domenica 30 maggio 2010

Odiare e amare Palermo?

Da LiveSicilia
30 5 2010
Francesco Palazzo

Devo dire la verità. Tutte quelle volte che ascolto di questo duplice sentimento contrastante verso Palermo, amore e odio, che molti sentono in maniera viscerale, non riesco a trovare in me un solo momento in cui ho provato questi due stati d’animo. Sarà perché prevale l’indifferenza? No, non credo sia questo. Il fatto è che questi sentimenti di amore e di odio verso Palermo li ho sempre percepiti come degli eccessi umorali e nient’altro. Un giorno si ama e uno si odia. Chi ama Palermo, spesso, prova quella passione devastante che non fa ragionare. E sono, questi, gli amori che durano poco. Rispondono più alla pancia che al cuore e alla testa. Ed anche l’odio ha le stesse caratteristiche. Perché quelli che odiano Palermo sono quelli che l’hanno amata e coccolata il giorno prima. Che, magari, hanno trascorso l’ultima notte con lei. Respirando durante una passeggiata con gli amici la brezza primaverile unica che questa città dona alle porte dell’estate. Si può morire di troppo amore o di troppo odio verso il luogo che ci ha dato i natali. E anche se non si muore, non si vive certo bene. Anche perché spesso, per fare un esempio, quando si parla male di Palermo, lo si fa dopo essere stati fuori. Misurando altri gradienti di civiltà e di funzionamento di tutto ciò che è pubblico e privato. “Caro mio, lì non è come da noi”. Questa la frase d’uso. Dimenticandosi che sino al giorno prima di partire e dal giorno dopo il ritorno, nella vita privata e pubblica, non si fa altro che tradire l’amore teorico e alimentare l’odio pratico verso la città. Allora penso che quando si guarda a questa terra, può essere Palermo o la Sicilia intera, bisogna imparare a guardarsi da coloro che il lunedì bruciano d’amore e il martedì divampano nell’odio, a giugno sono pieni di tenerezza e a luglio sono devastati dalla spietatezza. Questi non hanno la lucidità per aiutarsi a divenire cittadini adulti e aiutare la città a essere migliore giorno per giorno. Perché saranno orientati a difenderla quando gli altri ne parleranno male, anche a ragione. E si troveranno a criticarla pure se qualcuno ne metterà in rilievo degli aspetti positivi, che certo non mancano. Questa città ha bisogno di essere guardata, almeno da chi resta, perché per chi va via andrebbe fatto un discorso differente, e non c’è lo spazio, con serenità, pacatezza, lucidità, competenza. Ricordandosi che è come è, nelle sue luci e nelle sue ombre, proprio perché è così che l’abbiamo generata e la continuiamo a pascere. Se le abbiamo donato pietanze preparate con cura, raccoglieremo cose buone, se l’abbiamo avvelenata con il fiele del disinteresse e dell’incuria, ecco che vedremo nascere frutti immangiabili. Ma non sarà Palermo che ce li darà, ma noi stessi raccoglieremo quanto seminato. Da noi o da chi ci ha preceduto. Dobbiamo uscire fuori, una volte per tutte, dalla dicotomia insanabile che ci sballotta tra irredimibilità e paradiso terrestre. Non siamo né l’una né l’altro. Ma sapere cosa non si è, mi rendo conto, non può bastare. Anche perché il peso del passato è forte come un macigno. Proprio ieri un sensibile rappresentante di partito, incontrato casualmente davanti al Teatro Massimo, pensato e voluto da chi ha amato certamente prime se stesso e poi, ma solo come conseguenza, la città, mi confessava che non riuscirà mai a perdonare chi ha stravolto intere zone del territorio cittadino. E parlava di una impossibile indulgenza laica, civile, non religiosa. Capisco questo stato d’animo, in passato è stato un pò anche il mio. Oggi, tuttavia, la metterei diversamente. Più che chiederci se e quanto odiamo o amiamo Palermo o quanto detestiamo certe sinistre figure che l’hanno sfigurata, dovremmo sperimentare un punto di domanda diverso. Che consiste nel capire come possiamo farci perdonare da questa città. Dalle sue vie deturpate, dal suo respiro storico millenario affannoso, dai suoi quartieri periferici trasformati in non luoghi. Dobbiamo avere il coraggio di darci delle risposte serie, credibili, oneste. E poi cominciare ad operare. Affinché le future generazioni, più che odiare o amare Palermo, non odino noi. Per ciò che per Lei potevamo fare e non abbiamo fatto.

sabato 29 maggio 2010

Primarie, votare per non decidere

LA REPUBBLICA PALERMO - SABATO 29 MAGGIO 2010
Pagina I
Il popolo delle primarie tradito dai dirigenti
Franceso Palazzo

C´è un virus che si è inserito nel corpo del Pd regionale e di tutto il centrosinistra. Riguarda proprio lo strumento principe che il centrosinistra si è dato per far decidere i cittadini e non tenerli lontani dalle stanze del potere. Parliamo delle primarie. Per carità, sull´uso fattone sinora si possono avanzare tanti rilievi. Se passiamo in rassegna gli appuntamenti siciliani passati, possiamo vedere che non sempre si è trattato di vere e proprie competizioni. Spesso, o quasi sempre, il vincitore, o la vincitrice, erano già abbondantemente annunciati. Tuttavia sono stati sempre momenti di partecipazione e di festa, tanto che ogni volta ci si sorprende delle lunghe file ai gazebo. Sorpresa, per la verità, abbastanza eccentrica, visto che è proprio il popolo che vota centrosinistra a richiedere con insistenza di poter decidere direttamente.Poi, magari, non si è saputo capitalizzare questo fiume umano che ogni volta si è presentato pagando l´obolo. Se, per caso, chiedessimo come sono state utilizzate le liste dei votanti, ci renderemmo conto che giacciono in qualche cassetto. Eppure una base di decine e decine di migliaia di persone potrebbe costituire un volano portentoso per costruire veramente i partiti sul territorio e non solo sui giornali. Sinora però si erano sempre rispettati i risultati delle consultazioni. Negli ultimi tempi, invece, sono accadute due vicende che ripongono tutto in discussione. Sono due circostanze abbastanza importanti, verso le quali sia il Pd che l´intero centrosinistra non hanno posto la dovuta attenzione. E non è che siano accadute in piccoli centri di secondaria importanza. Parliamo di Enna, capoluogo di provincia, e di Gela, sesto comune della Sicilia. I fatti sono noti. A Enna il deputato Vladimiro Crisafulli si è candidato alle primarie per concorrere alla guida della sua città. Le ha vinte con il 61 per cento, poi ha fatto un passo indietro dopo che alcuni esponenti del suo partito avevano investito della vicenda la segreteria nazionale. Cosa avranno pensato gli ennesi che si erano mobilitati per questa elezione primaria? Forse che la democrazia partecipata è solo un passaggio che può essere macinato negli scontri interni di un partito e di una coalizione. Se la prossima volta non si presenteranno a votare ai gazebo, potremmo fargliene una colpa? Certamente no. A Gela abbiamo registrato un caso contrario. Il parlamentare regionale e presidente della commissione Antimafia, Calogero Speziale, volendo partecipare alle amministrative della sua città e desiderando competere per ricoprire quella che fu la poltrona di Rosario Crocetta, si è anche lui confrontato con le primarie. Uscito perdente, seppure per pochi voti, ha comunque deciso di partecipare alle elezioni contro il suo partito. Due casi che sottolineano, se ve ne fosse ancora bisogno, lo stato confusionale in cui versa il Pd. E, appresso a lui, tutto quello che fu il centrosinistra. Perché non si possono annullare, di fatto, le primarie a Enna, con il timbro della dirigenza nazionale del partito, e poi chiederne il sacro rispetto a Gela, minacciando espulsioni dal Pd. Delle due l´una. O le primarie sono uno strumento di importanza centrale nella vita del partito, e allora se ne rispetta sempre il responso, così come si fa con le elezioni vere e proprie. Oppure sono un altro modo di condurre, successivamente ai risultati, le lotte politiche all´interno del partito. Se ne è visto un esempio, abbastanza lampante, dopo le primarie con cui si è scelto il segretario regionale dei democratici. Dove il congresso, che doveva soltanto registrare il risultato uscito fuori dai gazebo, se lo è cucinato come ha voluto. Con i risvolti politici a livello regionale che ben conosciamo. Se le primarie sono soltanto un pretesto per consumare faide interne, non ci può meravigliare se prevalgono, su tutto, gli umori personali e gli interessi di cordata. I due casi di Enna e Gela declinano in tal senso. Sarebbe il caso che il Pd regionale, tra una riforma e l´altra, ci riflettesse un attimo. Altrimenti prevarrà, ci vuole poco a ipotizzarlo, la progressiva disaffezione verso una pratica di democrazia diretta della quale non ci si fiderà più.

giovedì 27 maggio 2010

Perchè è un problema non seguire il proprio leader

Il messaggio della pubblicità contestata, apparsa per le vie di Palermo, è abbastanza chiaro. Cambiate stile. Non seguite il vostro leader. Perché, appunto, il leader, soprattutto se vuole fare fuori un del po' di umanità come Hitler, che compare nei cartelloni con un cuore impresso sul braccio al posto della svastica, non è proprio un bell'esempio da seguire. Discorso chiuso? Se si fosse dato il significato corretto alla parole, la querelle non si sarebbe neanche aperta. E, invece, alte si sono levate le proteste, arrivate sin dentro le stanze della presidenza della repubblica. Ora l'azienda che ha ideato la campagna di comunicazione, riuscendo a farne parlare l'Italia intera, annuncia altri manifesti simili con al centro il grande timoniere Mao. Si prepari, il presidente Napolitano, a ricevere altre missive di protesta. Eppure, se l'invito a non seguire il leader ed a cercare un proprio stile è rivolto ai giovani, come pare che sia, non può che essere accolto con favore. E ciò vale anche per gli adulti. Che in politica, nella società, nel posto di lavoro, in chiesa, non attendono altro che di trovare un punto di riferimento da seguire e di cui innamorarsi in maniera acritica. La strada che porta a far scattare tale meccanismo è abbastanza visibile. Guardiamo, per cominciare, un attimo la vita politica siciliana. Cosa è, al momento, al di là dell'opinione che ciascuno può avere sulla sostanza delle cose, se non un valzer ballato da poche persone che stanno decidendo ciò che è buono e ciò che non lo è per tutti. Voi vi ricordate delle elezioni? Roba passata, conta soltanto la volontà di alcuni, che, giorno per giorno, ci dicono, e quasi dobbiamo ringraziarli, cosa è meglio per la Sicilia. E' un liderismo che sorge nel vivo del tessuto democratico e perciò fa meno paura. Tanto che ci siamo abituati a considerarlo come assolutamente fisiologico. Spostiamoci un attimo in un ambiente completamente diverso. Vi sarà certamente capitato in questo periodo di assistere in qualche chiesa ad affollatissimi riti di prima comunione. Decine di ragazzini e ragazzine, in chiese spesso piccole, riempiono con centinaia di parenti, molti ovviamente in piedi o fuori dalle chiese, ogni angolo interno ed esterno. Gli unici che parlano, che ha decidono, che orientano cose e persone, sono i parroci. Nessun tipo di interazione, se non un ascolto distratto, visto che i luoghi di culto sono pieni all'inverosimile, è richiesto. Anche qui nessun problema. Gente adulta, anche studiata, che segue il leader di turno, senza che senta l'esigenza di partecipare o di modificare un minimo quanto già predisposto dal ministro di dio. Tutto normale? Certo, poiché questi meccanismi di massificazione e di trasferimento verso l'autorità sono ormai entrati nel metabolismo culturale di tantissimi, non ci si pone alcuna domanda. Perché è come se per le nostre strade campeggiasse costantemente un'altra campagna pubblicitaria, con lo slogan “seguite il vostro leader”. E se davvero comparisse domani, per pubblicizzare un altro marchio, magari senza la foto poco rassicurante dell'uomo con i baffetti, ma con l'immagine di un santo, pensate che qualcuno si preoccuperebbe? No, ormai c'è l'assuefazione a correre dietro qualcuno. Lo si può vedere anche nel corpo vivo della società di questa città e di questa regione. Basta che un tizio qualsiasi indichi una rigenerazione politica, contro i partiti e contro tutto, magari ricopiando il peggio del peggio dei partiti, in termini di propaganda e di pressapochismo, ecco che trova subito audience e tifoserie pronte all'uso. Insomma, il problema non è quel manifesto che tanto, incredibile e ingiustificato, scandalo sta creando. Ma il fatto che quel messaggio, non seguire il tuo leader ma ragiona con la tua testa, fa scattare la veemente copertura di un'abitudine che oramai si è cristallizzata e non si vuole mettere in discussione. Cambiarla sarebbe un trauma. Francesco Palazzo

domenica 23 maggio 2010

Cosa ci poteva dire una magnolia nuda

Oggi è forse il caso di riprendere la vicenda dell’albero di via Notarbartolo. Certo. Se non oggi, quando? Vi ricorderete. Ci siamo buttati a corpo morto su quella povera magnolia prima di capire cosa fosse successo. Era stata la mafia o una ragazzata? Inquietanti entrambi le ipotesi. No, era stata una persona sofferente, una delle tante che vediamo in giro per la nostra città. Che ignoriamo e che ci ignorano. E che probabilmente con questo gesto sconsiderato ci ha voluto dire, ci sono anch'io. Forse si poteva evitare tutto quel parapiglia, bastava che funzionasse la telecamera piazzata davanti a quella che fu l'ultima dimora terrena di Giovanni Falcone. Strano, no? Quel luogo è uno dei simboli più gettonati, nel panorama nazionale e mondiale, della lotta alla mafia e non c'è uno straccio di video sorveglianza funzionante. Non è la prima volta che accade e non è questo il punto. Ormai l'allarme era partito e molta gente si è recata a riempire nuovamente l'albero. Tantissimi, bambini, giovani, adulti, animati dai più buoni propositi, non c'è dubbio. Ma tanti anche mossi dalla possibilità di fare bella figura a buon mercato. Come dice la pubblicità: ti piace vincere facile? E che ci vuole, quasi un gioco da ragazzi, fare l'antimafia in questo modo, non ci si sporca neanche il vestito della domenica. E oggi è proprio domenica. Soprattutto se si rappresentano istituzioni che non si fanno funzionare come dovrebbero. Sarebbe questa la vera antimafia? Certo, lo sanno pure le pietre, ma è meglio evitare. Questo è un campo dove è difficile, molto complicato, vincere facile. E, infatti, ci perdiamo un po' tutti. Eppure quell'albero svuotato, qualcosa voleva pur dire. Non soltanto a quelli che hanno subito cercato oscenamente visibilità gratuita sotto i suoi rami. Ma pure a quello che una volta si definiva movimento antimafia e che oggi non saprei come chiamare. Disperso, com’è, in mille rivoli, l'un contro l'altro armati o, se va bene, non comunicanti. Le cose difficilmente accadono per caso, o a volte la casualità si fa carico di scoprire qualcosa che, per tutta una serie di motivi, alcuni nobili, altri meno, si preferisce tenere ben nascosta. E cosa voleva comunicare quella magnolia denudata? Difficile rispondere adesso. E' stata, da subito, ricoperta. In fretta, prima che sorgesse qualche domanda e ci si dovesse dare qualche risposta. Seria, onesta, non retorica. Subito ho avuto la sensazione che stava accadendo come quando si ha vergogna di qualcosa verso la quale ci si sente, in fondo, corresponsabili e perciò si tende a rivelare, ossia a velare nuovamente, ricoprire, nascondere, occultare. Quando invece si dovrebbe avere la forza di svelare, ossia di rendere visibile a tutti la sostanza, tralasciando di occuparsi della forma, affinché questa torni, pulita e candida, al suo posto e plachi le coscienze. Si doveva avere la forza di lasciare quell'albero così com'era stato ridotto. Malconcio, nudo, pieno di ferite. Non per sempre, sia chiaro. Sarebbero bastate alcune settimane, magari sino all'anniversario di oggi, 23 maggio 2010, il diciottesimo. Mettiamo che l'albero sofferente sia la lotta alla mafia, condotta nella politica e nella società. Cosa ci poteva dire in questa domenica quella grande magnolia denudata, violata, se solo gli avessimo dato il tempo di parlarci? E' un punto di domanda che ciascuno, se vuole, può portarsi appresso sino a lunedì. Oppure, se infastidito, può scaricare immediatamente con una scrollata di spalle. Magari mentre apprende, proprio oggi, domenica di passione, con una dolorosa, per l'albero, puntina di metallo il suo bel cartello sul tronco dell’albero Falcone. Sì, forse quella povera signora, come il bambino della favola, ci ha voluto indicare che il re è nudo. Ma abbiamo avuto troppa paura. E subito l’abbiamo rivestito. Francesco Palazzo

venerdì 21 maggio 2010

Casa ai Rom, quando la politica insegue le paure

Francesco Palazzo

Dunque il Comune ci ha ripensato. L’attico di via Bonanno, a Palermo, non andrà più alla famiglia rom. Le proteste dei residenti hanno convinto l’amministrazione a fare dietro front. Non è la prima volta, e non solo su quest’argomento, che l’esecutivo alla guida di Palermo, si fa per dire, fa marcia indietro. I nostri amministratori, tuttavia, in questo caso hanno dato il meglio. Cercando di porre una pezza all’insurrezione popolare, che non c’era stata quando l’attico apparteneva alla mafia, non si sono resi conto che hanno creato un pericoloso precedente. Come fanno ad essere sicuri che pure gli abitanti dello stabile di corso Calatafimi, nuova destinazione della famiglia rom, non scenderanno in piazza? Nessuno si potrebbe meravigliare, meno di tutti il Comune, se ciò accadesse. E, del resto, perché non dovrebbero farlo, visto che il governo cittadino si è già abbassato come il famoso giunco la prima volta? E se anche nella nuova destinazione si verificasse una sollevazione popolare simile a quella di via Bonanno, verrebbe forse trovata un’altra casa, e poi un’altra ancora? Sempre più in periferia, magari come tappa finale il campo rom. E non è finita qui. La vicenda suggerisce, tra le altre, pure una preoccupante sottolineatura. Per dirla chiaramente, con questa scelta senza criterio si sancisce, ufficialmente, che la città è composta di aree di serie A, che basta che alzino il sopracciglio affinché l’amministrazione se la dia a gambe, e zone di serie B, che si pensa, ma chissà se andrà così, di poter controllare meglio. In parole povere, ciò che non può essere accolto nel salotto affrescato di via Libertà, può benissimo trovare accoglienza nel vecchio ripostiglio di corso Calatafimi. Insomma, da qualsiasi parte si guardi questa pietosa vicenda, davvero fa acqua da tutte le parti. E abbiamo l’impressione che ne sentiremo ancora parlare. Ciò avviene proprio nel momento in cui allo Zen è in corso la guerriglia per lo sgombero degli abusivi che hanno occupato illegalmente case già assegnate ad altri. Da una parte si sposta, come una pedina inanimata sulla scacchiera del disagio, chi ha ottenuto una casa nel rispetto di una graduatoria, mettendosela, di fatto, sotto i piedi, dall’altra si allontanano coloro che hanno occupato case non tenendo conto di una lista d’attesa. Circostanze che ci dicono tanto circa l’assenza di una politica sull’emergenza abitativa da parte di questa amministrazione. Ma non c’è solo questo e non riguarda solo l’oggi. La politica residenziale e urbanistica popolare degli ultimi decenni, che ha creato dei veri e propri ghetti dove trasferire tutto il disagio sociale, ha prodotto vere e proprie enclave di illegalità. Non ha diminuito, anzi aggravato, il disagio e ha reso più difficile la vita in quartieri già problematici. Tale politica abitativa, che ancora allo Zen e in altri posti si continua a perpetrare, creando dei non luoghi, deve essere del tutto abbandonata. Perché si continuano a costruire e assegnare case allo Zen? Quale poteva essere e qual è l’alternativa percorribile? Si può dire in due parole. Se le persone bisognose di una casa si fossero integrate singolarmente nel tessuto cittadino, nei luoghi dove già esisteva una socialità in grado di rendere migliore la loro vita, la storia di questa città sarebbe stata diversa e migliore. Si sarebbero tolti alle cosche dei serbatoi sempre pieni di manovalanza e di consenso. Ma è una politica che ha bisogno di una mano ferma. Non quella tremolante che cerca di trovare il muro basso di corso Calatafimi cui affibbiare ciò che il muro alto di via Bonanno non vuole. Un’amministrazione forte del primato della politica e del consenso, aspetti che evidentemente difettano a chi guida da un decennio la nostra comunità, avrebbe avuto la forza di far rispettare la propria scelta ai protestanti di via Libertà. Non è andata così.

venerdì 7 maggio 2010

Come è facile prenotare una TAC

LA REPUBBLICA PALERMO – VENERDÌ 07 MAGGIO 2010
Pagina XV
L´odissea di un cittadino nella sanità riformata
Francesco Palazzo

Sì, va pure bene la riforma della sanità, di cui è appena stato festeggiato il primo genetliaco. Anche se ancora è presto per vedere i risultati e spegnere candeline. Ma mettete che un anziano debba, oggi, prenotare una Tac e decida di farlo contattando la nuova azienda Villa Sofia-Cervello. Prova a telefonare al numero che gli hanno dato, dopo alcuni giorni capitola, non riesce a mettersi in contatto. Forse con la mano tremante sbaglia a comporre il numero, oppure l´ha scritto male. Passa al piano d´emergenza. Consistente nel chiamare il figlio, quello studiato, affinché affronti la delicata questione. E il figlio, giovane e aitante, pensa sia una bazzecola. Prova, in giorni diversi, a fare tre volte il numero del centro di prenotazioni di Villa Sofia. Non si formalizza, in fondo ha fatto centro al terzo tentativo, manco Miccoli ha questa media. Solo che il Cup, che è il centro unico per le prenotazioni, proprio unico non è. Perché, dicono, che la tac va prenotata chiamando la radiologia. Non c´è problema. Una voce ti dice che telefonicamente non si può, occorre presentarsi lì, di mattina, con la prescrizione e prenotare di persona personalmente, come direbbe quel personaggio del commissario Montalbano. Cosicché, bisogna recarsi due volte presso il nosocomio. Una volta per fissare la data, un´altra per effettuare l´esame. Per un anziano solo e sofferente, non è una passeggiata. Certo, il figlio può prendersi un permesso dal lavoro per andare a prenotare. Si tratta di prendere l´auto, intasare ancora di più la città, consumare carburante, spendere soldi per il posteggio, quando tutto si potrebbe risolvere con una telefonata. O, sia detto senza offesa, per via telematica. Si prova a cambiare direzione rivolgendosi al Cervello, l´altro partner della fusione. Può essere che telefonicamente si riesca a risolvere. Occorre, per inciso, rilevare che è incomprensibile come ancora non vi sia un numero unico di prenotazione all´interno della stessa azienda, ma ben tre, anzi quattro come poi scopriremo. O forse di più. Pensa che, pure in questo caso, occorra chiamare la radiologia. Sta scherzando?", rispondono. Da loro, diversamente da Villa Sofia (ricordiamoci sempre che sono da mesi la stessa azienda) è il Cup che prende anche le prenotazioni per le Tac. Bene, anche questo ulteriore numero viene segnato. Ma non è quello vincente. Si torna sul sito dell´azienda e si prende il numero lì indicato. Risponde una voce professionale: "Sono N. come posso esserle utile"? Gratificante, ma non può risolvere il problema. Bisogna chiamare il call center del Cervello, dice, informandoci che il tempo d´attesa per l´esame è di due settimane. Il call center lavora dalle 8 e 30 alle 17. Lui è in gamba e da una dritta. Meglio non chiamare prima delle 14 e 30, si rischia di fare un buco nell´acqua. Cosa facilmente riscontrabile. A questo punto si verifica se alla radiologia di Villa Sofia, con cui almeno può esserci un contato fisico, i tempi sono gli stessi del Cervello. Siamo nell´ultima settimana di aprile. Ebbene, se la Tac è senza mezzo di contrasto se ne parla a fine maggio, informano, se ci vuole il mezzo di contrasto si deve attendere un mese. Non si capisce la differenza, in entrambi i casi sempre di un mese di attesa si tratta. Ma non è il caso di insistere più di tanto. Ora rimane la scelta. Continuare a chiamare il call center del Cervello, dopo le 14 e 30, o recarsi con il corpo e lo spirito a Villa Sofia? Si opta per la seconda soluzione. Il primo sabato mattina, unico giorno libero, il giovane figlio va alla radiologia generale di Villa Sofia. L´addetto è attonito. Non è lì che si prenota, lo sanno tutti. Loro fanno solo gli esami. «Occorre recarsi alla radiologia di geriatria». Altra rampa di scale, consulto rapido, sotto la pioggia, con almeno tre operatori sanitari e finalmente ci s´introduce nella stanza giusta. C´è una signora che pare aspetti te. Rapida e premurosa. Tutto si risolve in meno di un minuto. L´esame è per i primi di giugno. Missione compiuta. C´è solo un piccolo strascico. Occorre, il giorno dell´esame o anche prima, ma bisognerebbe impiegare un´altra mattina, bollare la ricetta passando dallo sportello apposito. Si prospetta, quindi, una bella coda. Ma questa è un´altra storia.