alla fine portò al ritiro dello spot, e la fiction “Il capo dei capi”. Due messaggi diversi, su un eroe e su un mafioso. Entrambi non sono andati giù a un’antimafia che si ferma all’irritazione. E’ un atteggiamento seriale, che si ripeterà. Dicono gli studiosi che l’emotività contro la mafia non serve. Il secondo lato debole di questa crisi, ha la stessa sindrome. Ci riferiamo alla politica, sia quando si esprime con norme (di solito approvate reattivamente dopo gravi fatti di mafia), sia nella sua vita quotidiana (per i partiti la mafia esiste quando arrestano un loro esponente o i tribunali parlano). Non c’è visione di lungo periodo. Anzi, quando il vento del sangue si placa, si torna indietro. Vedi la modifica alla legge sui collaboratori di giustizia, che ha reso problematica la loro gestione. Erano troppi, adesso sono pochi e l’emergenza è finita. Mentre il parlamento non si pronuncia sul concorso esterno in associazione mafiosa. Spesso la politica ascolta più i Porta a Porta che i servitori dello Stato. Difficile dimenticare il trattamento riservato al prefetto Giuseppe Caruso sui beni confiscati. Un terzo atteggiamento è quello di affidare alla magistratura e alle forze dell’ordine la lotta alla mafia. Un altro sintomo di un’antimafia che ansima è il versante degli affari. Tenendo ferme le garanzie per i singoli, a molti non pare infondata l’ipotesi che talvolta, dietro ai proclami sulla legalità, si possano annidare interessi personali. Un altro aspetto si riferisce all’azione amministrativa. Talvolta si sbarra la strada a valutazioni sulle cose concrete - le uniche che interessano che si facciano, bene, ai contribuenti - innalzando il verbo dell’antimafia. Sciascia, al di là dei casi specifici citati allora, individuava i professionisti dell’antimafia. Il grande scrittore fu insignito, dall’antimafia emotiva, era il 1987, della medaglia di quaquaraquà e posto ai margini della società civile. E chiudiamo con la società civile, la sesta antimafia che segna il passo. Quella delle realtà che campano di finanziamenti pubblici. Qui basta ricordare don Puglisi. Contro la mafia stragista innalzò il vessillo della gratuità, lontana dai soldi pubblici e dalle segreterie dei notabili. Lo abbiamo già scritto. Solo beni e servizi alle associazioni. Se si hanno buone idee, cammineranno lo stesso. Come vediamo da questi pochi spunti, non si tratta di malattie recenti. Occorrono dunque delle cure non episodiche. E l’antimafia virtuosa? Non manca, ma ha il piombo sulle ali messo da quella che non funziona e che spesso crea più icone inamovibili che buone pratiche condivise. Ma c’è. Può avere il volto di Santi Palazzolo, l’imprenditore di Cinisi che ha denunciato un’estorsione. Intervenendo alla Leopola sicula ci pone una domanda. «E’ più antimafia fare le marce o alzarsi alle quattro del mattino, indossare gli indumenti da pasticciere, e dare ogni giorno lavoro onesto a cinquanta persone?». Tale interrogativo ci indica quanto un’antimafia non parolaia debba per forza passare dall’imperativo categorico di creare, ed è compito soprattutto della politica, ma non soltanto, le precondizioni di lavoro vero e non assistito.

giovedì 14 aprile 2016

Riina jr, la televisione, la mafia e noi.

La Repubblica Palermo
14 aprile 2016 - Pag. I
Il figlio di Riina e quelli delle vittime
Francesco Palazzo
(la parte in neretto non è stata pubblicata per motivi di spazio)

Sull’intervista al figlio di Riina, una considerazione preliminare, di serenità mentale. Prima conoscere, poi parlare. Nei giorni precedenti il Porta a Porta un fiume di dichiarazioni ci ha invaso. La politica ha fatto quello che sa fare. Mettere le mani nella RAI. Che va lasciata libera. Anche di sbagliare. Non abbiamo bisogno di una televisione che nasconda il male sotto il tappeto. Sarà sempre tardi il giorno in cui la RAI diventerà un servizio pubblico autonomo. Cane da guardia della democrazia, e nelle democrazie si sbaglia, solo nei totalitarismi non si fanno errori, che sbatta il telefono in faccia a chi pretende di dire ciò che deve andare in onda. Molte volte è accaduto, sui prodotti che parlano di mafia, che ci siano state lamentele. Tutto lecito. Va ricordato, perché si è affermato il contrario, che Enzo Biagi, quando nel 1989 intervistò Liggio, un capo, fu apostrofato con violente critiche. Lui rispose che faceva il giornalista e questo era tutto. Insomma, niente di nuovo. I mafiosi raccontano sempre le loro storie. Se non che spesso alte volano le nubi della retorica e gli sbuffi a perdere della locomotiva Sicilia offesa. Il figlio del capo di cosa nostra mostra il volto familiare di un periodo della sua vita. Difende il padre e non esprime giudizi sul suo spessore criminale. Vespa ha chiarito subito di cosa si trattava (“Trasmetteremo ora l’intervista a un mafioso”). Potevano essere poste altre domande? Tutti gli italiani, come quando gioca la nazionale, sono diventati esperti. E’ bello scoprire, peraltro, che l’Italia è piena di cronisti coraggiosi che sanno fare domande sconvolgenti ai mafiosi. Come mai ancora le mafie stanno in piedi, con tutti questi giornalisti di razza in azione, non riusciamo a spiegarcelo. Chi ha decrittato l’intervista dice che qualche grosso messaggio è partito. Ci troveremmo quasi di fronte ad uno scoop. Tutti abbiamo visto e possiamo valutare se è stata o no bella la figura fatta dal Riina. Dal mio punto di vista è emerso un altro lineamento, quello dell’allievo ufficiale figlio di Vito Schifani, agente morto a Capaci. Il tono della sua voce, le sue parole, il suo volto, la sua emozione. C’è chi dice che sarebbe meglio il silenzio, come condanna alla dannazione della memoria cui i mafiosi dovrebbero essere destinati. Ma anche quando della mafia non si parlava, negandone l’esistenza, pure nelle procure, questa continuava a rafforzarsi. Ed è sopravvissuta lungo tre secoli. E’ questa la vera vergogna, di cui tutti portiamo il peso. Il problema non è raccontare ventiquattro anni di latitanza di Riina, ma che questa ci sia stata. Magari coperta ai massimi livelli. Forse un giorno sapremo perché e come è avvenuto tutto questo dai mafiosi. Sono gli unici che parlano. Non l’hanno fatto, e non lo fanno, pezzi importanti di classe dirigente. E quando la classe dirigente migliore di questo paese, vedi il prefetto Giuseppe Caruso sulla gestione dei beni confiscati, dei quali si è parlato nel Porta a Porta “incriminato”, denuncia e propone, la si guarda con sospetto. C’è pure chi teme il fascino che i giovani subirebbero dall’esposizione mediatica dei mafiosi. Ma i ragazzi non sono scemi e la mafia ha arruolato nuove leve anche quando non c’erano televisione e internet. Hannah Arendt, a proposito dei nazisti, (“La banalità del male”), scrisse che “le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressocché normale, né demoniaco, né mostruoso”. Le vie d’uscita, che la filosofa e giornalista tedesca vede, sono la facoltà di pensare e la distinzione tra giusto e sbagliato. La forza del giudizio. Facoltà che dovrebbero essere nella disponibilità di tutti. La politica, anziché occuparsi di palinsesti televisivi, ponga le condizioni affinché tutti diventino cittadini senza catene. Non servono né balie, né divieti, come i libri che non si vendono. La politica lotti la mafia. Cittadini liberi e responsabili e politica seria possono sconfiggerla.  Il resto, talvolta, è solo fumo che vola. 

giovedì 7 aprile 2016

ZTL a Palermo. Qualche proposta dopo la botta.

La Repubblica Palermo
6 aprile 2016

Il divieto e il rischio dell'effetto calamita
Francesco Palazzo
Sulle Ztl palermitane, a prescindere dai problemi sulle modalità di pagamento, rispetto alle quali non si capisce come si potrà ovviare in otto giorni (dal 7 al 14 aprile), ammesso che il Tar sia in «sinergia » con il Comune nel giorno del giudizio, si può avanzare un’ipotesi che cercheremo di dimostrare. La vasta area interessata può determinare una specie di effetto calamita. Abbiamo già detto che questa Ztl palermitana è differente in un punto fondamentale rispetto a quelle conosciute, pagando un abbonamento annuale, un semplice cittadino non appartenente a particolari categorie, può accedere indisturbato da non residente. Questo è il discrimine tra ciò che si può chiamare Ztl e ciò che si deve nominare necessariamente in un altro modo. E ciò fa del messaggio che il comune vorrebbe inviare, ossia meno inquinamento, un qualcosa di profondamente diverso. Cominciamo dal numero di auto che comunque non potranno entrare. A questa quantità vanno tolti i mezzi che appartengono ai residenti abitanti dentro il grande perimetro. Che sono messi con le spalle al muro. Anche se non prendono le macchine, tenendole posteggiate e dunque per nulla minacciose per i livelli di smog, devono pagare l’obolo annuale, novanta euro. Molti residenti se la sono pensata. Giungendo alla conclusione che, visto che devono pagare, l’auto la utilizzeranno sempre. Anche se magari in genere molti di loro preferirebbero, anche per scelte ambientaliste, servirsi dei mezzi pubblici. Invece di fare muro contro muro, mostrando che il vero problema è fare cassa, si poteva, e si potrebbe ancora, optare per un sistema misto per i residenti. Dando loro la possibilità di pagare la quota annuale, se vogliono, oppure di non pagare e lasciare la macchina ferma nelle ore proibite o al massimo usufruire di permessi giornalieri al bisogno. Insomma, a quest’ampia fascia di abitanti palermitani il messaggio che si manda vira più sull’istigazione a prendere, compulsivamente e quasi per dispetto, l’auto, che verso il convincimento a non prenderla senza pagare nulla. Anche per i non residenti, il dispaccio dell’amministrazione, che li vorrebbe tutti paganti, giunge forte e chiaro. A tutti, anche a coloro che al centro non ci vanno quasi mai e che, pagando, si sentirebbero nel diritto di fare ripetuti giri di giostra da abbonati con il posto in prima fila. Anche in questo caso, per fare le cose senza radicalismi e singolarità rispetto a quanto avviene nelle altre metropoli, si poteva, e si può, eliminare la quota annuale e consentire, sempre con i cento euro, un certo numero d’ingressi, mettiamo venti, da spendere in un anno. Dopo si inizia a pagare ad accesso. Se si vuole dissuadere davvero e non invitare a fare giri di giostra. Per chi nello sterminato ring lavora, fa impresa, ha studi professionali occorre trovare delle soluzioni che non pregiudichino un’economia che già non gira a mille. Fa male l’amministrazione a liquidare questo problema con un’alzata di spalle. Vanno potenziati i mezzi pubblici che convergono verso le zone a traffico limitato. A meno che, ma sarebbe una scelta da suicidio, non si ritengano già sufficienti i percorsi dei tram che portano dritti a due centri commerciali. Ora, sia che il Tar faccia passare o che blocchi, c’è il tempo di tornare a logiche più ragionevoli, se davvero si ha a cuore l’aria che respiriamo. Se invece il solo problema è fare incasso facile, tacciando per giunta i palermitani di essere duri ai cambiamenti, si prosegua nella strada intrapresa. In questo caso, però, potrebbero essere i palermitani a dare ai governanti una lezione di maturità. E la cosa stava già avvenendo prima del blocco dei pagamenti. Come leggere, infatti, l’enorme divario tra coloro, pochi, che stavano pagando, quasi sempre perché obbligati, e i tantissimi, la stragrande maggioranza, che hanno deciso di accettare la sfida di un’aria più pulita e perciò non pagando stavano, stanno, utilizzando questo provvedimento come una vera e seria Ztl? Insomma. Per chi suona la campana? Per gli amministratori, che si sentono moderni, o per gli amministrati, che si vorrebbero antichi e resistenti?