sabato 17 novembre 2018

Eresia, scisma e scomunica a Palermo. Chiamiamo Guglielmo da Barskerville.


La Repubblica Palermo
16 novembre 2018
Il vocabolario medievale della chiesa
Francesco Palazzo

Leggere le parole scisma, eresia, scomunica nel 2018 è molto strano. Ci si sente di botto calati nelle scene del film Il nome della rosa. 
Solo che tra quel clima, ricostruito prima nel romanzo e poi sullo schermo, e oggi, è passato qualche annetto. Speravamo con rilevanti novità.
Soprattutto adesso che in Vaticano si declina il termine misericordia in tutte le forme possibili e immaginabili. 
Invece a Palermo, nei confronti di un sacerdote, don Minutella, cade questo triplice fischio di fine partita, notificato allo stesso il 13 novembre.
 Eresia, scisma, scomunica. Si può dissentire nel mondo cattolico? 
Se qualcuno non concorda con la linea, giusta, di rinnovamento che si è inaugurata nella chiesa di Roma, lo si può sollevare, com’è avvenuto nel nostro caso, dall’incarico parrocchiale. Ma tra questo e passare alla soluzione definitiva, nel 2018 non nel 1327, anno in cui è situata la storia di Umberto Eco, ce ne vuole.
 Ma è così difficile togliere, sempre con misericordia parlando, dal vocabolario religioso e dal diritto canonico, sanzioni così pesanti e ormai fuori dalla storia?


venerdì 16 novembre 2018

Brancaccio, l'antimafia di Don Puglisi, perchè è morto e una proposta di pastorale contro le cosche.


Rivista Segno n. 399 – Il Papa a Palermo e la testimonianza pastorale di Puglisi

Don Puglisi, una frontale opposizione a Cosa nostra
Francesco Palazzo

Perché la mafia ha ucciso don Pino Puglisi? Cosa ne è del suo sacrificio nella chiesa siciliana dopo 25 anni? Se la mafia uccide, vuol dire che quella persona minaccia le sue trame. Quindi se quella interrotta brutalmente era una strada corretta, bisogna capire a cosa corrispondeva e poi seguirla. Altrimenti le parole prendono una strada, i fatti un'altra. Cosa ha messo in atto 3P dal 1990 al 1993 da armare menti e mani mafiose? Si è detto che toglieva i bambini dalla strada. Come altri presbiteri, mai sfiorati da Cosa nostra.

Brancaccio, il quartiere di don Pino
Prima di avanzare un’ipotesi meno improbabile, diamo uno sguardo al posto dove Puglisi ha trascorso, dopo esservi nato, gli ultimi tre anni. Brancaccio, dove sono nato e cresciuto, è quartiere un tempo a vocazione agricola, nasce nel 700 e prende il nome dal governatore di Monreale, il napoletano don Antonio Brancaccio. Nel 1747 fece erigere la chiesa di S. Anna, successivamente dedicata a San Gaetano da Thiene, la parrocchia di don Pino. Nel territorio sorge il Parco della Favara con il Castello Arabo Normanno, residenza dell’emiro Giafar inacciaal-Kalbi e del sovrano normanno Ruggero II. Gli abitanti ricadenti nell’ambito parrocchiale sono attualmente circa ottomila. Nella mia generazione, quasi tutti si andava a scuola e oggi si continuano a frequentare le aule scolastiche, con laureati, diplomati, professionisti, professori, pure universitari, impiegati e artigiani. Don Pino non trova, come si è letto nei libri e visto nelle fiction, giovani originari del quartiere allo stato quasi animalesco. In realtà, si occupa di circa 150 famiglie, provenienti dal centro storico della città. Nuclei familiari ghettizzati dalla politica e inviati in alcuni palazzi di Brancaccio all'inizio degli anni ottanta. Con tutte le immaginabili conseguenze, in termini d'integrazione e di deterioramento del tessuto sociale. Da allora poco o nulla è mutato, anzi negli ultimi due decenni c’è stato un peggioramento. In tale contesto si gioca tutta, o quasi, la vicenda del beato. Che per bonificare quella zona, dove mancava pure la rete fognaria, sposa la causa del Comitato Intercondominiale Hazon, composto da persone che avevano acquistato case in quella che doveva essere una zona residenziale. Il comitato voleva portare civiltà e servizi dove la politica aveva imposto isolamento e invivibilità. A tre esponenti di punta del comitato, che era una cosa sola con 3P, bruciano le porte in una notte di fine giugno 1993, a poche settimane dall'agguato che elimina un presbitero mite e indomabile per le malate logiche mafiose. I processi hanno mostrato che i due moventi mafiosi, incendiario e omicidiario, coincidono. Puglisi muore perché vuole cambiare quel pezzo di rione, le logiche aberranti che lo guidano, mettendo in discussione la manovalanza criminale che lì si era messa a disposizione della mafia stragista che regnava nella zona. Il sangue di don Pino viene sparso per riscattare un piccolo lembo, creato da una politica miope, di un quartiere di Palermo. Non sembri una diminutio del suo operato. Tutti possiamo dire e scrivere che la mafia fa schifo. Ma tra il dire e il fare ci sta di mezzo la capacità di spendersi sul pezzo di territorio che ci viene consegnato, per scelta, per caso o per nascita. Altrimenti la lotta alla mafia rischia di essere un facile gioco di società. Puglisi non è nuovo a tali azioni. In altri angoli di quella parte di Palermo, la bidonville dello Scaricatore e l’agglomerato di case popolari senza servizi, a ridosso della chiesa di San Giovanni degli Eremiti, aveva agito allo stesso modo. La profezia non riguarda i massimi sistemi, in questo settore troviamo folle. Se andiamo in profondità i numeri si diradano. Talvolta la lotta alla mafia coincide con il mettere una parola dietro l’altra. E per questo l’antimafia si è macchiata e si tinge di errori e protagonismi a salve. Dal campo di gioco delle buone intenzioni si esce indenni. Altra cosa è non mollare negli ambiti senza luce. E lì giocarsi tutto. Questa è la cifra di don Puglisi.

L’esperienza del parroco Giuè
Quindi don Pino incrocia la violenza mafiosa non per i bambini, ma perché lavora con gli adulti. Con costanza, metodo, meticolosità, decisione. È questo che la mafia, supportata dalla malapolitica, non accetta. Ma era la prima volta che a Brancaccio, nella chiesa di San Gaetano, accadeva? No, dal 1985 al 1989, a guidare la parrocchia era stato chiamato Rosario Giuè, un giovane prete originario di Marineo che stava completando gli studi superiori di teologia a Roma. Nei quattro anni si distingue per innovazioni pastorali, azioni sociali, contrapposizione alla mafia e alla malapolitica locali. A S. Gaetano si svolgono incontri con le giunte della primavera guidate da Leoluca Orlando, quando quell’azione politica e culturale toccava il suo apice. Tanti giovani del quartiere lavorano con il parroco, poi confluiti nell’azione cattolica collaborando con un giovane viceparroco succeduto a Giuè, Franco Artale. Nasce in parrocchia la biblioteca Claudio Domino, con scaffalature espositive e libri donati in larga parte dalla Facoltà Teologica di Palermo e tanti volumi usciti dalle case di Brancaccio. Quando don Pino arriva a San Gaetano, nell’ottobre del 1990, trova dunque tanti giovani attivi, che frequentavano università e scuole superiori, una biblioteca funzionante con più di tremila volumi, gente abituata a lavorare in un certo modo. Ma succede che, mal consigliato da chi poi lo lascerà solo, si lascia convincere che quei giovani volevano formare una sezione di partito, cosa non vera, frequentavano da piccolissimi i locali parrocchiali. Ma quel gruppo, di cui facevo parte, viene sciolto.

La chiesa siciliana dopo 25 anni
Considerato che abbiamo risposto alla domanda relativa al perché don Pino viene fatto fuori, e cioè per la pastorale con gli adulti e non per quella con i piccoli, dobbiamo rispondere alla seconda domanda. Cosa ne è stato nella chiesa sicula in questi 25 anni, culminati con la visita papale, dell'insegnamento di don Pino? Prima di rispondere vediamo come agiva Puglisi. Forse implorava assistenzialismo e distribuiva carità attraverso le casse pubbliche? No, venivano chiesti, senza tregua e con la schiena dritta, diritti, promozione umana, infrastrutture, servizi. Dal 1993 a oggi i parroci, le parrocchie, le diocesi, sono stati e sono presenti con lo spirito e il metodo di don Pino, o ha finito per prevalere un cattolicesimo che non sposta, assistenzialismo delegato a parte, una foglia? Oltre le scomuniche e i documenti dei vescovi, le omelie infuocate nei duomi, si sta sotto i campanili, dove non si reca fastidio a nessuno? La visita del successore di Pietro nei luoghi di don Pino, proprio perché è un imprimatur d’ora in poi inamovibile sul suo operato, deve consentire a tutta la comunità cattolica siciliana di rispondere a tali fondamentali interrogativi. Sciogliendo un nodo fondamentale. Perché i parroci, i vescovi, lo stesso pontefice, negano l'antimafiosità di Puglisi? Egli grida, anche dal pulpito negli ultimi tempi, accusa i mafiosi, suscita contese, pure in parrocchia, dove trova contrapposizioni. Arriva in solitudine a quel colpo di pistola alla nuca. Sì, non faceva certo retorica o proclami a vanvera. Ma è stato ucciso, se non vogliamo raccontarci altro, per la frontale contrapposizione alla mafia, dall'altare e sul territorio. E quando diciamo che le manifestazioni e gli appelli non servono più, ricordiamoci che Puglisi va allo scontro conclusivo con i suoi carnefici promuovendo, a maggio e a luglio del 1993, a Brancaccio non in Via Libertà, per gli anniversari di Falcone e Borsellino, due grandi manifestazioni antimafia, riprese dai media. Inoltre mette la firma sulla richiesta di intitolare a Falcone e Borsellino una via di Brancaccio. Senza contare che due appelli erano partiti verso la presidenza della Repubblica e che per il 22 settembre, una settimana dopo l’uccisione, era riuscito ad ottenere un incontro riservato con il presidente della Commissione Antimafia, Luciano Violante. Don Pino era, se non all'inizio della sua vicenda a Brancaccio certamente alla fine, un sacerdote dalla esplicita connotazione antimafiosa. Che la chiesa non voglia riconoscere tale aspetto perché difficile da replicare, non lo cancella affatto.

                                                                                Non si vedono piani pastorali ispirati a Don Pino
Cosa è avvenuto dunque nella chiesa in questi a 25 anni? A nessuno può sfuggire, credente in dio o in altro, che l'azione dei cattolici, essendo dislocata dappertutto con le parrocchie, è importante, in questo come su altri versanti, per tutta la società. Facciamo questa domanda dopo un quarto di secolo, tempo più che congruo per pensare, scrivere, programmare, attuare, modificare e riproporre con le correzioni ritenute necessarie, una pastorale diretta al contrasto del crimine mafioso. Chiediamoci quante comunità parrocchiali, se vogliamo uscire dalla visione clericocentrica, hanno sposato e perseguono il sentiero di Puglisi. Ho l'impressione che vi sia stata una regressione complessiva e un ritorno dentro le sagrestie, anche con riferimento a una stagione preesistente allo stesso don Pino, pure a Brancaccio come visto, in cui c'erano diverse realtà cattoliche sensibili alla tematica. Non si è neppure provato a tracciare una pastorale condivisa e specifica con i sacerdoti e le comunità parrocchiali, che provasse a mettersi di traverso, come ha fatto Puglisi, alla mafia e alla malapolitica. Considerato che da entrambi è stato ucciso. Se vi fosse stata o se ne trovassimo una pur labile traccia, potremmo confrontarci con essa e valutarne gli effetti, anche soltanto potenziali. Se la chiesa dice che don Pino è il suo punto di riferimento, se ogni 15 settembre, giorno della sua scomparsa, a Palermo inaugura l'anno pastorale diocesano, deve comportarsi di conseguenza.

Otto titoli di una pastorale antimafia
Tracciamo di seguito otto titoli di una pastorale antimafia che ancora non esiste e che percorra la scia lasciata da don Pino.
1) Analizzare i territori parrocchiali delle diocesi;
2) Lavorare insieme alle realtà che già operano localmente, quindi operare con gli adulti;
3) Chiedere diritti e strutture e non assistenzialismo o fondi pubblici;
4) Chiamare le istituzioni alle loro responsabilità nei quartieri senza fare sconti;
5) Mettere in campo la dimensione dell'ascolto e non soltanto sacramenti e processioni;
6) Fare in modo che i mafiosi percepiscano come inospitali le sagrestie e le funzioni religiose;
7) Nominare commissioni di studio nelle diocesi con esperti sulla criminalità organizzata, coinvolgendo presbiteri e fedeli;
8) Analizzare nello specifico l'impatto nei singoli territori parrocchiali della criminalità mafiosa e porsi pubblicamente da un'altra parte.

Questo, più o meno, ciò che si sarebbe dovuto fare in questi venticinque anni. Invece si è parlato molto del sorriso di don Pino, del me l'aspettavo, e poco altro si è fatto. Peraltro posso testimoniare, avendo incontrato casualmente don Puglisi in una sera del luglio 1993, che quel sorriso lo aveva perso e che era un uomo molto addolorato per la sordità della politica alle sue richieste per il quartiere.
Se quanto scritto non è lontano dal vero, dobbiamo prendere atto che tutta la comunità cattolica isolana non ha ancora fatto bene i conti con quel colpo di pistola alla nuca sparato a bruciapelo in una calda sera di settembre del 1993.
L’eredità di don Puglisi non è facile da raccogliere. Ma si può sempre cominciare proseguendo sul cammino delle già robuste buone intenzioni.

mercoledì 7 novembre 2018

Noi, l'ambiente e cosa c'insegna il pediatra Giuseppe Liotta.

La Repubblica Palermo
7 novembre 2018
Se ognuno fa qualcosa per l’ambiente
Francesco Palazzo


IL territorio è la casa comune.
Prima di essere ferito da azioni che portano tragedie, viene giornalmente fatto oggetto di noncuranza, inciviltà, negligenza. 
Ciascuno deve fare un onesto esame di coscienza. Ci vuole empatia nei confronti del suolo che calpestiamo.
Abbelliamo le case, curiamo l’aspetto fisico e poi trattiamo con sufficienza, se non con volontà di arrecare male, la terra che abitiamo. 
Sono i gesti quotidiani che costruiscono una virtuosa politica ambientale.
Nessuno può dire: non c’ero, non mi ero accorto di nulla, non è compito mio. È tutto, da tempo, sotto gli occhi di tutti. 
Non sono gli eventi meteorologici, mutati per responsabilità umane, i nemici. Siamo noi il problema.
Quando ci troviamo fuori dalle mura domestiche dovremmo capire cosa non va in ciò che ci circonda. E quale parte abbiamo nel peggiorare o migliorare la situazione. 
Dobbiamo fare per intero, con meno parole e più fatti, la nostra parte nell'ambito che ci è toccato vivere. 
Pensiamo al pediatra che andava da Palermo a Corleone per svolgere la sua professione al servizio dei piccoli pazienti.

venerdì 2 novembre 2018

Halloween, la tradizione dei morti in Sicilia e Manifesta.


La Repubblica Palermo – 2 novembre 2018
Halloween, l’ultimo nemico
Francesco Palazzo
Ogni anno uno spettro s’aggira per la Sicilia. È Halloween. Ricorrenza questa volta presa di mira alla grande da scuole, cattolici e politica. L’obiettivo è salvare la cultura siciliana. Che tra Ognissanti e la commemorazione dei defunti prevede, o prevedeva, visto che è un’usanza quasi abbandonata, e Halloween nulla c’entra, di far trovare ai piccoli giocattoli e cibo, indicando quali benefattori i defunti della famiglia. Un modo per tenere vivi i legami di memoria. Molti abbiamo teneri ricordi delle albe del 2 novembre. Giusto recuperare le tradizioni. Ma perché indicare nemici da combattere? Non ne vengono forse additati già troppi? Manifesta, la biennale nomade d’arte contemporanea, a Palermo da giugno al 4 novembre, c’invita a coltivare la coesistenza. Peraltro, non c’è sovrapposizione temporale tra l’andare in giro con le sinistre zucche sorridenti, maschere e abiti macabri, facendo la domanda dolcetto/scherzetto, e la nostra festa dei morti. Il messaggio da recapitare a chi cresce è sì quello di rafforzare le radici. Ma senza temere, oggi più che mai, le contaminazioni culturali.