La Repubblica Palermo – 19 gennaio 2020
Perché temere l’impresa privata se può
aiutare l’Isola a crescere?
Francesco Palazzo
Un grande spettro si aggira per
Palermo, il ricorso al privato. Ogni volta che si parla di qualcosa da
realizzare o da assegnare attraverso la concessione di un servizio o la
cessione di uno spazio pubblico, si agita sotto i nostri occhi questa
ancestrale paura. Del resto comprensibile in un posto dove la mano pubblica
deve entrare su tutto. Con le storture e i problemi finanziari che questo modo
di reagire alla modernità ha creato nel tessuto politico, sociale ed economico.
Ciò non ha fortificato nessuno, rendendo debole la sfera pubblica e pressoché
assente quella privata. Lo sanno molto bene i nostri giovani neo-specializzati
in altri atenei dopo il triennio fatto a Palermo, che vanno via dopo il periodo
delle feste. Vacanze trascorse in una città che li ha visti nascere e nella
quale ormai, te lo dicono chiaramente, non riuscirebbero più a vivere a causa,
innanzitutto, di un sistema quotidiano di vita abbastanza lontano da quello
delle fredde, ma funzionanti, città del Nord dove hanno piantato tende e futuro.
Perché poi le cose, a proposito di privato che non riesce a emergere oltre che
per propri limiti anche per le difficoltà che trova a esprimersi, le toccano
con mano. Alcuni curriculum presentati in maniera spontanea, visto che spesso
le posizioni aperte non vengono inserite, e nessuna risposta. Mentre in
Emilia-Romagna, in Lombardia, nel Nord in generale, vedono tutto chiaro online
e poi ricevono conferme con immediati inserimenti nel mondo del lavoro,
addirittura potendo scegliere. Da noi, per affrontare la questione, c’è sempre
la richiesta di favorire il trapianto di grandi realtà imprenditoriali, che
dovrebbero essere favorite attraverso varie misure, per generare lavoro. Può
funzionare? Qualche esperienza passata ci dice che sono più i problemi che a lungo
andare si hanno, anche ambientali e come snaturamento delle vocazioni
territoriali, che i benefici. Pure sul piano occupazionale (un esempio è
Termini Imerese). Un privato endogeno, certamente con collegamenti nazionali e
internazionali, che traesse dalla Sicilia la sua ragion d’essere, potrebbe
essere la chiave. Purché la smettiamo di considerarlo un nemico da combattere.
Magari non fissandoci soltanto sul comparto turistico. Che va utilizzato al
massimo, senza però veicolare la leggenda che una città metropolitana di un
milione e duecentomila abitanti e una regione di cinque milioni di residenti
possano vivere soltanto di questo. Anche se la costruzione di una grande
infrastruttura come il ponte sullo Stretto, che non sarebbe soltanto il
collegamento tra due rive, significherebbe mettere le basi per l’alta velocità
pure in Sicilia, portandosi dietro per induzione tutte le infrastrutture
interne che mancano o che sono carenti, con formidabili ricadute sul comparto
turistico. Ma non soltanto. Ci sarebbe una generale iniezione di fiducia sia
per il privato che opera in Sicilia, sia per chi ci guarda da oltre Stretto. Su
tutto va allontanata, altrimenti davvero sarà impossibile dirigerci verso mete
diverse se non quelle asfittiche che ben conosciamo, la predisposizione al
vittimismo, al sicilianismo piagnone, a quello che ci hanno tolto, retrodatando
in alcuni casi il datario al periodo dell’Unità d’Italia. Un piatto ormai rotto, ammesso che sia mai
stato sano, dove non può più mangiare nessuno.