Città Nuove Corleone - 17 settembre 2023
A 30 anni dall'omicidio, l'operato di don Puglisi è rimasto senza eredi nelle parrocchie?
Francesco Palazzo
Città Nuove Corleone - 17 settembre 2023
Francesco Palazzo
La Repubblica Palermo – 20 agosto 2023
Dopo la violenza di gruppo a Palermo: l’abitudine
della città alle brutture
Francesco
Palazzo
Il gravissimo fatto di
cronaca, una ragazza che viene fatta oggetto di violenza sessuale a Palermo, i
cui contorni ovviamente devono essere definiti e chiariti dalla giustizia, ci
rimanda l'immagine di una comunità in cui in fondo ci si può abituare a non
vedere.
La ragazza ha detto, da
quanto viene fuori dalle indagini, di aver chiesto aiuto, ma di non essere
stata notata dagli altri. I motivi di questa indifferenza possono essere tanti.
Troppi, in una società massificata che vive oramai più sui social che nelle
concrete dinamiche individuali. A tal proposito, con riferimento a come viene
considerata la donna, può essere molto istruttivo farsi un giro sui
protagonismi imperanti in alcuni social.
Per considerare nella sua
complessità la cosa, è possibile che in una comunità in cui molte cose non sono
al loro posto o non dovrebbero più esserlo, anche una circostanza come questa
di una ragazza che chiede aiuto, possa essere catalogata, prima che la
brutalità avvenga in un luogo fuori dalla vista, come un'altra cosa normale che
non è al suo posto. La cronaca ci dice che il fatto avviene nei pressi di un
cantiere che non dovrebbe stare più lì, visto che sono trascorsi dieci anni, da
quanto leggiamo, dalla sua apertura. Oramai l'insenatura di questo luogo è
diventata pure parcheggio. Dove personalmente più volte ho lasciato l'auto. È
un luogo dove transito spesso durante la mia attività sportiva.Tra le lamiere
prospicienti il marciapiede vedi pure diversi posteggiatori abusivi all'opera.
Che in tutta la città non dovrebbero stare nelle loro postazioni ma a cui tanti
cittadini e cittadine pagano regolarmente il pizzo. Pure la mafia, per la
verità, dopo secoli di presenza non dovrebbe più starci. Ma sta al proprio
posto perché tollerata e foraggiata a vari livelli, sia popolari che borghesi.
Ti rendi conto in
perfetta buona fede che tante cose, che non stanno nel posto giusto o non
dovrebbero più starci, possono diventare tanto normali da non
"vederle" più. Così come si può non accorgersi di una ragazza che
chiede sostegno. In mezzo ci può stare dunque anche il non "vedere"
quotidiano, perché oramai è una postura cui hai fatto l'abitudine. Sino al
punto da non registrare un fatto grave che si sta consumando sotto i tuoi
occhi.
Siamo stati di recente in
una bellissima capitale europea, Riga, pienissima di liberty (circa 800 palazzi
uno più bello dell'altro) stile del quale ci riempiamo la bocca avendolo in
molti casi fatto fuori, una città dove ogni cosa è al proprio posto.
Semplicemente. Quando ogni anno torniamo dalle vacanze abbiamo qualche giorno
di difficoltà, poi ci riabituiamo a tutto. Ogni cosa presa da sola non è la
fine del mondo. Ma insieme tutti i pezzi dissonanti formano un quadro in cui
abbiamo trovato la nostra dimensione, che tuttavia non è giustificabile.
Che so, percorrendo il
sottopasso verso la Cala mi aspetto di trovare un incolonnamento dovuto alla
tante auto lasciate malamente in sosta per prendere qualcosa da mangiare.
Stessa cosa, in questo caso per lo shopping, vediamo in via Sciuti, in via
Terrasanta, in via Ausonia, in via Belgio. Solo alcuni esempi di cose, in
questo caso automobili, che non sono al loro posto. Ci abituiamo. Consideriamo
normalità anche quelli che una volta erano i birilli colorati ai margini del
prato del Roro italico e che da tempo sono non più presentabili. Ci abituiamo
pure allo scheletro di quella che doveva essere la piazzola di legno con
annessa passerella che doveva sorgere sul mare nella costa sud o di levante,
mai messa in funzione e più volte devastata dagli incendi. Consideriamo
fisiologiche le auto e le attività commerciali che impediscono di vedere il
porticciolo di Sant'Erasmo. Cose che non sono al loro posto o che non
dovrebbero più starci. Si potrebbe anche dire del fogliame che abitualmente
ricopre il lungo tratto di marciapiedi che unisce la Statua al Politeama. Lo
calpesto quasi ogni giorno nella lunga vasca Stadio - Porticciolo di
Sant'Erasmo e ritorno. Ti abitui pure a quelle foglie che non dovrebbero stare
lì.
Ma non è normale questa
assuefazione. È bella Palermo e tante persone lavorano per renderla sempre più
attraente. Ma non può essere normale che in molti quartieri per aprire un
negozio o acquistare una casa occorra chiedere il permesso al mammasantissima
di turno. Che non dovrebbe stare lì e in nessun altro posto. Ecco. Se in questa
città, insieme alle tante cose belle e positive che si fanno, facessimo stare
al proprio posto quello che deve starci, togliendo da tanti contesti ciò che
non deve o non deve più esserci, forse, dico forse, potremmo porre sempre più
le condizioni per ascoltare bene e "vedere" subito ciò che è
dissonante e quindi urgente da affrontare. Anche il grido o il pianto sommesso
di una ragazza che chiede aiuto.
La Repubblica Palermo – 4 aprile 2023
Palermo, non basta la bellezza a colmare le distanze
tra i bambini del centro e quelli di periferia
Francesco Palazzo
Sono nato a Brancaccio
nel 1964 e quaranta e più anni fa, in pieno Novecento e guerra fredda ancora in
corso, c'è stato un periodo in cui alcuni ragazzi promuovemmo l'installazione
di diversi murales per le vie del quartiere. Così come sempre negli anni Ottanta
del Novecento si lottava, coinvolgendo anche le scuole, per il recupero di
spazi abbandonati e la riconversione di altri verso la bellezza. Allo stesso
modo, ne ricordo una in particolare con i palloncini, c'erano
manifestazioni con i bambini delle scuole contro la mafia. Si pensava, come
oggi, quindi siamo ancora a 40 anni fa, che la creazione di colori, il recupero
di spazi e strutture e la sensibilizzazione contro i mafiosi fossero i punti
mancanti di un mosaico che potessero completare il disegno e farci uguali o
simili ai coetanei di altre parti più progredite e servite della città. Che dopo diversi decenni si debba ritenere che ancora
questa sia la strada maestra ci dice molto. Se siamo ancora a quel punto
significa che i divari di alcune zone della città rispetto ad altre non sono
stati colmati e dunque forse occorrerebbe, con realismo e onestà intellettuale,
ritenere che non può essere questo il sentiero maestro. Ciò che occorre
affinché tutti i bambini partano dalle stesse condizioni non può essere
costruito da associazioni e volontari o dalla carità, ma deve essere garantito
dalle pubbliche istituzioni come base di partenza uguale per tutti. Altrimenti
si rischia di rivestire di retorica e di retorica infiocchettare rimedi che a
nulla rimediano. La bellezza messa a coprire ciò che non funziona non salverà
il mondo ma rimanderà sempre a dopo lo scioglimento dei nodi cruciali. Quelli
per cui, oggi come e più di 40 anni fa, le differenze di partenza tra un
bambino e una bambina che nascono e crescono allo Sperone o in via Libertà sono
uguali o forse risultano peggiorate rispetto ad allora. E se così è, dobbiamo
riconoscerlo e lottare affinché tra 40 anni non sia più così. Oppure si devono
applicare gli stessi rimedi di 40 anni fa, quando i fatti e i numeri che sono
davanti a noi ci dicono che non spostano nulla o poco o forse peggiorano la
situazione, visto che rispetto ai primi anni Ottanta del Novecento le disparità
in termini di condizioni di partenza tra un quartiere periferico e uno centrale
sono le stesse oppure peggiorate? E che siano peggiorate ce
lo dicono le analisi dei flussi elettorali. Cioè il comportamento ai seggi dei
genitori dei bambini e delle bambine di Palermo. Nel quadrilatero che possiamo
chiamare della Ztl il voto è più libero. Più ci allontaniamo da questa zona,
più il consenso rimane legato all'assistenzialismo. Insomma, il cerchio si
chiude e non lo si può riaprire e modificare con i pannicelli caldi. Per
carità. Che si continui con i murales, le corse, le manifestazioni di vario
tipo. Sicuramente salveranno le giornate o daranno colore a qualche facciata.
Purché si riconosca che un'altra è la realtà e che non può essere la soluzione
mettere la più bella carta da parati che c'è sopra un muro cadente.
LA REPUBBLICA PALERMO - 16 MARZO 2023
SCOMUNICA AI MAFIOSI, COME PASSARE NELLE PARROCCHIE DALLE PAROLE AI FATTI
Francesco Palazzo
In occasione del decennale dalla sua elezione, papa Francesco è tornato
a parlare di mafia. Facendo anche il nome di don Puglisi, ha confermato la
scomunica per i mafiosi. Siamo nell'anno del trentesimo anniversario
dell'omicidio mafioso di don Pino, a cinque anni dalla visita a Palermo di
Francesco nei luoghi di 3P e a trent'anni dal monito contro i mafiosi, che era
in realtà una scomunica al cubo, di Giovanni Paolo II sotto il Tempio della
Concordia. Ci si può dunque chiedere - i tempi sono abbastanza maturi, direi
che si viaggia con molto ritardo - cosa esattamente, quotidianamente, vuole
significare tale scomunica dal punto di vista sacramentale e pastorale. Dire
che la mafia e i mafiosi sono scomunicati in linea di principio può essere
appagante per la Chiesa, per il risvolto massmediatico che ogni volta ha tale
sentenza pronunciata urbi et orbi. Ma tutto va portato a terra.
Dal punto di vista dei sacramenti, a parte casi specifici e isolati, si vietano
matrimoni, funerali, estreme unzioni, accostamenti all'eucaristia? Magari ci
siamo distratti ma non ci pare. Del resto, se un intendimento non diventa un
fatto giuridico, non esiste. Quando la Chiesa vuole, ad esempio con i
divorziati risposati civilmente o conviventi, trova il modus operandi.
Pertanto, oggi può ricevere l'eucaristia un mafioso conclamato e condannato a
ripetizione e in via definitiva, ma non una persona divorziata e risposata
civilmente o convivente. Qualche anno fa era stato interdetto in qualche
diocesi ai mafiosi il ruolo del padrinato legato ai battesimi e alle cresime.
Ora in alcuni contesti diocesani questo ruolo è stato sospeso per tutti. Anche
se scrutiamo l'ambito pastorale, per tanti aspetti più importante di quello
strettamente ritualistico, si registra poco seguito a questa roboante, e
ripetuta sino alla noia, scomunica. Visto che
la stringente pastorale di don Puglisi di fatto è stata abbandonata nelle
parrocchie, sopravvive nelle cattedrali tra le pieghe di omelie vibranti e
certamente negli intendimenti impliciti di qualche parroco. Sia chiaro, fare
antimafia oltre le parole, cosa nella quale siamo diventati tutti bravi, non è
semplice. Applicarla come ha fatto don Puglisi, che proprio per questo è stato
ucciso da mafiosi credenti, è tutta un'altra storia. Della quale però dal 15
settembre 1993, cioè da quella sera di fine estate che pose fine alla vita di
un presbitero sul marciapiede di un quartiere di periferia, sono state scritte,
al di là dei proclami, poche pagine. Per utilizzare, modificato, il passaggio
più conosciuto dei quattro vangeli, il verbo non si è fatto carne. Domenica
mattina, durante un passaggio veloce in cattedrale, a Palermo, ho sostato come
sempre qualche minuto davanti al posto dove riposa don Pino. Il punto,
riflettevo, è se ci si vuole fermare all'aspetto meramente devozionale, magari
richiamando in astratto la vita di don Puglisi come esempio. Oppure se si vuole
passare, e dopo trent'anni da quel colpo alla nuca sarebbe pure ora, ai fatti.
Ossia a una pastorale incarnata nelle parrocchie, non nell'alto dei cieli, che
ripercorra le orme del prete di Brancaccio. Il suo metodo. Che era fatto di
conoscenza del territorio, azioni su di esso, rapporti con quanti volevano
concretamente promuovere cittadinanza libera dalla mafia chiedendo servizi,
interazioni adulte con la politica senza chiedere finanziamenti ma sviluppo e
contrasto diretto non alla mafia in generale ma alla cosca locale. Non è la prima volta che scrivo queste cose. Ma
dalle diocesi siciliane non sembra di scorgere risposte fattive e
operative in tal senso. Soltanto buoni propositi. Perciò stavolta, visto che
per ultimo, qualche giorno addietro, è stato proprio lui a parlare nuovamente
di scomunica ai mafiosi, chiediamo direttamente all'ottimo, e apprezzatissimo
in questi dieci anni di pontificato, papa Francesco. Magari lui ci risponderà e
ci farà capire qual è la strada che la Chiesa, dopo aver messo agli atti la
scomunica alle mafie, vuole percorrere nelle parrocchie dei quartieri, dal Sud
al Nord del nostro Paese, giorno dopo giorno. Altrimenti non ci resterà che
attendere la prossima volta in cui la Chiesa cattolica ci dirà che i mafiosi
sono scomunicati.
21 gennaio 2023
Non solo borghesia: il consenso alla mafia è ancora ampio e trasversale
Francesco Palazzo
In questi giorni da tanti versanti si torna a parlare di borghesia mafiosa. Va detto che il concetto di borghesia nel ventunesimo secolo non è facile da coniugare come si poteva con più facilità fare nei decenni scorsi. Quando bastava dire, durante le ideologie imperanti, soprattutto a sinistra, la sola parola borghesia per lasciare intendere qualcosa già da sola non proprio potabile. Ci sono ancora strascichi di quelle ideologie, che beninteso avevano dentro molti aspetti positivi? Non possiamo escluderlo. Nel nostro caso ci si riferisce a soggetti della borghesia, posizionati nei più svariati luoghi, che aiutano Cosa nostra. I fatti del passato e del presente sono evidenti. Dunque la riflessione su tali individualità, perché sempre di singole persone si tratta, che possiamo senz'altro collocare nell'ambito della borghesia che va a braccetto con le mafie, dobbiamo farla. Solo che spesso, per non dire sempre, magari riverniciando pure in questo caso frammenti di ideologismi novecenteschi, si ritiene di dover assolvere o non colpevolizzare più di tanto il popolo non classificabile nell'album della borghesia. Arrivati a questo punto, a me il ragionamento pare ogni volta abbastanza zoppo, per non dire per nulla conducente. Perché, se non si vuole guardare la realtà con un solo occhio, cosa che in genere non porta a grandi traguardi di analisi, soprattutto quando si parla di lotta alla mafia, occorre aprire pure l'altro. E ammettere che nella cultura popolare, ammesso e non concesso che tra popolo e borghesia ci sia una netta cesura, si annidino ampi spazi di consenso quotidiano, voluto e ragionato, verso la criminalità mafiosa. Diciamolo chiaramente. Tra il detto e il non detto, tra l'implicito e l'esplicito, c'è questo problema. La borghesia colpevole, e il popolo senza colpe, visto che si troverebbe sostanzialmente a subire quello che è il più grande luogo comune che nel Mezzogiorno giustifica tutto. Ossia la presunta assenza dello Stato. Che invece è presente in tutto lo Stivale, certo con le carenze che conosciamo, ma pure con tanta autorevolezza. Da Nord a Sud. A meno che non si vogliano ancora ingrossare le acque del vittimismo piagnone. Se così è, bisognerebbe porsi una domanda e darsi una risposta. Messo agli atti che le consorterie criminali organizzate hanno succursali pure nel Centro-Nord, perché le mafie hanno allignato nella parte meridionale del Paese e continuano a essere presenti in tutto il Sud? Tutta colpa della borghesia mafiosa? Se questa è la sola risposta, dovremmo forse fare uno sforzo di analisi. Ammettendo che l'appoggio alle mafie è trasversale nella società. E che non esistono aiuti di serie A, quelli di alcuni individui della borghesia, e accondiscendenze di serie B, cioè quelle provenienti dalle fasce popolari. Siccome questo doppio binario, che potremmo plasticamente chiamare alta velocità e asino e carretto, non ha nessun assioma su cui basarsi, e dunque non esiste, ci tocca ammettere che il quadro è diverso e abbastanza complesso. A meno che non ci siano coloro che hanno capito tutto delle mafie e su come combatterle. Allora saremmo a posto. Ma a posto non siamo. Perché se le mafie vivono con noi spalmate su tre secoli sinora, Ottocento, Novecento e Duemila, e magari toccheranno il quarto, vuol dire che magari nel capirle e combatterle abbiamo ampi margini di miglioramento. Se andiamo nei quartieri di Palermo, tale parte non irrilevante, anzi gigantesca purtroppo, di problema la possiamo misurare ancora oggi in maniera abbastanza semplice e diretta. A meno che non ci facciamo condizionare da qualche applauso e da manifestazioni in cui sono più i giornalisti che i presenti. Quando parliamo di antimafia militante, di popolo o borghese che sia, ma tale differenza non esiste, dobbiamo ammettere che ci riferiamo a una piccola minoranza. Sicuramente c'è rispetto a prima una maggiore sensibilità, ma non più di questo. E siccome peraltro le fasce popolari sono più numerose della borghesia in senso stretto, magari il consenso maggioritario, e non meno dannoso di quello borghese, verso le mafie, non soltanto quella siciliana, rischiamo di trovarlo, e io ritengo che sia proprio così, tra il popolo.
La Repubblica Palermo – 6 gennaio 2023
Biagio Conte e la vocazione di essere santi
"quotidiani"
Francesco Palazzo
Sono passato ieri pomeriggio, come tanti palermitani e non, dal posto dove Biagio Conte sta percorrendo un passaggio della vita. Mi sono fermato fuori dalla casetta, a una decina di metri, non sono andato avanti, mi sembrava di disturbare. Ero stato nella sede della missione di Via Decollati nel 2004. Stavo scrivendo per questo giornale una serie di puntate sul volontariato e una era dedicata proprio a quanto lui stava facendo. Il pezzo di allora partiva con Birillo, Speranza e Carità, le tre mascotte canine che allora gironzolavano e facevano a modo loro una parte di lavoro. Ne ho parlato proprio ieri con don Pino Vitrano, il prete da sempre vicino a Conte. Mi ha chiarito la storia di Birillo che era stato maltrattato e accolto in missione. Biagio Conte mi chiamò al cellulare qualche anno fa dalla postazione dello sciopero della fame che allora ebbe come sfondo il luogo dove hanno ucciso Puglisi. Aveva dopo tanti anni letto quel pezzo e si era commosso, mi disse, nel ricordo dei cani. Anche ieri il sito di Via Decollati era come vent'anni fa. Perfetto e nello stesso tempo un cantiere aperto. Ieri Riccardo Rossi, il giornalista che dal 2018 ha scelto di vivere nella traiettoria del frate laico insieme alla moglie, mi diceva che in questi ultimi giorni stanno accadendo tante cose straordinarie. L'ho conosciuto, Riccardo, in cima alla grande scalinata delle Poste Centrali, in occasione di un altro sciopero della fame di Biagio. Un particolare colpisce da quando si è appreso delle condizioni di salute della persona che iniziò la sua avventura sotto i portici della stazione centrale di Palermo. Ripetono in tanti, come una cantilena, soprattutto nei social, che ci vorrebbe un miracolo. Come se il passaggio più critico nell’esistenza di ciascuno di noi, non fosse un fatto della vita. E come se, soprattutto, tutta la santità si fosse trasferita a Palermo in un solo uomo, che deve "per forza" esserci. Ma il miracolo è già avvenuto e se continuerà a ripetersi dipenderà da ciascuno di noi. Perché il messaggio che Biagio Conte ci comunica con la sua vita è quello, per me, che tutti possiamo diventare "santi". Ma forse è questo l'aspetto più complicato da recepire e soprattutto da vivere nella quotidianità. Come si può essere "santi" normali, feriali, non eroici, né legati per forza a una fede, a Palermo ogni giorno? Sarebbe interessante, partendo da Conte, riflettere su tale aspetto che la sua vicenda umana, secondo il mio parere, ci rimanda. Il pezzo che scrissi tanti anni fa finiva con una citazione di don Puglisi. Dovrebbe pensarci lo Stato ma intanto ci siamo noi, chiosava don Pino. Potremmo ripeterlo pure adesso. E ce lo dice Biagio, a prescindere dal suo stato attuale. Che dovremmo lasciargli vivere senza molte pressioni. Ce lo comunica da tempo. Lui e tutti quelli, purtroppo non molti, che gli somigliano. Allora, il punto non è attendersi chissà quale miracolo ultraterreno. Ma capire che, tutti, tutti, il miracolo lo possiamo fare se lavoriamo con la stessa costanza, tenacia, lucidità sul pezzo che è sotto gli occhi di ciascuno di noi. Come ha fatto e fa Biagio. Come hanno fatto, per citare solo alcuni nomi, Puglisi, Impastato, Falcone, Mattarella, del quale oggi ricordiamo il quarantatreesimo anniversario di un omicidio che ancora presenta molti, troppi, punti da chiarire. Se questa città, la Sicilia, fossero non dico piene, ma piene almeno a metà di persone che si prendessero cura di qualcosa, da qualsiasi postazione, quotidianamente, scriveremmo un’altra storia per un altro Mezzogiorno. Che non dovrebbe temere più ciò che viene da fuori. Cosa che talvolta rappresenta un alibi. Perché troverebbe al proprio interno le energie per risorgere. Sarebbe un portentoso programma di ripresa che scenderebbe alla radice dei vari, tanti, problemi con i quali dibattiamo ogni giorno. Biagio Conte, e gli altri come lui, il miracolo quindi lo hanno fatto. Ora noi possiamo guardare e contemplare passivamente, indicando la luna o metterci fattivamente nel loro percorso, impastandoci le mani di terra.