lunedì 21 agosto 2017

Palermo e le isole pedonali. Non basta chiudere e poi stare a guardare l'effetto che fa.

La Repubblica Palermo
20 agosto 2017 - Pag. I
Dieci, cento, mille "isole", ma che siano attrezzate
Francesco Palazzo


Su certi versanti a Palermo c’è una sola strada, andare avanti. Bene, però. Non ci si può limitare a dire che quelli di prima avevano fatto peggio. Perché di questo passo arriviamo alle guerre puniche. Senza contare che certe decisioni potevano essere prese nel corso delle sindacature degli anni Novanta. Lasciamo il passato e parliamo del presente e del futuro. Circoscrivendo il ragionamento su un punto specifico, l’area pedonale centrale. E già chiamarla così è un’inesattezza. Visto che la parti alte di Via Maqueda e Corso Vittorio Emanuele non sono isole pedonali ma zone a traffico limitato. Era possibile in cinque anni, dal 2012 al 2017, trasformare queste due mezze vie in zone pedonali a tutti gli effetti? Ovviamente sì. Al di là di questo va detto che le due mezze strade cosiddette pedonali hanno, per usare una frase che i professori dicono ai genitori degli alunni che arrivano appena alla sufficienza, ampi margini di miglioramento e di ampliamento. Questo giornale ha inaugurato una campagna su Via Maqueda. Partendo da un’evidenza solare. La cosa non va. La sera della vigilia di Ferragosto ero con un amico in Via Maqueda e notavo, per l’ennesima volta, un contesto che non si può definire decente. Le luci, l’asfalto, le bancarelle, gente che mangiucchiava dappertutto, resti di affissioni penzolanti. E poi un frigo. Sì, proprio un frigorifero da appartamento, con delle lattine e bottigliette sopra che evidenziavano la merce in vendita e un’intera famiglia comodamente seduta dietro a presidiare il business. Bisognava fare una foto ma sono rimasto interdetto. E poi devo dire che in mezzo alle bancarelle il frigo anni settanta era quasi al posto giusto. Ora, a parte l’ironia, e tenuto conto che solo passi in avanti si possono fare, che futuro c’è da aspettarsi per l’isola pedonale centrale? Lo chiediamo partendo da una considerazione. Ricordiamo, vagamente, visto che i programmi elettorali scompaiono presto e non trovano cittadinanza nei siti istituzionali, che durante la campagna elettorale del 2012 si puntava ad un’area pedonale centrale molto più ampia di quella successivamente realizzata. Poi si è trovato un ripiego e ci può stare, la politica si svolge lungo la dimensione del possibile. Ma per i pezzi di Via Maqueda e di Corso Vittorio dedicati al “passìo” si poteva senz’altro fare meglio. Durante l’ultima edizione de “La via dei librai” i commercianti storici del Cassaro Alto hanno lanciato un allarme, inascoltato. Va bene la pedonalizzazione, dicevano durante un incontro svoltosi sul piano della cattedrale, ma non lasciateci soli perché così affoghiamo. Cinque anni non sono stati pochi. E non sono neppure un soffio i primi cento giorni, che volgono al termine, della nuova legislatura. Cioè il periodo che generalmente serve a dare l’identikit agli anni a venire. Invece, almeno per quanto riguarda l’argomento che ci intrattiene, ma anche su altro, non ci pare di avere ascoltato cose indimenticabili. Ma il tempo c’è, dunque armiamoci di pazienza. Sperando che davvero si vada speditamente a migliorare, il lavoro da fare è tanto, ciò che già si è messo in campo tra i due spezzoni delle vie citate. Provando anche ad allargare il perimetro, come auspicato in queste pagine dall’ex assessore alla mobilità, la cui mancata riconferma non abbiamo capito, Giusto Catania. Estensione già nei piani dell’amministrazione. Ossia l’interessamento del cosiddetto Cassaro Basso e della parte di Via Maqueda dai Quattro Canti alla stazione. Ovviamente, bisogna non limitarsi a chiudere, gesto lodevole ma come vediamo largamente insufficiente, ma occorre valorizzare in tanti modi ciò che si vieta alle auto. Affinché tali provvedimenti non siano medaglie che le singole amministrazioni mettono al petto, ma volani di bellezza e sviluppo per tutta la città. E, visto che ci siamo, proviamo ad allargarci un attimo. Perché non mettere in cantiere anche le chiusure di Via Ruggero Settimo e della parte di Via Roma interessata dalla ZTL? Restiamo in attesa. Non sonnecchiosa, ma vigile.

mercoledì 16 agosto 2017

I siciliani e la coperta di Linus dell'autonomia.

La Repubblica Palermo 

15 agosto 2017


E SE IL PROBLEMA DELLA SICILIA FOSSERO I SICILIANI E NON L'AUTONOMIA?

FRANCESCO PALAZZO 

Quando si parla di autonomismo, l'argomento più visitato nella storia siciliana degli ultimi sette decenni, soprattutto a ridosso delle elezioni, si prendono di mira la politica partitica e il suo modo di rappresentarsi nelle istituzioni. Ho però sempre più l'impressione che la questione sia più complessa e ci coinvolga come siciliani più di quanto crediamo. Forse è arrivato il momento di interrogarci sui nostri comportamenti nella sfera pubblica (perché la politica la facciamo tutti) e privata (che informa di sé anche la vita politica). E ciò a prescindere dalla questione autonomistica. Perché, se l'autonomismo è stato intravisto come la medicina adeguata per noi, non è scritto da nessuna parte che lo statuto ordinario ci avrebbe reso diversi. Ciò è dimostrato dal fatto che non solo le regioni a statuto autonomistico, ma anche quelle a regime ordinario si muovono lungo scale economiche, culturali e sociali non legate alla specialità o alla normalità. Allora, verosimilmente, il problema non è cambiare il farmaco, lo statuto autonomistico, assumendone un altro, diventando una regione a statuto ordinario. Ma iniziare a comprendere come siamo noi, a prescindere da cosa c'è scritto nella carta d'identità istituzionale, in quanto abitanti di questo triangolo posizionato al centro del Mediterraneo. In una società tutte le componenti si condizionano a vicenda contribuendo a scrivere la storia e la cronaca. Viviamo in una democrazia e quella che banalmente si chiama politica non è appannaggio di un gruppo ristretto di sacerdoti. È minimamente pensabile che il comparto produttivo, quello professionale, le università, il terzo settore, l'associazionismo, le famiglie, i singoli e via elencando, non abbiano nulla a che fare con il mondo che li circonda? Sarebbe oltremodo ipocrita, a meno di non voler ripetere sino allo sfinimento la filastrocca della società civile migliore di quella politica, continuare ad indicare il dito e non investirsi direttamente della responsabilità dello stato in cui si trova questa terra, sia che vediamo il bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno.Guardiamoci un attimo dentro. E cerchiamo di capire se il problema è stato davvero l'autonomismo e la sua applicazione nelle stanze dei partiti e nei palazzi del potere. Se dovessimo convincerci ancora di questo, autoassolvendoci, potremmo proseguire nel ritenerci, come società civile, che comunque fa politica pure col silenzio, del tutto estranei a questa storia e andare avanti con il nostro modo di essere cittadini di questa isola senza mutare nulla di ciò che siamo. A quel punto il duecentesimo dibattito sull'autonomismo, invece che la classica risata, potrebbe seppellirci e neppure ce ne accorgeremmo. Se, invece, qualche domanda sul nostro modo d'essere dovesse inquietarci, è probabile che ancora possiamo mettere a tavola un futuro migliore per noi e per le generazioni nuove. Perché la domanda non è come sta l'autonomismo, ma come sta la Sicilia. Ed è un quesito intorno al quale solo chi non ha peccato può permettersi di scagliare la prima pietra. Per restare alla cronaca politica, in vista delle regionali i partiti stanno facendo quel che possono e sanno. Ma possibile che da tutto il resto della società siciliana nulla arrivi in termini di analisi, strategie, proposte, programmi e nomi? A volte si ha l'impressione che la coperta autonomistica, per diversi milioni di siciliani, sia un alibi per giustificare l'immobilismo dal quale non riescono a smuoversi. Una moltitudine sterminata di persone la quale, più che impegnarsi in cittadinanze attive e consapevoli, sta con la testa sotto la sabbia. Preferendo additare, ogni tanto che sonnecchiando la alza su, sai che originalità e coraggio, la "politica", senza guardarsi allo specchio.

domenica 6 agosto 2017

Viva Bologna e Santa Rosalia

La Repubblica Palermo

5 agosto 2017

LA NORMALITÀ CHE SERVIREBBE A PALERMO PER NON FAR FUGGIRE I GIOVANI

FRANCESCO PALAZZO

Da fuori guardiamo dalla giusta distanza. Una cosa del genere, riferendosi al Monte Pellegrino, luogo altro e alto da dove guardare la città con lucidità, l'ha detta don Lorefice nel giorno del ricordo di Rosalia. Essendo a Bologna nel periodo del Festino, ho capito che i bolognesi non saprebbero organizzarlo come noi. I festeggiamenti di ottobre per San Petronio saranno sobri. È il santo della ricostruzione della città nella ferialità, volendo anche quella che è la prima università italiana, sia storicamente che nelle classifiche attuali. Rosalia è la liberazione dalla peste, fatto eccezionale che non crea comunità, evita solo il peggio. Cos'è normalità? Un elenco noioso. Nel capoluogo emiliano i bus, ovunque, sono puntuali e frequenti. Online o in un bell'ufficio si può acquistare una card turistica per visitare musei, la città con un bus oppure con una guida, usufruire di sconti e tanto altro. La raccolta differenziata è al 45,7 per cento. Ottimamente conservato è l'esteso centro storico. Vedi bici dappertutto con un clima non esaltante. La movida non reca disturbo. Altrove si vivono risultati cento volte maggiori nella normalità. Noi ci autoincensiamo per qualche incerto passo in avanti che avremmo dovuto compiere da decenni. Abbiamo visitato i 26 ettari dei Giardini Margherita, quasi cinque volte il Giardino Inglese, un piccolo parco della Favorita. Del quale non sappiamo che farcene. Si nominerà il sovrintendente? A Bologna, con una media nazionale del 38 per cento, la perdita di acqua immessa nella rete è del 31 per cento, e sono polemiche, a Palermo se ne perde più del 50 per cento. Bologna è davvero un polo attrattivo per i giovani. Eravamo lì per favorire l'inserimento di due ragazzi che vanno via da Palermo per la specializzazione post-triennio, intenzionati a restare dove sarà più facile trovare lavoro. Noi, capitale 2017 dei giovani, ne perdiamo a fiumi, sottrazione di futuro e nuova peste secondo l'arcivescovo Corrado nel messaggio alla città del 15 luglio. L'altro giorno ero all'università di Palermo per una laurea triennale in Ingegneria. Si discutevano diciotto tesi. Guardavo i ragazzi, la loro freschezza intellettuale, le enormi potenzialità. Il loro domani sarà un aereo. Scappano, con iPad e comode valigie dove mettere tutto il presente incerto e portarlo dove esso può agganciare l'occupazione e il merito. Depositano altrove le risorse economiche che ci sono volute per formarli. Non sono scelte fatte in libertà. Basta leggere un frammento della lettera che la trentenne endocrinologa palermitana Valentina Bullara ha scritto a Palermo il 24 luglio. «Non sarei mai voluta andare via e, anche se mi dici che le mie sono solo parole retoriche e che le mie lacrime sono solo di circostanza, è proprio così. Non avrei voluto lasciarti, mai». Verranno qualche mese in estate. Il mare, il sole, la passeggiata in qualche portentosa isola pedonale. Mentre fai queste considerazioni, in lontananza, quasi come un rumore di fondo, realizzi che tra poche settimane si voterà per le regionali. Ma non dobbiamo preoccuparci più di tanto. Quelle diciotto giovani leve, e tantissimi altri ventenni, neppure voteranno il 5 novembre. Saranno già impegnati a studiare nelle aule universitarie sparse oltre lo Stretto. Per non tornare più dopo. Nel dossier preliminare al rapporto 2017, presentato il 28 luglio, la Svimez afferma che la Sicilia, dal 2016 al 2065, perderà più di un milione di abitanti. Viva dunque Palermo e Santa Rosalia, ma dovremmo confrontarci con città dove la monotona normalità è l'eccellenza. Il metro di paragone non può essere il nostro ombelico. Se volgi altrove lo sguardo, ad esempio, ti rendi conto che la programmazione estiva a Palermo non c'è più. Te lo ricordi quando vedi la Piazza Grande di Dalla trasformata in un cinema gratuito. Dovremmo smetterla di sentirci speciali e iniziare a essere noiosamente normali, commisurandoci con realtà più avanti di noi. Preferendo, come ha detto su queste pagine Roberto Alajmo a commento del Festino, la programmazione che dona frutti duraturi e silenziosi ai colpi di genio episodici e alla spirtizza, che ci fanno soltanto rimirare nello specchio delle nostre vanità.