venerdì 31 luglio 2015

Posteggiatori abusivi: Il pizzo che si paga senza problemi.

Repubblica Palermo 
30 luglio 2015
Pag. I
La dittatura dei posteggiatori
Francesco Palazzo

Sul fronte posteggiatori abusivi, abbiamo appena registrato la protesta degli stessi perché all’Ospedale Cervello di Palermo si è deciso di far pagare il parcheggio, assicurando alla struttura ospedaliera un canone superiore al milione di euro in cinque anni. Novecento posti auto che non andranno più ad alimentare le tasche di quanti pretendono di guadagnarci sin dentro un nosocomio, ma quelle di una struttura pubblica. Ora, capiamo lo “sdegno” degli abusivi, ma non abbiamo compreso, al di là dei piccoli disagi iniziali, la protesta degli altri. Avete mai sentito di ribellioni quando nel grande piazzale suddetto si doveva dare l’obolo ai parcheggiatori “proprietari” del suolo?  In questa città, quando si converge verso la legalità, guadagnandoci pure, ecco che sorgono le invettive. Prima avevo un atteggiamento di contesa con questa gente, che non è messa lì per caso, ma deve farsi autorizzare dalla “ditta” che ha il controllo del territorio, ossia Cosa nostra. Ora, faccio semplicemente finta di non vederli. Pago, se la sosta è a pagamento, nelle macchinette o acquistando i tagliandi, oppure lasciando l’auto se la sosta è libera, imponendomi di non sentire la frase “duttù, u cafè nu pighiamu uora o dopo?”. L’altro giorno, zona Politeama, un panormosauro imponente, vedendo che sto pagando alla macchinetta, mi dice di stare tranquillo, di non farlo, ci avrebbe pensato lui. Rispondo che sono tranquillo, preferisco pagare ciò che devo e che si tranquillizzi pure lui. Capisce l’antifona e corre verso altre auto, sapendo che qualcosa, pur trattandosi di zone blu al centro città, racimolerà. Perché a Palermo coloro che pagano questo pizzo all’aria aperta sono in tantissimi e lo fanno senza fiatare. Sino a quando, ovviamente, non c’è che da prendersela con il muro basso di una pubblica istituzione che decide di cambiare radicalmente questo stato di cose. A quel punto il coraggio dell’invettiva si trova. Del resto, lo vedo ogni giorno in zona residenziale, con questa gente, che subappalta nelle ore serali le zone di’influenza a extracomunitari, molta classe dirigente socializza alla grande, paga, sorride, ricambia il saluto, che è come riconoscere la signoria territoriale a chi non ha nessun titolo per esercitarla, se non la violenza che può mettere in atto contro il tuo mezzo. E’ questa paura che va superata, perché se fossero sempre di più quelli che non pagano, il fenomeno si eliminerebbe da solo. Ovviamente, occorre che l’esempio sia dato anche da chi rappresenta le forze dell’ordine. Un piccolo esempio. Nelle adiacenze di un bar del centro residenziale, ogni mattina, si creano sino a tre strati di macchine che formano una pericolosa barriera di lamiere in prossimità di una curva obbligata. Ebbene, sovente è possibile scorgere pure auto pubbliche adagiate sull'asfalto, diciamo così, in maniera creativa. Un giorno faccio notare la cosa a un agente. “Guardi che quelle macchine messe in quel modo sono pericolose”. Fa un cenno al gentile posteggiatore di farle spostare. Insisto. “Guardi che quello è un parcheggiatore abusivo”. Risposta. “Non mi dica niente, stendiamo un velo pietoso”. Una possibilità di mostrare che cambiare si può, potrebbe essere messa in mostra durante le partite del Palermo. I dintorni del Barbera si riempiono di posteggiatori abusivi che stanno a pochi passi dalle forze dell’ordine. Non si potrebbe tentare, lo diciamo a prefetto, sindaco e questore, dal prossimo anno una vigilanza “pubblica” dei mezzi lasciati dai tifosi che si recano a vedere la partita? Non si stratta di un territorio sterminato. Chissà se assisteremo mai a un miracolo del genere. Intanto, proprio a pochi metri e sin dentro il glorificato percorso arabo-normanno, uno lo abbiamo visto l’altra sera esattamente a ridosso di S. Giovanni degli Eremiti, i posteggiatori abusivi, forse anche loro promossi a patrimonio dell’umanità, continuano a imperversare. 

domenica 19 luglio 2015

Lotta alla mafia: ripartiamo dalle periferie.

Repubblica Palermo 
17 luglio 2015 - Pag. I
Un nuovo inizio senza carrierismi
Francesco Palazzo


La mafia dentro l’antimafia, l’antimafia dentro la mafia, l’antimafia per fare carriera, i proclami sulla legalità che nascondono atteggiamenti contrari, l’antimafia come metallo non più coniabile. Niente di nuovo sotto il sole. Da quando esiste la mafia vivono anche queste eterne querelle. Si giunge così a questo 19 luglio 2015. Che sia un passo indietro o l’uscita necessaria per andare altrove ce lo dirà il tempo. Sembra, intanto, che la profezia di Sciascia sui professionisti dell’antimafia, che nel 1987 infiammò il dibattito pubblico, sia ormai moneta corrente. Pare che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, anche loro accusati, sappiamo quanto ingiustamente, di carrierismo da vivi, per farne eroi da morti, non pronunciarono mai il termine antimafia. Anche se al loro tempo, quando ancora qualcuno diceva che la mafia non esisteva quel suffisso, anti, poteva avere un senso. Oggi non l’ha più quel senso? Difficile rispondere alla domanda. Sulla lapide di San Domenico, sotto la quale giace da alcune settimane il corpo di Falcone, c’è scritto “eroe della lotta alla mafia”, che si può tradurre “eroe dell’antimafia”. Mettiamo da parte una domanda cui, al momento, non sappiamo rispondere. Forse quello che può dare fastidio, sono le parate istituzionali che nei giorni delle due ricorrenze principali, il 23 maggio e il 19 luglio, e già qui c’è una graduatoria di fatto rispetto alle altre vittime, si sciorinano nei due luoghi simbolo, l’Albero Falcone e Via D’Amelio. Ma insieme con esse, lo sappiamo, ci sono centinaia, migliaia di persone per le quali l’essere in quei luoghi ha il senso di una testimonianza civile, di una rinnovata memoria, di un tentativo di sottrarre tutto all’oblio. Ma poi si dice un’altra cosa. La lotta alle mafie è fare ogni giorno il proprio dovere, nei luoghi in cui ci si trova, contro le prepotenze, gli intrighi, le corruzioni, contro il malaffare che ci si presenta davanti. Questo il senso che la famiglia Borsellino vuole dare all’assenza di quest’anno da via D’Amelio. E non si può che essere d’accordo con questa declinazione del proprio impegno personale, che non ha bisogno di fanfare, lustrini e parole roboanti. Tuttavia, in questa vicenda c’è anche un aspetto collettivo, corale, di popolo, da salvaguardare. Cosi mi pare. Magari non coincide con le navi della legalità o con i cortei che giungono in Via D’Amelio, né con le rappresentazioni che in quel luogo si svolgono nei dintorni del 19 luglio. Ma le mafie, nel loro agire, sono sì legate alle male azioni dei singoli, ma sono anche un fatto collettivo, di sistema, strutturale, di lungo periodo. Quindi, oltre l’impegno personale e privato, primario e importantissimo, occorre che contro di esse si agisca come sistema che ha altri valori e altri scopi. Non la vogliamo chiamare antimafia? Il problema è relativo, i nomi contano sino a un certo punto. Tuttavia, quello che ci sta dietro importa eccome. E allora la si potrebbe mettere più o meno così. Almeno provarci. Ogni anno si potrebbero scegliere più periferie, luoghi spesso abbandonati e dove forse il discrimine tra mafia e antimafia può essere meno evanescente di quello consunto che si celebra nel salotto cittadino. Andare lì a manifestare e contemporaneamente, e in primo luogo, dare vita a strutture pubbliche, collettive, che rimangano, in cui la politica, il volontariato locale e il movimento anti quello che volete provino a lasciare segni concreti da curare e salvaguardare nel tempo. Può essere un nuovo inizio. Che non elimina i rischi del carrierismo, delle ambiguità, delle parole che nascondono azioni contrarie. Dobbiamo, però, sapere, questo ce lo dice una lunga storia, che la mafia, proprio per non essere una forma semplice di criminalità, ma un sistema che ha rapporti duraturi e bilaterali con politica, economia e società, non è semplice da affrontare. Possiamo pure eliminare la parola anti. Ma le mafie rimangono e per essere spazzate via richiedono una duplice azione: personale e collettiva. 

mercoledì 8 luglio 2015

Chiesa e democrazia: come si potrebbe eleggere un cardinale.

La Repubblica Palermo

7 luglio 2015
SE IL VESCOVO FOSSE SCELTO DAI FEDELI
                                                                   Francesco Palazzo


L'UNIVERSITÀ di Palermo, chiamando a raccolta 2.559 elettori, ha un nuovo rettore. Un esercizio di democrazia che darà forza e autorevolezza, anche per il grande consenso raccolto alla nuova guida dell'Ateneo palermitano. C'è un'altra istituzione, la diocesi di Palermo, che, dopo le dimissioni per limiti di età dell'attuale arcivescovo Paolo Romeo, attende da tempo l'indicazione del nuovo pastore della Chiesa. Non sappiamo che tipo di riforma e con quali tempi si potrebbe configurare una situazione in cui una platea di sacerdoti, religiosi e religiose, laici che hanno incarichi nelle parrocchie, diaconi, ministri straordinari dell'eucaristia, catechisti e catechiste, capi di gruppi scout presenti in vari contesti parrocchiali, rappresentanti di parrocchie e altre figure interne alla gerarchia ecclesiastica palermitana, possano eleggere da una rosa di nomi, proposti da Roma, almeno tre, di cui uno espressione della Chiesa locale, il loro capo spirituale. L'attuale Pontefice ci sta abituando a tante novità teoriche e pratiche su diversi campi. In questo settore, peraltro, non ci sarebbe da inventarsi nulla di nuovo. Né dal punto di vista della prassi né da quello teologico. Nella Chiesa delle origini il vescovo era eletto dal clero e dal popolo. Non si tratterebbe di consentire a chiunque di partecipare alle elezioni: l'elettorato attivo sarebbe composto soltanto da alcune migliaia di votanti che vivono, con diversi carismi e funzioni, la realtà ecclesiale di determinati contesti geografici, sociali e pastorali. Spesso dai pulpiti delle cattedrali si ascoltano condivisibili critiche, da parte di vescovi e cardinali, nei confronti del potere civile eletto nelle istituzioni che talvolta, e in Sicilia spesso, non fa il proprio dovere di amministratore oculato ed efficiente. Ma ci si dimentica in questi casi che, pur proferendo parole di vera e viva preoccupazione verso le comunità civili, si considera il proprio essere immersi nel mondo e nella società come un qualcosa di distaccato, che non è tenuto a rispettare neppure l'elementare regola della democrazia interna nella scelta dei vertici delle diocesi. Conosciamo le obiezioni principali a questa proposta. La prima è che la fase elettorale tende a essere divisiva e che la Chiesa deve conservare, apparentemente, l'unità attraverso una scelta proveniente dall'alto. Sennonché le divisioni all'interno delle varie comunità diocesane, e persino parrocchiali, sono all'ordine del giorno. Spesso si alimentano di dicerie e anonimi che confermano l'esistenza di un universo frammentato di fatto. La scelta dal basso comunque avrebbe il timbro di un corpo elettorale che potrebbe rafforzarsi e trovare unità praticando un metodo condiviso e inclusivo, rispettando poi l'esito della consultazione. Una seconda obiezione è che questa pratica sarebbe uno scimmiottamento della politica, dove non sempre gli eletti sono i migliori, sia dal punto di vista dello spessore umano e morale che da quello professionale e operativo. Questo può rispondere talvolta a verità. Ma sarebbe un buon motivo per sospendere i procedimenti elettorali e accettare nominati dall'alto a tutti i ruoli di vertice, solo per scongiurare il rischio che i peggiori abbiano la meglio sui migliori? E poi chi lo dice che un nominato, seppure dal soglio papale, sia più adeguato di un eletto? Insomma, questo papato potrebbe (re)introdurre, anche in tempi non necessariamente lunghi, una pratica di questo tipo. Darebbe un ruolo non di mero esecutore a un vasto potenziale elettorato cattolico e avvicinerebbe, in un frammento cruciale, la democrazia praticata, e anche rischiosa, le istituzioni civili e quelle religiose. E renderebbe anche più credibili le critiche che spesso i principi della Chiesa svolgono nei confronti degli amministratori della cosa pubblica.