mercoledì 6 dicembre 2023

Il Ponte sullo stretto di Messina. La piccola minoranza del no e il consenso popolare di chi non va in piazza.


 

PALERMO TODAY – 3 DICEMBRE 2023

Diecimila in piazza contro il Ponte? Allora almeno 5 milioni tra siciliani e calabresi lo vogliono.

Francesco Palazzo

 

Il 2 dicembre c'è stata una manifestazione "No ponte sullo Stretto" che ha puntato a coinvolgere sia la Sicilia che la Calabria. L'affluenza è stata di circa10 mila persone, come riportano gli organi d'informazione. In streaming ho seguito gran parte, anzi quasi tutti, gli interventi di diverse sigle e associazioni. Ovviamente, opinioni rispettabilissime e abbastanza chiare. Con un sottofondo comune. La Sicilia e la Calabria hanno bisogno di tanto altro prima di poter parlare di ponte. Cioè non ci si oppone spesso al manufatto ma a ciò che sarebbe necessario fare prima.

L'argomento non è nuovo, al contrario abbastanza datato, come sa bene chi segue anche soltanto da lontano la vicenda ponte. Ed è un argomento che a me non ha mai convinto. Per tante ragioni. Non ultima il fatto che un'opera pubblica che sarebbe unica al mondo potrebbe, io direi potrà sicuramente, accelerare quanto sinora manca o è carente nelle due regioni in termini di infrastrutture trasportistiche. Perché è chiaro che solo di quelle dobbiamo parlare. Altrimenti, se mettiamo di mezzo l'universo mondo, il ragionamento si fa troppo complicato e abbastanza fuorviante. Un'altra obiezione sono i costi. Il ponte costerà? Certo ha un suo costo molto rilevante di diversi miliardi di euro. Un'opera simile non può costare certo quattro spiccioli. Ma quanto è costato mi sono sempre chiesto, quando ci si riferisce in questi termini monetari a questa opera, tutto l'assistenzialismo a fondo perduto e senza futuro che ha toccato e in parte ancora lambisce le due regioni interessate e il mezzogiorno tutto? Forse l'equivalente di una ventina di ponti sullo stretto? Non so. Ma potrei non essere molto lontano dal vero. Il terzo aspetto che viene toccato è quello ingegneristico e ambientale. Due ambiti certo rilevanti. Sul primo non ho competenze specifiche. Si tratta di un aspetto davvero complesso. Se chi di dovere metterà il bollo definitivo all'opera da profano mi fermerei qua su tale aspetto. Per quanto riguarda il versante ambientale non è che al momento le navi che attraversano lo stretto sono a zero impatto. Il discorso paessaggistico ciascuno lo vede a suo modo. A me piacerebbe vedere lo Stretto e il ponte insieme. Del resto l'uomo ha sempre modificato i propri ambiti di vita. Io sono per il ponte e davvero non capisco chi si mette contro questa cosa. Rispetto chi non lo è ma non riesco onestamente a fare mia nessuna obiezione ideale e sul merito. Il ponte è qualcosa che unisce, non un muro. Sì, mancano tante cose. Ma forse sono state tutte fatte senza il ponte? E allora cosa c'entra questo manufatto che sarebbe unico al mondo e che attirerebbe attenzioni, turismo e farebbe smuovere pure quello che non c'è ancora ma su cui però, va detto, si sta lavorando?

Detto tutto questo, del quale ho scritto diverse volte, al centro della mia analisi vorrei mettere questa volta un'altra questione. Voglio discutere delle ragioni, magari non espresse ma per me implicite di chi non va in piazza a manifestare contro la costruzione del ponte. Partiamo perciò dai diecimila rappresentanti di due regioni. Numero certo consistente. In tempi in cui è più facile stare dietro una tastiera, non è per nulla semplice fare smuovere diecimila persone siciliane e calabresi portandole in piazza. Però, ecco, i numeri. Che magari non ci dicono tutto ma tanto. Le due regioni contano, al 31 agosto 2023, sei milioni 618 mila 594 abitanti. Se ci togliamo i diecimila, ammesso e non concesso che siano tutti calabresi e siciliani, diventano 6 milioni 608 mila 594 abitanti. Se dopo tante manifestazioni no ponte spalmate in diversi decenni non si arriva a più di diecimila, contro più di 6 milioni e mezzo, che scendono in piazza, senza considerare tutte le altre regioni e l'interesse internazionale che il ponte suscita certamente, io qualche domanda sinceramente me la farei. Forse la stragrandissima maggioranza silenziosa di milioni di persone vuole il ponte? Non è detto, ma non si può affermare nemmeno il contrario. E io a questo punto arrivo a pensarlo. Allora la metterei così. Tutte le manifestazioni "no ponte" sono ovviamente legittime, ma occorre avere la dimensione di ciò che si rappresenta. Diecimila dopo tanti anni di cortei non vogliono il ponte sullo Stretto? Va bene. Massima considerazione per loro. Rispettiamo le loro ragioni e quanto di interessante portano a supporto di esse. In democrazia il confronto, anche in piazza, è alla base di tutto. Ma alla radice della nostra convivenza c'è pure la necessità imprescindibile di non stare fermi per l'eternità su ogni singola questione. Dall'altra parte il ponte potrebbero volerlo, e sino a prova contraria per me è così, se vogliamo restare solo in Sicilia e Calabria, almeno cinque milioni di persone levandoci i pargoli. Pure questo sarebbe, è, confronto democratico. Mi pare che dopo tanti decenni la pratica ponte, dal punto di vista del consenso popolare, sia ampiamente chiusa. Almeno così a me pare.


https://www.palermotoday.it/social/segnalazioni/ponte-stretto-manifestazione-lettera.html?fbclid=IwAR0Kv3_oJpoNzFeIufuWf7zeWJKQASUtRpAU2RiBtmnNeZ-qEOrdxOTPvew 

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martedì 21 novembre 2023

La Favorita. Che sia davvero il nuovo Teatro Massimo. Iniziamo però dalla quotidianità.

 

Palermo Today - 20 novembre 2023

Parco della Favorita, luna park una volta l'anno o risorsa quotidiana?

Francesco Palazzo

Ogni volta che si chiude o si apre, dipende sempre dal punto di vista da cui si guardano le cose, il Parco della Favorita ci complimentiamo con noi stessi. Solo che accade ormai molto raramente. L'ultima volta è successo questa domenica appena trascorsa, in occasione della Maratona di Palermo. Quello che doveva diventare il nuovo Teatro Massimo, così era stato ufficialmente affermato alcuni anni addietro, è in realtà rimasto quello che è sempre stato, un luogo dove transitano mezzi a motore. Un vero peccato. Lo diciamo da tanto troppo tempo. Alcuni anni fa, proprio perché si parlava di nuovo Teatro Massimo, era circolata l'idea di nominare un sovrintendente come accade proprio per il Massimo. Ma è rimasta una bellissima idea chiusa dentro il recinto delle buone intenzioni. Si era ipotizzata a tal fine la creazione di una fondazione tra pubblico e privato.

Probabilmente magari prima o poi spunterà fuori qualcosa del genere. Non sappiamo. Intanto siamo ad oggi. E in ogni caso, prima di perseguire e ottenere l'ottimo, che se va bene (mettiamoci a Palermo un centinaio di se) richiederà tempi troppo lunghi per gli spazi temporali limitati delle nostre vite, si potrebbe partire dal sufficiente. Anche un "6 meno meno" alla fine andrebbe bene alle nostre latitudini. Dal punto di vista viario si potrebbe procedere infatti con ordinari provvedimenti sulla viabilità. Nessun miracolo. Solo normalità. Senza che si debba ottenere per forza tutto e subito. Che in genere è la premessa per non ottenere nulla. Occorre tenere presente, quando si parla di Parco della Favorita, la necessità di mantenere i collegamenti con il pezzo di città, Mondello in primo luogo, che c'è oltre la Favorita. Ma va anche considerato a tal proposito che vi sono almeno 4 vie alternative per arrivare a Mondello, quella che passa da Vergine Maria e si inoltra attraverso l'Addaura, poi quella che va da Via Castelforte, inoltre quella che passa da Pallavicino, infine il collegamento autostradale. C'è poi una quinta alternativa. Non chiudere i due assi all'interno della Favorita lasciandone uno aperto alle auto.

Peraltro durante i mesi estivi, diciamo da inizio giugno a fine settembre, si dovrebbe non toccare nulla. Cioè si potrebbe chiudere alle auto solo una strada dentro la Favorita da inizio ottobre a fine maggio, periodo delle festività di fine anno escluso. Penso che, così affrontata la cosa, vi sarebbero margini molto ragionevoli di discussione e si potrebbe iniziare da subito, anziché fare questi esperimenti una volta l'anno quando va bene. Se si vuole si può esordire con i fine settimana. Perché quello che ci serve è l'utilizzo continuo del Parco della Favorita. Non l'apertura una tantum con bande e mirabilie varie. È molto difficile immaginare un'altra grande metropoli che avendo un parco così grande lo utilizzi solo per farci transitare i mezzi motorizzati. Ogni volta che si fa qualche attività, chiudendo timidamente il Parco della Favorita, si scomoda da più parti il Central Park di New York. Basta dare un'occhiata a quel polmone verde e a come viene usato per capire quanto siamo sideralmente lontani da esso.

Per carità, si facciano pure tutti i paragoni possibili e immaginabili. Un’iperbole non si nega a nessuno. Ma considerato il punto da dove partiamo con il nostro parco, mi pare più un esercizio retorico che altro. Paragonarsi a ciò che il Parco della Favorita mai sarà significa soltanto far trascorrere inutilmente anni e generazioni quando si potrebbe iniziare a fare qualcosa di immediato e concreto. Tipo chiudere, come proposto, intanto da ottobre a maggio una sola arteria, all’inizio magari per i fine settimana. Poi il resto si vedrebbe passo dopo passo. Ma buttare ogni volta la palla in calcio d'angolo scomodando la luna del Central Park significa rimanere immobili aprendo una volta l'anno, quando va bene, il parco giochi. Non siamo più bambini e non abbiamo bisogno del parco giochi. Per aprire il Parco della Favorita non si può attendere ogni volta la fumata bianca come se si trattasse dell'elezione del papa. Perché la serie A non si può pretendere solo dai rosanero, che negli ultimi quattro anni hanno lavorato bene e al momento rappresentano uno dei pochi progetti con una visione. Ma dall'intero sistema città, che ci vede tutti dentro e che da tanto tempo, per usare un eufemismo, non è che lavori benissimo.

Dal sito del giornale

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Da facebook

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Palermo Calcio. Il tifo maturo che non deve guardare il dito ma la luna.

PALERMOTODAY – 14 NOVEMBRE 2023

   C'è un tifoso pro Corini: "Io abbonato, non mi sento rappresentato dalla contestazione"

                                                                  Francesco Palazzo 

Con riferimento alle attuali vicende del Palermo calcio, in qualità di tifoso abbonato non mi sento rappresentato dai cori fuori dallo stadio dopo la partita con il Cittadella. Per la verità neppure da quelli dentro lo stadio, spesso poco urbani e antisportivi, come fischiare la formazione avversaria o gli sparuti gruppi di tifosi delle squadre ospiti rinchiusi letteralmente dentro una gabbia. Non parliamo del materiale pirotecnico utilizzato illegalmente, a volte vere e proprie bombe, causa di ripetute multe che prende la società, anche per le fonti luminose dirette contro i giocatori delle squadre avversarie e gli arbitri. Comportamenti incivili di quanti dentro lo stadio ritengono di potere fare e dire ciò che vogliono. Anche tirare di tutto dentro il campo da gioco. Recentemente il Palermo è stato sanzionato perché un accendino ha colpito l’arbitro. Il Barbera deve essere sempre più un luogo attrattivo per le famiglie. Ci guadagnerebbe la civiltà e si avrebbero molti più tifosi normali. Dove per normale si deve intendere una persona che tiene ai rosanero, si dispiace se le cose non vanno bene e nel caso critica, o esulta nei momenti migliori, ma che non varca gli ingressi del Barbera per fare la guerra con parole, comportamenti e gesti che fuori verrebbero immediatamente perseguiti codice penale alla mano.

Chissà quando sarà possibile assistere a una partita con tifosi avversari sistemati dove vogliono. Chissà quando si potrà vedere in pace una gara senza il perimetro divisorio molto fastidioso che separa gli spettatori dal campo. Chi non salta è civile, non chi non salta è catanese, si potrebbe finalmente cantare. Ecco, la serie A sarebbe innanzitutto questo. Se ancora non è così la colpa è di poche migliaia di sedicenti “tifosi”. Trasferiamoci dentro la tempesta di critiche che investono il Palermo calcio al momento e per la verità a partire dal risultato finale dello scorso campionato. Sia chiaro, in Italia ci sono milioni di commissari tecnici della nazionale in servizio permanente effettivo. Tuttavia occorre tenere in considerazione i fatti. Che può essere procedura fastidiosa ma molto consigliabile. I rosanero sono stati ripresi pochi anni fa, cioè nel 2019, dal fondo in cui erano caduti. E ciò grazie a un imprenditore palermitano, Dario Mirri. Che rischiando del proprio e facendo dunque fatti più che parole, sport quest’ultimo nel quale a Palermo moltissimi sono più che bravi, ha ripreso la società riportandola subito in C.

Dopo un primo torneo di vertice in C, il secondo anno la compagine di Viale del Fante è tornata in B. E qua assistiamo a un passaggio estremamente importante. La squadra di punta del calcio siciliano viene messa sapientemente nelle mani di una holding sportiva di prima grandezza a livello mondiale, il City Football Group. Mirri rimane presidente e tifoso. E quanto sia tifoso che segue tutte le partite in piedi lo vedo dal mio seggiolino in tribuna allo stadio. Questa storia la conosciamo, ma è bene rammentarla perché a Palermo ci si scorda subito di tutto. E' vero che il Palermo calcio negli anni precedenti aveva calcato da protagonista la seria A. Ma non si assicurò allora, tutt’altro, un passaggio che desse continuità a quel periodo. Cosa che adesso si è fatta e non era per nulla scontato. Ogni volta che i tifosi si abbandonano a commenti distruttivi, allo stadio e sui social, dovrebbero fare mente locale su tale consolidato quadro sportivo e finanziario. Che ha portato in dote pure risultati e certamente altri ne verranno su tali basi. Nel primo anno di B, dove i tantissimi tifosi commissari tecnici si sono fatti apprezzare con critiche affilatissime, il Palermo ha ottenuto gli stessi punti dell'ultima squadra ammessa ai playoff per accedere nella massima serie.

Nel campionato in corso, che è ancora abbastanza lungo, naviga su posizioni di testa ed ha tutte le chance di agganciare una delle due posizioni che assicurano l'accesso in A. Certo, si possono pure vincere tutte le partite. Ma in un campionato molto lungo è fisiologico avere periodi di calo anche importanti e poi occorre tenere presente che in campo ogni partita c'è la fastidiosa presenza della squadra avversaria. Magari, andrebbe detto ai molti “tifosi” che si lamentano, Palermo fosse in testa alla classifica, vicina alla A, in tanti importanti e fondamentali indicatori della qualità della vita. Che invece, classifica dopo classifica e anno dopo anno, la vedono in coda insieme agli altri capoluoghi di provincia siciliani e del mezzogiorno. E va detto che i responsi impietosi di tali graduatorie sono in quota parte considerevole addebitabili proprio agli stessi cittadini, di cui la massa dei tifosi costituiscono un completo spaccato economico e sociale, che certo non vivono a Palermo con livelli di cittadinanza finlandesi.

Qualcuno ha obiettivi e programmi importanti sul Palermo calcio. Programmi e obiettivi sono merce rara alle nostre latitudini. Magari ve ne fossero tanti così solidi sulle tante città di cui è composta la nostra metropoli. Molti “tifosi” avevano già mentalmente acquisito la Serie A nelle loro teste. Devono avere un po’ di pazienza e vero amore verso i colori della propria squadra. Esultare quando si vince è sin troppo facile. Capire il contesto e non pretendere tutto e subito richiede una maturità che si deve conquistare in primo luogo sugli spalti. L’importante è sapere che il percorso è quello giusto. E per me, tifoso abbonato, la strada tracciata è abbastanza chiara.


Articolo dal sito del giornale

https://www.palermotoday.it/social/segnalazioni/palermo-cittadella-cori-tifosi-esonero-corini.html 

Da facebook 

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domenica 15 ottobre 2023

Scuole: ricreazione da ripensare ed emigrazione di giovani intelligenze e saperi su cui agitarsi veramente.

 

PALERMOTODAY – 15 OTTOBRE 2023

Ricreazione vietata fuori dalle aule? Sì alle agorà dentro le scuole, ma si mettano da parte i cellulari

Francesco Palazzo

 

E' vietato vietare in Sicilia e a Palermo la ricreazione esterna agli edifici scolastici, perché ciò limiterebbe i nostri studenti e le nostre studentesse di aspetti relazionali fondamentali con i loro coetanei? Se tale domanda da adulto mi fosse stata posta tra il 1978 e il 1983, cioè quaranta e più anni fa, ossia il periodo in cui ho frequentato la scuola superiore, non avrei avuto dubbi, per quanto sia sempre opportuno coltivarli.

Erano talmente poche per me ragazzo di periferia le possibilità di avere tanti altri contatti "liberi" oltre la ricreazione con i miei compagni di scuola, che effettivamente l'avrei vissuta male una negazione in tal senso. E con molte ragioni. Ma siamo nel 2023. Quasi cinquantanni di calendario dagli anni settanta. Ma in realtà anni luce da quel periodo se consideriamo come è mutata la società. I costumi, fatti di una miriade infinita di angolature, sono completamente cambiati. Basti pensare che i contatti tra i giovani di oggi avvengono incessantemente, giorno e notte, attraverso gli smartphone. Da questo punto di  vista magari dovremmo preoccuparci più della qualità di questo diuturno e compulsivo relazionarsi e vedersi attraverso i cellulari, che della quantità. Che davvero è infinita e talvolta pure dannosa.

Ma lo stare insieme non è fatto soltanto di elettronica, oggi. Un po' tutti conosciamo la vita quotidiana di figli e nipoti in età scolare. Con i compagni, le compagne di scuola , oppure amici e amiche, si esce praticamente quasi ogni sera, si va in vacanza insieme in Italia e all'estero senza difficoltà. Cose che quarant'anni addietro erano inconcepibili. Ed è bello che le cose siano cambiate. "Tutto buono e benedetto", avrebbe sentenziato la mia nonna materna. Per quanto detto, innanzitutto occorre sempre collocare storicamente le nostre discussioni. Si potrebbe però obiettare una cosa. Ma con tutta questa libertà tecnologica ed esistenziale che senso ha vietare uno spazio di questo tipo?

La mia risposta è che avere una limitazione nel 2023 non nel 1950, non della libertà, che è parola che francamente lascerei ad altri più pregnanti contesti, può essere, tenetevi forte, un'occasione di crescita. Cosa impedisce a questi ragazzi e ragazze di conoscersi e riconoscersi anche nel momento di ricreazione vissuto dentro le patrie istituzioni scolastiche? A occhio e croce, nessuno. Occorrerebbero, questo sì, delle scuole in grado di offrire spazi opportuni, tipo agorà o giardini interni, in cui i nostri adolescenti possano passeggiare e parlare. Magari guardandosi negli occhi e mettendo da parte i cellulari. E certo anche con punti in cui rifocillarsi.

Che poi, queste ricreazioni esterne alla fine cosa sono e che socializzazione assicurano. Ma vi pare che fare, più o meno da soli, la coda al bar o in panineria contenga tutta questa crescita? Possiamo discuterne. Peraltro per mangiare potrebbero prepararsi o farsi preparare qualcosa di sano la mattina. Meno fast food e più slow food, insomma. Ho letto che per questo "divieto" c'è un clima di sciopero tra i ragazzi. Uno sciopero non si nega a nessuno, figuriamoci.

Ma forse i nostri figli e nipoti farebbero bene a farsi anche un  ragionamento collaterale. Quando la ricreazione sarà veramente finita, cioè quando avranno completato i loro cicli di studi con la triennale universitaria, saranno costretti ad andarsene da questa terra. E sappiamo tutti cosa ciò significa. Case svuotate e società meridionale carente di giovani intelligenze e saperi. Ecco, quello, cari ragazze e ragazzi, sarà, visto che non lo sceglierete, un vero attentato alle vostre libertà più vere e importanti. Se insieme alla motivazione della ricreazione infranta aggiungerete pure quest'ultimo aspetto, sarà più agevole sintonizzarci sui vostri disagi.

Articolo dal sito del giornale

https://www.palermotoday.it/social/segnalazioni/opinione-ricreazione-vietata.html?fbclid=IwAR3fK3VihT2GCKWuk1aIr5iwBl-j_WLISGEArzf9gNyOOlaKssUdbeVFK0I

Pagina facebook del giornale con l'articolo, le reazioni e i commenti

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Raccontiamo bene mafia e antimafia. Servirà a sconfiggere la prima e a potenziare la seconda.

 CITTA NUOVE CORLEONE - 14 OTTOBRE 2023

Mafia, antimafia & fiction. Il problema non è raccontare di più l’una o di più l’altra, ma raccontare tutto e meglio, senza inutili orpelli retorici

Francesco Palazzo

Il dibattito, interessante, lo ammettiamo, non è nuovo. Al contrario. Quando si parla di mafia può capitare di ascoltare il parere, ovviamente rispettabilissimo e con alcune ragioni al suo arco, che i film, le fiction o altri prodotti di questo tipo che parlano di mafiosi possono rischiare di esaltare figure che magari i giovani potrebbero prendere ad esempio positivo. 

Ultimamente si è chiesto di esaltare piuttosto e soprattutto le vittime del disonore mafioso. Cosa giustissima e preziosa, che per la verità si è fatto e non da ora. Infatti, la vita di molti eroi morti sotto il piombo mafioso è stata trasportata in prodotti cinematografici e televisivi che hanno avuto largo e duraturo successo. L'elenco sarebbe molto lungo. Su Don Puglisi possiamo contare film, documentari e tanti libri. La stessa cosa vale per i giudici Livatino, Falcone, Borsellino, Chinnici e altri magistrati. Per l'imprenditore Libero Grassi. Per Peppino Impastato, Piersanti Matterella o Pio La Torre.

Ma sono state raccontate e comunque sono molto conosciute anche storie di giornalisti, di un altro prete come don Beppe Diana, di ragazze come Rita Atria e Graziella Campagna. Poi il prefetto Dalla Chiesa. E la lista potrebbe proseguire. Ed è chiaro che le vite di tutte le vittime di cosa nostra si dovrebbero raccontare. Tanto sono preziose e fondamentali al fine di liberarci dalle mafie. Così come è necessario, questo il punto, che si raccontino le azioni delle cosche mafiose e degli esseri umani che le hanno perpetrate. Direttamente in quanto punciuti. O indirettamente, ma non meno colpevolmente, nelle vesti di collusi e conniventi. E qua la lista si potrebbe allungare a dismisura. Perché prima o poi, liberandoci da ideologismi novecenteschi di varia natura, per i quali esiste soltanto la borghesia mafiosa, si dovrebbero portare al cinema, in televisione e sui libri le motivazioni per cui tanta parte di popolo da più di 160 anni, se vogliamo partire dall'Unità d'Italia, accorda colpevoli compiacenze alle mafie. E qua peraltro sorge una domanda. Come mai, se il pericolo sarebbe l'emulazione per via delle storie dei boss raccontate sul piccolo schermo, la mafia ha attecchito quando la televisione, il mezzo più impattante sulla pubblica opinione, con il suo contorno di prodotti più o meno buoni, era ben lontana dall'essere un oggetto presentissimo nelle nostre case? Forse, direi che possiamo esserne certi, il problema non è allora questo. Dobbiamo semmai augurarci, senza imbrigliare la creatività di nessuno, che si racconti tutto e sempre meglio. Da questo punto di vista, l'unica critica che si può porre a chi vuole raccontare mafia e antimafia, è quella che gira attorno ai singoli prodotti. Caso per caso. Tenendo presente che si possono raccontare male la mafia e I mafiosi, certo, ma anche l'antimafia e i suoi, nostri, eroi. In quest'ultimo caso non è infrequente vedere e ascoltare sceneggiature improbabili o ricostruzioni storiche molto discutibili, dove si nota più il vuoto della retorica che la pienezza di storie raccontate con maestria. Andando al fondo senza limitarsi alla superfice. Noi dovremmo sentire l'esigenza di sapere cosa hanno fatto e fanno i mafiosi e una larga parte di popolo, borghese e popolare, che li sostiene. E cosa hanno fatto e fanno coloro che alle mafie si sono opposti e si oppongono. Sia le figure dei mafiosi sia le riproduzioni degli ambienti che li producono devono essere fatte bene. Stessa cosa vale per gli antimafiosi. Arriverà il giorno in cui le mafie non ci saranno più. Quel momento sarà il frutto di tante circostanze strutturali. Una parte, possiamo esserne certi, ce l'avranno i tanti modi in cui mafia e antimafia saranno raccontate bene, e non soltanto per quanto accaduto in passato, al grande pubblico.

https://www.cittanuove-corleone.net/2023/10/mafia-antimafia-fiction-il-problema-non.html?m=1&fbclid=IwAR3bQVcd-7qoGcDJ20vJog-HSF9rLFiXVBEz6Xz9RhuGpyDHOcBCCjuLe8Q 


domenica 17 settembre 2023

Parole e retorica a parte, dell'antimafia di Puglisi, a 30 anni dall'omicidio, cosa è rimasto nelle parrocchie? Poco o nulla.

             Città Nuove Corleone - 17 settembre 2023

          A 30 anni dall'omicidio, l'operato di don Puglisi è rimasto senza eredi nelle parrocchie?

 Francesco Palazzo

   https://www.cittanuove-corleone.net/2023/09/a-30-anni-dallomicidio-loperato-di-don.html?m=1&fbclid=IwAR3gfGjkS4OooVRbyROgXFJlPmednpcWI5r1Y1onVEqI6kVAPxT1bdb6QlM


                       


Il trentesimo anniversario dell’omicidio per mano mafiosa di Don Pino Puglisi ci consegna la possibilità di avanzare alcune riflessioni. Sullo sfondo una domanda che non possiamo eludere e alla quale non si può non rispondere. Cosa è cambiato nelle parrocchie della chiesa palermitana e siciliana dopo quel colpo alla nuca che il 15 settembre 2023 raggiunse il parroco di San Gaetano a Brancaccio mentre si apprestava a inserire la chiave nel portone per risalire a casa nel giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno? Per rispondere al quesito che, converrete, non è di poco momento, partiamo da altri contesti. Abbiamo appena celebrato il trentaduesimo anniversario dell’omicidio per mano mafiosa di Libero Grassi. Che si oppose in solitudine al racket delle estorsioni e per questo fu ucciso. Fu ammazzato perché non voleva pagare il pizzo ma principalmente per la ragione che era il solo a non volersi piegare a questa aggressione economica. Se fossero stati in tanti a non volerlo fare sarebbe stato inutile per la mafia programmare ed eseguire l’omicidio. Prova ne è che nei trentadue anni a seguire ci sono stati e ci sono tanti casi di imprenditori e commercianti che come lui non hanno voluto pagare denunciando, sono rimasti a Palermo a gestire le loro imprese e hanno visto assicurare alla giustizia i mafiosi. Non sono stati e non sono tantissimi ma non possiamo affermare che l’esempio eroico di Libero Grassi sia rimasto senza seguito. Spostiamoci nel campo della magistratura. Tanti sono stati purtroppo i magistrati che hanno lasciato il loro sangue in terra siciliana e non soltanto per contrapporsi alla criminalità mafiosa. Possiamo però dire che non sono rimasti senza eredi in tutta la magistratura italiana. Tanti loro colleghi della stessa generazione o di generazioni successive hanno raccolto pubblicamente il testimone e continuano a seguire quella strada. Anche in questo caso rendendo fortunatamente inutili o meno probabili gli eventuali progetti di eliminazione dei singoli. Sino a quando erano pochissime le toghe che si opponevano a Cosa nostra e alle altre mafie, era più semplice per gli uomini del disonore puntarle come obiettivi. Se parliamo del giornalismo, anche in questo settore professionale le mafie hanno eliminato diverse persone che le combattevano dalle colonne dei giornali. Non erano molte e anche in questo caso non è stato complicato per le mafie metterle nel mirino. Ma è fuor di dubbio che dopo di loro sono nati tanti giornalisti che si sono ispirati e si ispirano a loro non nel chiuso delle loro stanze ma pubblicamente da tanti giornali cartacei, online e con pubblicazioni. Se riflettiamo un attimo su quanto accaduto in politica, riferendoci agli omicidi di Piersanti Matterella e Pio La Torre, negli ultimi 40 anni c’è stato sicuramente un ceto politico e partitico che, certo non all’unanimità, ma nella stragrande maggioranza ha raccolto pubblicamente il lascito dei due uomini politici. Quanto ci sia di forma e di sostanza in certa antimafia oramai diffusa nei partiti e nelle istituzioni se ne potrebbe discutere. Ma indubbiamente siamo in un’altra era rispetto al 1980. Tornando a Puglisi e provando a chiudere il ragionamento, va detto che sicuramente anche lui viene eliminato perché in nessun’altra parrocchia palermitana allora avveniva quello che lui stava realizzando a San Gaetano.  Dove però negli anni immediatamente precedenti c’era stata un’esperienza simile con Rosario Giuè parroco di San Gaetano a Brancaccio. Ma dopo Puglisi cosa è accaduto? Ci sono stati dei parroci con parrocchie al seguito che hanno iniziato e continuato pubblicamente e quotidianamente sulla scia di don Pino per quanto riguarda la contrapposizione a Cosa nostra? Onestamente a me pare di no.  Parliamo ovviamente di pastorali parrocchiali, che magari avrebbero dovuto e dovrebbero essere incoraggiate da una pastorale diocesana specifica.  Che non c'è mai stata. I singoli, parroci e fedeli, avranno sicuramente coltivato e coltivano personalmente una forte dimensione antimafia. Ne siamo certi. Non è questo il punto. Ma qua si parla di cosa fatto alla luce del sole nei territori delle parrocchie come comunità parrocchiali. Puglisi non viene ucciso perché genericamente nei dialoghi interpersonali parlava di mafia, oppure perché partecipava a convegni in cui si discuteva di mafia, o perché coltivava personalmente nel privato una sua dimensione antimafia. Non viene neppure ucciso per la verità perché lavorava con i bambini e i ragazzi. Sì, faceva pure questo. Ma diventa pericoloso per la mafia nella misura in cui lavora quotidianamente nel territorio con gli adulti con i quali sperimenta e vive una posizione adulta verso la politica e di accusa palese, puntuale e diretta verso gli uomini di Cosa nostra. Ho l’impressione che nella chiesa palermitana dal 15 settembre 1993, dunque negli ultimi 30 anni, non parliamo perciò di un periodo breve, pur beatificando Puglisi, si sia un po’ tornati nei territori parrocchiali all’ombra dei campanili. Magari mi sbaglio e in tal senso sarei contento di leggere analisi diverse. Ma se le cose stessero così occorrerebbe chiedersi perché è accaduto e come si può rimediare. Mi chiedo, ad esempio, se ai parroci che proprio nel nome di Puglisi vengono mandati in tante parrocchie proprio il 15 settembre, siano state date indicazioni specifiche per mettersi sulla strada di 3P. Alla fine non possiamo che affrontare il seguente quesito. Se Don Puglisi tornasse oggi nella Chiesa di San Gaetano a Brancaccio sarebbe ancora, belle parole e retorica a parte, concretamente e quotidianamente solo nella sua lotta a Cosa nostra dentro la chiesa palermitana?

venerdì 25 agosto 2023

Palermo: la violenza a due passi dal mare e la città.

 La Repubblica Palermo -  20 agosto 2023

Dopo la violenza di gruppo a Palermo: l’abitudine della città alle brutture

                      Francesco Palazzo 

                                                       

Il gravissimo fatto di cronaca, una ragazza che viene fatta oggetto di violenza sessuale a Palermo, i cui contorni ovviamente devono essere definiti e chiariti dalla giustizia, ci rimanda l'immagine di una comunità in cui in fondo ci si può abituare a non vedere.

La ragazza ha detto, da quanto viene fuori dalle indagini, di aver chiesto aiuto, ma di non essere stata notata dagli altri. I motivi di questa indifferenza possono essere tanti. Troppi, in una società massificata che vive oramai più sui social che nelle concrete dinamiche individuali. A tal proposito, con riferimento a come viene considerata la donna, può essere molto istruttivo farsi un giro sui protagonismi imperanti in alcuni social.

Per considerare nella sua complessità la cosa, è possibile che in una comunità in cui molte cose non sono al loro posto o non dovrebbero più esserlo, anche una circostanza come questa di una ragazza che chiede aiuto, possa essere catalogata, prima che la brutalità avvenga in un luogo fuori dalla vista, come un'altra cosa normale che non è al suo posto. La cronaca ci dice che il fatto avviene nei pressi di un cantiere che non dovrebbe stare più lì, visto che sono trascorsi dieci anni, da quanto leggiamo, dalla sua apertura. Oramai l'insenatura di questo luogo è diventata pure parcheggio. Dove personalmente più volte ho lasciato l'auto. È un luogo dove transito spesso durante la mia attività sportiva.Tra le lamiere prospicienti il marciapiede vedi pure diversi posteggiatori abusivi all'opera. Che in tutta la città non dovrebbero stare nelle loro postazioni ma a cui tanti cittadini e cittadine pagano regolarmente il pizzo. Pure la mafia, per la verità, dopo secoli di presenza non dovrebbe più starci. Ma sta al proprio posto perché tollerata e foraggiata a vari livelli, sia popolari che borghesi.

Ti rendi conto in perfetta buona fede che tante cose, che non stanno nel posto giusto o non dovrebbero più starci, possono diventare tanto normali da non "vederle" più. Così come si può non accorgersi di una ragazza che chiede sostegno. In mezzo ci può stare dunque anche il non "vedere" quotidiano, perché oramai è una postura cui hai fatto l'abitudine. Sino al punto da non registrare un fatto grave che si sta consumando sotto i tuoi occhi.

Siamo stati di recente in una bellissima capitale europea, Riga, pienissima di liberty (circa 800 palazzi uno più bello dell'altro) stile del quale ci riempiamo la bocca avendolo in molti casi fatto fuori, una città dove ogni cosa è al proprio posto. Semplicemente. Quando ogni anno torniamo dalle vacanze abbiamo qualche giorno di difficoltà, poi ci riabituiamo a tutto. Ogni cosa presa da sola non è la fine del mondo. Ma insieme tutti i pezzi dissonanti formano un quadro in cui abbiamo trovato la nostra dimensione, che tuttavia non è giustificabile.

Che so, percorrendo il sottopasso verso la Cala mi aspetto di trovare un incolonnamento dovuto alla tante auto lasciate malamente in sosta per prendere qualcosa da mangiare. Stessa cosa, in questo caso per lo shopping, vediamo in via Sciuti, in via Terrasanta, in via Ausonia, in via Belgio. Solo alcuni esempi di cose, in questo caso automobili, che non sono al loro posto. Ci abituiamo. Consideriamo normalità anche quelli che una volta erano i birilli colorati ai margini del prato del Roro italico e che da tempo sono non più presentabili. Ci abituiamo pure allo scheletro di quella che doveva essere la piazzola di legno con annessa passerella che doveva sorgere sul mare nella costa sud o di levante, mai messa in funzione e più volte devastata dagli incendi. Consideriamo fisiologiche le auto e le attività commerciali che impediscono di vedere il porticciolo di Sant'Erasmo. Cose che non sono al loro posto o che non dovrebbero più starci. Si potrebbe anche dire del fogliame che abitualmente ricopre il lungo tratto di marciapiedi che unisce la Statua al Politeama. Lo calpesto quasi ogni giorno nella lunga vasca Stadio - Porticciolo di Sant'Erasmo e ritorno. Ti abitui pure a quelle foglie che non dovrebbero stare lì.

Ma non è normale questa assuefazione. È bella Palermo e tante persone lavorano per renderla sempre più attraente. Ma non può essere normale che in molti quartieri per aprire un negozio o acquistare una casa occorra chiedere il permesso al mammasantissima di turno. Che non dovrebbe stare lì e in nessun altro posto. Ecco. Se in questa città, insieme alle tante cose belle e positive che si fanno, facessimo stare al proprio posto quello che deve starci, togliendo da tanti contesti ciò che non deve o non deve più esserci, forse, dico forse, potremmo porre sempre più le condizioni per ascoltare bene e "vedere" subito ciò che è dissonante e quindi urgente da affrontare. Anche il grido o il pianto sommesso di una ragazza che chiede aiuto.

https://palermo.repubblica.it/commenti/2023/08/20/news/violenza_palermo_ragazza_branco-411755890/

sabato 8 aprile 2023

La retorica della bellezza non salverà il mondo.

 La Repubblica Palermo – 4 aprile 2023

Palermo, non basta la bellezza a colmare le distanze tra i bambini del centro e quelli di periferia

Francesco Palazzo


Sono nato a Brancaccio nel 1964 e quaranta e più anni fa, in pieno Novecento e guerra fredda ancora in corso, c'è stato un periodo in cui alcuni ragazzi promuovemmo l'installazione di diversi murales per le vie del quartiere. Così come sempre negli anni Ottanta del Novecento si lottava, coinvolgendo anche le scuole, per il recupero di spazi abbandonati e la riconversione di altri verso la bellezza. Allo stesso modo, ne ricordo una in particolare con i palloncini, c'erano manifestazioni con i bambini delle scuole contro la mafia. Si pensava, come oggi, quindi siamo ancora a 40 anni fa, che la creazione di colori, il recupero di spazi e strutture e la sensibilizzazione contro i mafiosi fossero i punti mancanti di un mosaico che potessero completare il disegno e farci uguali o simili ai coetanei di altre parti più progredite e servite della città. Che dopo diversi decenni si debba ritenere che ancora questa sia la strada maestra ci dice molto. Se siamo ancora a quel punto significa che i divari di alcune zone della città rispetto ad altre non sono stati colmati e dunque forse occorrerebbe, con realismo e onestà intellettuale, ritenere che non può essere questo il sentiero maestro. Ciò che occorre affinché tutti i bambini partano dalle stesse condizioni non può essere costruito da associazioni e volontari o dalla carità, ma deve essere garantito dalle pubbliche istituzioni come base di partenza uguale per tutti. Altrimenti si rischia di rivestire di retorica e di retorica infiocchettare rimedi che a nulla rimediano. La bellezza messa a coprire ciò che non funziona non salverà il mondo ma rimanderà sempre a dopo lo scioglimento dei nodi cruciali. Quelli per cui, oggi come e più di 40 anni fa, le differenze di partenza tra un bambino e una bambina che nascono e crescono allo Sperone o in via Libertà sono uguali o forse risultano peggiorate rispetto ad allora. E se così è, dobbiamo riconoscerlo e lottare affinché tra 40 anni non sia più così. Oppure si devono applicare gli stessi rimedi di 40 anni fa, quando i fatti e i numeri che sono davanti a noi ci dicono che non spostano nulla o poco o forse peggiorano la situazione, visto che rispetto ai primi anni Ottanta del Novecento le disparità in termini di condizioni di partenza tra un quartiere periferico e uno centrale sono le stesse oppure peggiorate? E che siano peggiorate ce lo dicono le analisi dei flussi elettorali. Cioè il comportamento ai seggi dei genitori dei bambini e delle bambine di Palermo. Nel quadrilatero che possiamo chiamare della Ztl il voto è più libero. Più ci allontaniamo da questa zona, più il consenso rimane legato all'assistenzialismo. Insomma, il cerchio si chiude e non lo si può riaprire e modificare con i pannicelli caldi. Per carità. Che si continui con i murales, le corse, le manifestazioni di vario tipo. Sicuramente salveranno le giornate o daranno colore a qualche facciata. Purché si riconosca che un'altra è la realtà e che non può essere la soluzione mettere la più bella carta da parati che c'è sopra un muro cadente.

https://palermo.repubblica.it/commenti/2023/04/04/news/palermo_non_basta_la_bellezza_a_colmare_le_distanze_tra_i_bambini_del_centro_e_quelli_di_periferia-394828156/?fbclid=IwAR1L4JM1S8ynfgcwaE4ihTodpvLJohgt1usW9075kQ-19anj4QbHHXzTPbM 

lunedì 20 marzo 2023

Una domanda a Papa Francesco. Cosa significa che i mafiosi sono scomunicati?

LA REPUBBLICA PALERMO - 16 MARZO 2023 

SCOMUNICA AI MAFIOSI, COME PASSARE NELLE PARROCCHIE DALLE PAROLE AI FATTI

Francesco Palazzo


In occasione del decennale dalla sua elezione, papa Francesco è tornato a parlare di mafia. Facendo anche il nome di don Puglisi, ha confermato la scomunica per i mafiosi. Siamo nell'anno del trentesimo anniversario dell'omicidio mafioso di don Pino, a cinque anni dalla visita a Palermo di Francesco nei luoghi di 3P e a trent'anni dal monito contro i mafiosi, che era in realtà una scomunica al cubo, di Giovanni Paolo II sotto il Tempio della Concordia. Ci si può dunque chiedere - i tempi sono abbastanza maturi, direi che si viaggia con molto ritardo - cosa esattamente, quotidianamente, vuole significare tale scomunica dal punto di vista sacramentale e pastorale. Dire che la mafia e i mafiosi sono scomunicati in linea di principio può essere appagante per la Chiesa, per il risvolto massmediatico che ogni volta ha tale sentenza pronunciata urbi et orbi. Ma tutto va portato a terra. Dal punto di vista dei sacramenti, a parte casi specifici e isolati, si vietano matrimoni, funerali, estreme unzioni, accostamenti all'eucaristia? Magari ci siamo distratti ma non ci pare. Del resto, se un intendimento non diventa un fatto giuridico, non esiste. Quando la Chiesa vuole, ad esempio con i divorziati risposati civilmente o conviventi, trova il modus operandi. Pertanto, oggi può ricevere l'eucaristia un mafioso conclamato e condannato a ripetizione e in via definitiva, ma non una persona divorziata e risposata civilmente o convivente. Qualche anno fa era stato interdetto in qualche diocesi ai mafiosi il ruolo del padrinato legato ai battesimi e alle cresime. Ora in alcuni contesti diocesani questo ruolo è stato sospeso per tutti. Anche se scrutiamo l'ambito pastorale, per tanti aspetti più importante di quello strettamente ritualistico, si registra poco seguito a questa roboante, e ripetuta sino alla noia, scomunica. Visto che la stringente pastorale di don Puglisi di fatto è stata abbandonata nelle parrocchie, sopravvive nelle cattedrali tra le pieghe di omelie vibranti e certamente negli intendimenti impliciti di qualche parroco. Sia chiaro, fare antimafia oltre le parole, cosa nella quale siamo diventati tutti bravi, non è semplice. Applicarla come ha fatto don Puglisi, che proprio per questo è stato ucciso da mafiosi credenti, è tutta un'altra storia. Della quale però dal 15 settembre 1993, cioè da quella sera di fine estate che pose fine alla vita di un presbitero sul marciapiede di un quartiere di periferia, sono state scritte, al di là dei proclami, poche pagine. Per utilizzare, modificato, il passaggio più conosciuto dei quattro vangeli, il verbo non si è fatto carne. Domenica mattina, durante un passaggio veloce in cattedrale, a Palermo, ho sostato come sempre qualche minuto davanti al posto dove riposa don Pino. Il punto, riflettevo, è se ci si vuole fermare all'aspetto meramente devozionale, magari richiamando in astratto la vita di don Puglisi come esempio. Oppure se si vuole passare, e dopo trent'anni da quel colpo alla nuca sarebbe pure ora, ai fatti. Ossia a una pastorale incarnata nelle parrocchie, non nell'alto dei cieli, che ripercorra le orme del prete di Brancaccio. Il suo metodo. Che era fatto di conoscenza del territorio, azioni su di esso, rapporti con quanti volevano concretamente promuovere cittadinanza libera dalla mafia chiedendo servizi, interazioni adulte con la politica senza chiedere finanziamenti ma sviluppo e contrasto diretto non alla mafia in generale ma alla cosca locale. Non è la prima volta che scrivo queste cose. Ma dalle diocesi siciliane non sembra di scorgere risposte fattive e operative in tal senso. Soltanto buoni propositi. Perciò stavolta, visto che per ultimo, qualche giorno addietro, è stato proprio lui a parlare nuovamente di scomunica ai mafiosi, chiediamo direttamente all'ottimo, e apprezzatissimo in questi dieci anni di pontificato, papa Francesco. Magari lui ci risponderà e ci farà capire qual è la strada che la Chiesa, dopo aver messo agli atti la scomunica alle mafie, vuole percorrere nelle parrocchie dei quartieri, dal Sud al Nord del nostro Paese, giorno dopo giorno. Altrimenti non ci resterà che attendere la prossima volta in cui la Chiesa cattolica ci dirà che i mafiosi sono scomunicati. 


https://palermo.repubblica.it/commenti/2023/03/16/news/scomunica_ai_mafiosi_come_passare_nelle_parrocchie_dalle_parole_ai_fatti-392298381/?fbclid=IwAR0FZ__TVxB3Lj7Y0oPeTqNZ5rT_sGIhtG-a-7NZ46nqBFF7KbT-E7o2Yo8 

 

lunedì 23 gennaio 2023

Le minoranze antimafia e l'ideologia che assolve il popolo non borghese connivente.


          La Repubblica Palermo

        21 gennaio 2023

Non solo borghesia: il consenso alla mafia è ancora ampio e trasversale

          Francesco Palazzo


In questi giorni da tanti versanti si torna a parlare di borghesia mafiosa. Va detto che il concetto di borghesia nel ventunesimo secolo non è facile da coniugare come si poteva con più facilità fare nei decenni scorsi. Quando bastava dire, durante le ideologie imperanti, soprattutto a sinistra, la sola parola borghesia per lasciare intendere qualcosa già da sola non proprio potabile. Ci sono ancora strascichi di quelle ideologie, che beninteso avevano dentro molti aspetti positivi? Non possiamo escluderlo. Nel nostro caso ci si riferisce a soggetti della borghesia, posizionati nei più svariati luoghi, che aiutano Cosa nostra. I fatti del passato e del presente sono evidenti. Dunque la riflessione su tali individualità, perché sempre di singole persone si tratta, che possiamo senz'altro collocare nell'ambito della borghesia che va a braccetto con le mafie, dobbiamo farla. Solo che spesso, per non dire sempre, magari riverniciando pure in questo caso frammenti di ideologismi novecenteschi, si ritiene di dover assolvere o non colpevolizzare più di tanto il popolo non classificabile nell'album della borghesia. Arrivati a questo punto, a me il ragionamento pare ogni volta abbastanza zoppo, per non dire per nulla conducente. Perché, se non si vuole guardare la realtà con un solo occhio, cosa che in genere non porta a grandi traguardi di analisi, soprattutto quando si parla di lotta alla mafia, occorre aprire pure l'altro. E ammettere che nella cultura popolare, ammesso e non concesso che tra popolo e borghesia ci sia una netta cesura, si annidino ampi spazi di consenso quotidiano, voluto e ragionato, verso la criminalità mafiosa. Diciamolo chiaramente. Tra il detto e il non detto, tra l'implicito e l'esplicito, c'è questo problema. La borghesia colpevole, e il popolo senza colpe, visto che si troverebbe sostanzialmente a subire quello che è il più grande luogo comune che nel Mezzogiorno giustifica tutto. Ossia la presunta assenza dello Stato. Che invece è presente in tutto lo Stivale, certo con le carenze che conosciamo, ma pure con tanta autorevolezza. Da Nord a Sud. A meno che non si vogliano ancora ingrossare le acque del vittimismo piagnone. Se così è, bisognerebbe porsi una domanda e darsi una risposta. Messo agli atti che le consorterie criminali organizzate hanno succursali pure nel Centro-Nord, perché le mafie hanno allignato nella parte meridionale del Paese e continuano a essere presenti in tutto il Sud? Tutta colpa della borghesia mafiosa? Se questa è la sola risposta, dovremmo forse fare uno sforzo di analisi. Ammettendo che l'appoggio alle mafie è trasversale nella società. E che non esistono aiuti di serie A, quelli di alcuni individui della borghesia, e accondiscendenze di serie B, cioè quelle provenienti dalle fasce popolari. Siccome questo doppio binario, che potremmo plasticamente chiamare alta velocità e asino e carretto, non ha nessun assioma su cui basarsi, e dunque non esiste, ci tocca ammettere che il quadro è diverso e abbastanza complesso. A meno che non ci siano coloro che hanno capito tutto delle mafie e su come combatterle. Allora saremmo a posto. Ma a posto non siamo. Perché se le mafie vivono con noi spalmate su tre secoli sinora, Ottocento, Novecento e Duemila, e magari toccheranno il quarto, vuol dire che magari nel capirle e combatterle abbiamo ampi margini di miglioramento. Se andiamo nei quartieri di Palermo, tale parte non irrilevante, anzi gigantesca purtroppo, di problema la possiamo misurare ancora oggi in maniera abbastanza semplice e diretta. A meno che non ci facciamo condizionare da qualche applauso e da manifestazioni in cui sono più i giornalisti che i presenti. Quando parliamo di antimafia militante, di popolo o borghese che sia, ma tale differenza non esiste, dobbiamo ammettere che ci riferiamo a una piccola minoranza. Sicuramente c'è rispetto a prima una maggiore sensibilità, ma non più di questo. E siccome peraltro le fasce popolari sono più numerose della borghesia in senso stretto, magari il consenso maggioritario, e non meno dannoso di quello borghese, verso le mafie, non soltanto quella siciliana, rischiamo di trovarlo, e io ritengo che sia proprio così, tra il popolo.  



domenica 8 gennaio 2023

Noi e Biagio Conte. Contemplazione del cielo o azione nella città?

 

La Repubblica Palermo – 6 gennaio 2023

Biagio Conte e la vocazione di essere santi "quotidiani"

Francesco Palazzo





Sono passato ieri pomeriggio, come tanti palermitani e non, dal posto dove Biagio Conte sta percorrendo un passaggio della vita. Mi sono fermato fuori dalla casetta, a una decina di metri, non sono andato avanti, mi sembrava di disturbare. Ero stato nella sede della missione di Via Decollati nel 2004. Stavo scrivendo per questo giornale una serie di puntate sul volontariato e una era dedicata proprio a quanto lui stava facendo. Il pezzo di allora partiva con Birillo, Speranza e Carità, le tre mascotte canine che allora gironzolavano e facevano a modo loro una parte di lavoro. Ne ho parlato proprio ieri con don Pino Vitrano, il prete da sempre vicino a Conte. Mi ha chiarito la storia di Birillo che era stato maltrattato e accolto in missione. Biagio Conte mi chiamò al cellulare qualche anno fa dalla postazione dello sciopero della fame che allora ebbe come sfondo il luogo dove hanno ucciso Puglisi. Aveva dopo tanti anni letto quel pezzo e si era commosso, mi disse, nel ricordo dei cani. Anche ieri il sito di Via Decollati era come vent'anni fa. Perfetto e nello stesso tempo un cantiere aperto. Ieri Riccardo Rossi, il giornalista che dal 2018 ha scelto di vivere nella traiettoria del frate laico insieme alla moglie, mi diceva che in questi ultimi giorni stanno accadendo tante cose straordinarie. L'ho conosciuto, Riccardo, in cima alla grande scalinata delle Poste Centrali, in occasione di un altro sciopero della fame di Biagio. Un particolare colpisce da quando si è appreso delle condizioni di salute della persona che iniziò la sua avventura sotto i portici della stazione centrale di Palermo. Ripetono in tanti, come una cantilena, soprattutto nei social, che ci vorrebbe un miracolo. Come se il passaggio più critico nell’esistenza di ciascuno di noi, non fosse un fatto della vita. E come se, soprattutto, tutta la santità si fosse trasferita a Palermo in un solo uomo, che deve "per forza" esserci. Ma il miracolo è già avvenuto e se continuerà a ripetersi dipenderà da ciascuno di noi. Perché il messaggio che Biagio Conte ci comunica con la sua vita è quello, per me, che tutti possiamo diventare "santi". Ma forse è questo l'aspetto più complicato da recepire e soprattutto da vivere nella quotidianità. Come si può essere "santi" normali, feriali, non eroici, né legati per forza a una fede, a Palermo ogni giorno? Sarebbe interessante, partendo da Conte, riflettere su tale aspetto che la sua vicenda umana, secondo il mio parere, ci rimanda. Il pezzo che scrissi tanti anni fa finiva con una citazione di don Puglisi. Dovrebbe pensarci lo Stato ma intanto ci siamo noi, chiosava don Pino. Potremmo ripeterlo pure adesso. E ce lo dice Biagio, a prescindere dal suo stato attuale. Che dovremmo lasciargli vivere senza molte pressioni. Ce lo comunica da tempo. Lui e tutti quelli, purtroppo non molti, che gli somigliano. Allora, il punto non è attendersi chissà quale miracolo ultraterreno. Ma capire che, tutti, tutti, il miracolo lo possiamo fare se lavoriamo con la stessa costanza, tenacia, lucidità sul pezzo che è sotto gli occhi di ciascuno di noi. Come ha fatto e fa Biagio. Come hanno fatto, per citare solo alcuni nomi, Puglisi, Impastato, Falcone, Mattarella, del quale oggi ricordiamo il quarantatreesimo anniversario di un omicidio che ancora presenta molti, troppi, punti da chiarire. Se questa città, la Sicilia, fossero non dico piene, ma piene almeno a metà di persone che si prendessero cura di qualcosa, da qualsiasi postazione, quotidianamente, scriveremmo un’altra storia per un altro Mezzogiorno. Che non dovrebbe temere più ciò che viene da fuori. Cosa che talvolta rappresenta un alibi. Perché troverebbe al proprio interno le energie per risorgere. Sarebbe un portentoso programma di ripresa che scenderebbe alla radice dei vari, tanti, problemi con i quali dibattiamo ogni giorno. Biagio Conte, e gli altri come lui, il miracolo quindi lo hanno fatto. Ora noi possiamo guardare e contemplare passivamente, indicando la luna o metterci fattivamente nel loro percorso, impastandoci le mani di terra.

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