Rivista Segno n. 399 – Il Papa a Palermo e la
testimonianza pastorale di Puglisi
Don Puglisi, una frontale opposizione a Cosa
nostra
Francesco Palazzo
Perché la mafia ha ucciso don Pino Puglisi? Cosa ne è del suo sacrificio
nella chiesa siciliana dopo 25 anni? Se la mafia uccide, vuol dire che quella
persona minaccia le sue trame. Quindi se quella interrotta brutalmente era una strada
corretta, bisogna capire a cosa corrispondeva e poi seguirla. Altrimenti le
parole prendono una strada, i fatti un'altra. Cosa ha messo in atto 3P dal 1990
al 1993 da armare menti e mani mafiose? Si è detto che toglieva i bambini dalla
strada. Come altri presbiteri, mai sfiorati da Cosa nostra.
Brancaccio, il quartiere di don Pino
Prima di avanzare un’ipotesi meno improbabile, diamo uno sguardo al posto
dove Puglisi ha trascorso, dopo esservi nato, gli ultimi tre anni. Brancaccio,
dove sono nato e cresciuto, è quartiere un tempo a vocazione agricola, nasce
nel 700 e prende il nome dal governatore di Monreale, il napoletano don Antonio
Brancaccio. Nel 1747 fece erigere la chiesa di S. Anna, successivamente
dedicata a San Gaetano da Thiene, la parrocchia di don Pino. Nel territorio
sorge il Parco della Favara con il Castello Arabo Normanno, residenza
dell’emiro Giafar inacciaal-Kalbi e del sovrano normanno Ruggero II. Gli
abitanti ricadenti nell’ambito parrocchiale sono attualmente circa ottomila. Nella
mia generazione, quasi tutti si andava a scuola e oggi si continuano a
frequentare le aule scolastiche, con laureati, diplomati, professionisti,
professori, pure universitari, impiegati e artigiani. Don Pino non trova, come
si è letto nei libri e visto nelle fiction, giovani originari del quartiere
allo stato quasi animalesco. In realtà, si occupa di circa 150 famiglie,
provenienti dal centro storico della città. Nuclei familiari ghettizzati dalla
politica e inviati in alcuni palazzi di Brancaccio all'inizio degli anni
ottanta. Con tutte le immaginabili conseguenze, in termini d'integrazione e di
deterioramento del tessuto sociale. Da allora poco o nulla è mutato, anzi negli
ultimi due decenni c’è stato un peggioramento. In tale contesto si gioca tutta,
o quasi, la vicenda del beato. Che per bonificare quella zona, dove mancava
pure la rete fognaria, sposa la causa del Comitato Intercondominiale Hazon,
composto da persone che avevano acquistato case in quella che doveva essere una
zona residenziale. Il comitato voleva portare civiltà e servizi dove la
politica aveva imposto isolamento e invivibilità. A tre esponenti di punta del
comitato, che era una cosa sola con 3P, bruciano le porte in una notte di fine
giugno 1993, a poche settimane dall'agguato che elimina un presbitero mite e
indomabile per le malate logiche mafiose. I processi hanno mostrato che i due
moventi mafiosi, incendiario e omicidiario, coincidono. Puglisi muore perché
vuole cambiare quel pezzo di rione, le logiche aberranti che lo guidano,
mettendo in discussione la manovalanza criminale che lì si era messa a
disposizione della mafia stragista che regnava nella zona. Il sangue di don
Pino viene sparso per riscattare un piccolo lembo, creato da una politica
miope, di un quartiere di Palermo. Non sembri una diminutio del suo operato.
Tutti possiamo dire e scrivere che la mafia fa schifo. Ma tra il dire e il fare
ci sta di mezzo la capacità di spendersi sul pezzo di territorio che ci viene
consegnato, per scelta, per caso o per nascita. Altrimenti la lotta alla mafia
rischia di essere un facile gioco di società. Puglisi non è nuovo a tali azioni.
In altri angoli di quella parte di Palermo, la bidonville dello Scaricatore e
l’agglomerato di case popolari senza servizi, a ridosso della chiesa di San
Giovanni degli Eremiti, aveva agito allo stesso modo. La profezia non riguarda
i massimi sistemi, in questo settore troviamo folle. Se andiamo in profondità i
numeri si diradano. Talvolta la lotta alla mafia coincide con il mettere una
parola dietro l’altra. E per questo l’antimafia si è macchiata e si tinge di
errori e protagonismi a salve. Dal campo di gioco delle buone intenzioni si
esce indenni. Altra cosa è non mollare negli ambiti senza luce. E lì giocarsi
tutto. Questa è la cifra di don Puglisi.
L’esperienza del parroco Giuè
Quindi don Pino incrocia la violenza mafiosa non per i bambini, ma
perché lavora con gli adulti. Con costanza, metodo, meticolosità, decisione. È
questo che la mafia, supportata dalla malapolitica, non accetta. Ma era la
prima volta che a Brancaccio, nella chiesa di San Gaetano, accadeva? No, dal
1985 al 1989, a guidare la parrocchia era stato chiamato Rosario Giuè, un
giovane prete originario di Marineo che stava completando gli studi superiori
di teologia a Roma. Nei quattro anni si distingue per innovazioni pastorali,
azioni sociali, contrapposizione alla mafia e alla malapolitica locali. A S.
Gaetano si svolgono incontri con le giunte della primavera guidate da Leoluca
Orlando, quando quell’azione politica e culturale toccava il suo apice. Tanti
giovani del quartiere lavorano con il parroco, poi confluiti nell’azione
cattolica collaborando con un giovane viceparroco succeduto a Giuè, Franco
Artale. Nasce in parrocchia la biblioteca Claudio Domino, con scaffalature
espositive e libri donati in larga parte dalla Facoltà Teologica di Palermo e
tanti volumi usciti dalle case di Brancaccio. Quando don Pino arriva a San
Gaetano, nell’ottobre del 1990, trova dunque tanti giovani attivi, che
frequentavano università e scuole superiori, una biblioteca funzionante con più
di tremila volumi, gente abituata a lavorare in un certo modo. Ma succede che,
mal consigliato da chi poi lo lascerà solo, si lascia convincere che quei
giovani volevano formare una sezione di partito, cosa non vera, frequentavano
da piccolissimi i locali parrocchiali. Ma quel gruppo, di cui facevo parte,
viene sciolto.
La chiesa siciliana dopo 25 anni
Considerato che abbiamo risposto alla domanda relativa al perché don
Pino viene fatto fuori, e cioè per la pastorale con gli adulti e non per quella
con i piccoli, dobbiamo rispondere alla seconda domanda. Cosa ne è stato nella
chiesa sicula in questi 25 anni, culminati con la visita papale,
dell'insegnamento di don Pino? Prima di rispondere vediamo come agiva Puglisi.
Forse implorava assistenzialismo e distribuiva carità attraverso le casse
pubbliche? No, venivano chiesti, senza tregua e con la schiena dritta, diritti,
promozione umana, infrastrutture, servizi. Dal 1993 a oggi i parroci, le
parrocchie, le diocesi, sono stati e sono presenti con lo spirito e il metodo
di don Pino, o ha finito per prevalere un cattolicesimo che non sposta,
assistenzialismo delegato a parte, una foglia? Oltre le scomuniche e i
documenti dei vescovi, le omelie infuocate nei duomi, si sta sotto i campanili,
dove non si reca fastidio a nessuno? La visita del successore di Pietro nei
luoghi di don Pino, proprio perché è un imprimatur d’ora in poi inamovibile sul
suo operato, deve consentire a tutta la comunità cattolica siciliana di
rispondere a tali fondamentali interrogativi. Sciogliendo un nodo fondamentale.
Perché i parroci, i vescovi, lo stesso pontefice, negano l'antimafiosità di
Puglisi? Egli grida, anche dal pulpito negli ultimi tempi, accusa i mafiosi,
suscita contese, pure in parrocchia, dove trova contrapposizioni. Arriva in
solitudine a quel colpo di pistola alla nuca. Sì, non faceva certo retorica o
proclami a vanvera. Ma è stato ucciso, se non vogliamo raccontarci altro, per
la frontale contrapposizione alla mafia, dall'altare e sul territorio. E quando
diciamo che le manifestazioni e gli appelli non servono più, ricordiamoci che
Puglisi va allo scontro conclusivo con i suoi carnefici promuovendo, a maggio e
a luglio del 1993, a Brancaccio non in Via Libertà, per gli anniversari di
Falcone e Borsellino, due grandi manifestazioni antimafia, riprese dai media.
Inoltre mette la firma sulla richiesta di intitolare a Falcone e Borsellino una
via di Brancaccio. Senza contare che due appelli erano partiti verso la
presidenza della Repubblica e che per il 22 settembre, una settimana dopo
l’uccisione, era riuscito ad ottenere un incontro riservato con il presidente
della Commissione Antimafia, Luciano Violante. Don Pino era, se non all'inizio
della sua vicenda a Brancaccio certamente alla fine, un sacerdote dalla
esplicita connotazione antimafiosa. Che la chiesa non voglia riconoscere tale
aspetto perché difficile da replicare, non lo cancella affatto.
Non si vedono piani pastorali ispirati a Don
Pino
Cosa è avvenuto dunque nella chiesa in questi a 25 anni? A nessuno può
sfuggire, credente in dio o in altro, che l'azione dei cattolici, essendo
dislocata dappertutto con le parrocchie, è importante, in questo come su altri
versanti, per tutta la società. Facciamo questa domanda dopo un quarto di
secolo, tempo più che congruo per pensare, scrivere, programmare, attuare,
modificare e riproporre con le correzioni ritenute necessarie, una pastorale
diretta al contrasto del crimine mafioso. Chiediamoci quante comunità
parrocchiali, se vogliamo uscire dalla visione clericocentrica, hanno sposato e
perseguono il sentiero di Puglisi. Ho l'impressione che vi sia stata una
regressione complessiva e un ritorno dentro le sagrestie, anche con riferimento
a una stagione preesistente allo stesso don Pino, pure a Brancaccio come visto,
in cui c'erano diverse realtà cattoliche sensibili alla tematica. Non si è
neppure provato a tracciare una pastorale condivisa e specifica con i sacerdoti
e le comunità parrocchiali, che provasse a mettersi di traverso, come ha fatto
Puglisi, alla mafia e alla malapolitica. Considerato che da entrambi è stato
ucciso. Se vi fosse stata o se ne trovassimo una pur labile traccia, potremmo
confrontarci con essa e valutarne gli effetti, anche soltanto potenziali. Se la
chiesa dice che don Pino è il suo punto di riferimento, se ogni 15 settembre,
giorno della sua scomparsa, a Palermo inaugura l'anno pastorale diocesano, deve
comportarsi di conseguenza.
Otto titoli di una pastorale antimafia
Tracciamo di seguito otto titoli di una
pastorale antimafia che ancora non esiste e che percorra la scia lasciata da don
Pino.
1) Analizzare i territori parrocchiali
delle diocesi;
2) Lavorare insieme alle realtà che già operano
localmente, quindi operare con gli adulti;
3) Chiedere diritti e strutture e non
assistenzialismo o fondi pubblici;
4) Chiamare le istituzioni alle loro
responsabilità nei quartieri senza fare sconti;
5) Mettere in campo la dimensione dell'ascolto
e non soltanto sacramenti e processioni;
6) Fare in modo che i mafiosi percepiscano come
inospitali le sagrestie e le funzioni religiose;
7) Nominare commissioni di studio nelle diocesi
con esperti sulla criminalità organizzata, coinvolgendo presbiteri e fedeli;
8) Analizzare nello specifico l'impatto nei
singoli territori parrocchiali della criminalità mafiosa e porsi pubblicamente
da un'altra parte.
Questo, più o meno, ciò che si sarebbe dovuto
fare in questi venticinque anni. Invece si è parlato molto del sorriso di don
Pino, del me l'aspettavo, e poco altro si è fatto. Peraltro posso testimoniare,
avendo incontrato casualmente don Puglisi in una sera del luglio 1993, che quel
sorriso lo aveva perso e che era un uomo molto addolorato per la sordità della
politica alle sue richieste per il quartiere.
Se quanto scritto non è lontano dal vero,
dobbiamo prendere atto che tutta la comunità cattolica isolana non ha ancora
fatto bene i conti con quel colpo di pistola alla nuca sparato a bruciapelo in
una calda sera di settembre del 1993.
L’eredità di don Puglisi non è facile da raccogliere.
Ma si può sempre cominciare proseguendo sul cammino delle già robuste buone
intenzioni.