venerdì 27 giugno 2014

Francesco,Wojtyla e la scomunica ai mafiosi. E il verbo non si è fatto ancora carne.

La Repubblica Palermo

26 giugno 2014 - Pag. I

Scomunica ai boss. Se l'anatema diventasse norma.

Francesco Palazzo

Se volessimo stare ai fatti, potremmo affermare che i comunisti ieri (ma pare che la scomunica del 1949 non sia mai stata ritirata) e i divorziati/risposati oggi, in buona compagnia dei contestatori dell'attuale Chiesa (come ricordava Vito Mancuso lunedì su Repubblica parlando della scomunica alla leader del movimento "Noi siamo chiesa"), siano più pericolosi dei mafiosi. Questi ultimi, infatti, non sono mai stati raggiunti da un formale divieto sui sacramenti. Siccome vogliamo procedere con prudenza, di fronte a un papato nei confronti del quale non si può che essere ben disposti, dobbiamo svolgere ragionamenti diversi. Parliamo della condanna che Francesco ha rivolto agli 'ndranghetisti e a tutti i componenti della criminalità organizzata. La quale ha generato la stessa reazione che si è avuta verso il grido agrigentino lanciato nel maggio del 1993 da Giovanni Paolo II nella Valle dei templi, di fronte al Tempio della Concordia, dove adesso sorge in ricordo di quell'evento una grande croce. Come si fa a definire prime volte, punti di non ritorno, due eventi simili accaduti a meno di venticinque anni l'uno dall'altro? Dobbiamo forse pensare che, dal maggio del 1993 al giugno del 2014, poco è stato fatto di concreto da parte della Chiesa contro le mafie, tanto da avere bisogno di un'altra prima volta, di un altro vescovo di Roma proveniente dalla fine del mondo, che ripeta i gesti e le frasi del Papa polacco? E, in effetti, guardando le cose per come sono, compito cui non dobbiamo mai sottrarci, pena la propaganda e la mistificazione che possono sfociare anche nel culto della singola persona e nella deresponsabilizzazione dell'intera comunità cattolica, non possiamo che prendere atto che, dalla Valle dei templi a oggi, a parte singole e sparute scelte individuali di alcuni prelati, la Chiesa non ha varato alcun provvedimento normativo. Che neghi, ad esempio, la comunione, il padrinato, la cresima, il matrimonio o le esequie a chi si è macchiato di reati di mafia o ai colletti bianchi che sono stati condannati per aver favorito in qualche modo le cosche. Non solo non si è agito su aspetti così importanti, ma addirittura non si è proceduto su ambiti meno dirompenti. Come il non consentire a pregiudicati di far parte di congregazioni religiose. Ora, per evitare di doverci trovare, tra dieci o trent'anni, a definire nuovamente «storico» o a marchiare ancora come prima volta l'intervento, a parole, di un Papa contro le mafie, ci auguriamo che stavolta, parafrasando il prologo del Vangelo di Giovanni, si passi dal verbo alla carne. Lo diciamo anche perché, già all'indomani del monito calabrese di Francesco, sulla cui autenticità e importanza nessuno vuole disquisire, qualche alto prelato ha sottolineato due passaggi che lo renderebbero meno storico. Il primo è che delle applicazioni pratiche di questa scomunica orale dovrebbero occuparsi i singoli preti, non avendo dunque le spalle coperte dall'istituzione che rappresentano. Il secondo è che il monito del Pontefice ha caratteristiche essenzialmente teologiche. Se fosse così, sintetizzando, potremmo senz'altro dire che si tratta di acqua fresca, ancorché benedetta. Per evitare tale doppio epilogo della vicenda, non sarebbe male che le Chiese del Mezzogiorno, a partire da quella siciliana, che più vivono la presenza delle cosche mafiose e più dovrebbero sentire la necessità di andare oltre il verbo che non si fa carne, si facessero carico di un'azione chiara e diretta. Chiedendo con forza, questa volta, visto che non l'hanno fatto con Giovanni Paolo II, cosa deve significare in concreto, ossia con disposizioni aventi carattere di norme inserite nel diritto canonico, che i mafiosi e coloro che li appoggiano nel mondo politico ed economico sono posti fuori dalla comunione con la Chiesa.

lunedì 23 giugno 2014

Giovanni Falcone, sereno e amato negli anni trapanesi.

La Repubblica Palermo

22 Giugno 2014 - Pag. XII

Il Falcone mai visto di Trapani circoli, cene e feste di Carnevale

FRANCESCO PALAZZO


Le foto poste alla fine del libro di Salvatore Mugno Quando Falcone incontrò la mafia (Di Girolamo Editore), ci rimandano un Falcone trapanese (1967/1978) poco noto. Rotariano, aderente ai Lions, impegnato sul referendum a favore del divorzio. «Sereno e amato, non perché Falcone, ma perché Giovanni: un asso nel lavoro ma anche semplice compagno di battute e goliardia». Parole dalla prefazione di Dino Petralia. Giovanni e Rita hanno molte conoscenze. Cene e balli. Ama San Vito, dove prende casa. Difficile immaginarlo vestito, per carnevale, da Tarzan, infermiere, matricola con un grosso lecca lecca. Fa parte del Nuovo Circolo, frequenta il "Light Ball", discoteca in voga. In un procedimento è a Roma per sentire Almirante. Nel 1976 è sequestrato nel carcere di Favignana con un coltello alla gola. Davanti a una Porsche sequestrata prova il piacere di mettersi al volante sino al garage dove deve essere custodita.

domenica 22 giugno 2014

PD siciliano: chiudo la sede e tengo aperte le correnti.

La Repubblica Palermo

21 giugno 2014 - Pag. I

La chiusura della sede come metafora del PD

FRANCESCO PALAZZO

La chiusur della sede regionale del PD è la logica conclusione per una formazione politica che in Sicilia, pur bagnata da un forte consenso elettorale alle europee, non rappresenta da tempo una comunità coesa e riconosciuta di donne e di uomini riuniti attorno ad un'idea e ad un impegno. Ma un agglomerato di leader, più o meno dotati di forza elettorale, con al seguito dei seguaci che seguono le orme dei capi corrente, ne sposano le convinzioni e stanno sulla scia mutevole delle cangianti alleanze che si compongono e si frantumano, raramente o quasi mai per ragioni ideali, continuamente dentro il partito. Se il quadro è più o meno questo, in effetti non c'è motivo di tenere aperta anche fisicamente una sede regionale. Una famiglia che non è più tale, non ha affatto bisogno di un tetto comune sopra la testa. Infatti, dentro il PD, ci si duole, giustamente, per le sorti dei lavoratori che vanno in cassa integrazione, ma nessuno si è dispiaciuto per la chiusura della saracinesca politica. Quasi fosse alla stregua di uno dei tanti esercizi commerciali che giornalmente a Palermo abbassano le loro saracinesche. E questo perché tutti sanno, e sappiamo, che non viene a mancare nulla d'importante. Bastano a disegnare le pratiche politiche dei democratici siculi le varie segreterie dei tanti eletti o eleggibili nelle varie assemblee rappresentative. Le leve del comando e i rapporti di forza stanno altrove, le assemblee plenarie servono soltanto a ratificare quanto deciso in altre stanze. Bisogna prendere atto che al partito degli iscritti, il quale una volta tanto deve farsi bastare e avanzare un gazebo, si è sostituito il partito dei ras del consenso. Basta dirlo una volta per tutte e non pensarci più. Una volta c'erano le sezioni, situate pure nei paesini più sperduti, e le sedi centrali del partito, dove cresceva e si temprava classe dirigente. Magari ammorbata di ideologie, ma certamente con davanti a sé il senso di una missione che non corrispondeva con l'orticello angusto della corrente di riferimento o con quello ancora più claustrofobico del leader di riferimento. Adesso la misura del ricambio sarà, è, la fedeltà non ad un percorso collettivo, ma alla singola persona. Non ci giungono notizie di chiusure simili dalle altre regioni, una specie di record di cui avremmo fatto volentieri a meno. Soprattutto in una Sicilia che avrebbe bisogno di un forte e unito Pd per fare qualche passo in avanti. Dalla sede di Via Bentivegna fanno sapere che ci sarà qualcuno che risponderà al telefono (ma per dire cosa? Mica è un call center) e che comunque la struttura rimane disponibile per le riunioni dei politici. E quest'ultima chiosa è la conferma che un partito può essere concepito come una sommatoria di individualismi che si riuniscono, pezzo per pezzo, per discutere delle loro cose. In futuro può essere che si ritrovino i fondi per ristabilire un minimo di funzionalità alla sede regionale. Ma anche se si dovessero trovare gli importi necessari, questi non potranno certo comprare la presenza di una politica partitica condivisa negli aspetti essenziali, la cui assenza ha portato alla cancellazione di una storia senza che qualcuno abbia alzato un solo sopracciglio. Una volta, più di trent'anni addietro, un assessore del comune di Palermo, a me giovane attivista politico di quartiere, disse che avevo qualche buona idea ma che non sarei mai andato avanti se non mi legavo a qualche corrente politica. Gli dissi che non ne avevo bisogno e che una nuova politica avrebbe polverizzato le sue errate e medievali convinzioni. Aveva ragione lui.

domenica 15 giugno 2014

Mondello e Favorita: appuntamento all'anno prossimo.

La Repubblica Palermo

14 giugno 2014 - Pag. XII

MONDELLO, CABINE E FAVORITA, LA “TRINITÀ” DELL’EMERGENZA

Francesco Palazzo

Mondello, cabine, Favorita. Un trinomio che sta tenendo banco in questo inizio estate. Ed è come se scoprissimo questa trinità laica all’ultimo momento. E, invece, ci confrontiamo ogni anno con tali “emergenze”. Che è il modo rassicurante, tutto siculo, di chiamare ciò che non si vuole, o non si sa, risolvere per decenni. Ora sentiamo che questi mesi saranno una preparazione per la prossima bella stagione. Quando avremo Mondello pedonalizzata e ciclabile, ma si diceva la stessa cosa lo scorso anno, niente cabine, e non ricordiamo più da quanto se ne parla, e il Parco della Favorita completamente chiuso, ed anche questo è un romanzo che ormai conta parecchi capitoli. Non sarebbe scommessa temeraria ipotizzare che, più o meno tra dodici mesi, ci ritroveremo a discutere di tali argomenti rimandando, ovviamente, al divenire la loro radicale e definitiva soluzione. Perché è proprio questa la nostra dimensione, il non mettere mai un punto definitivo su nulla. Ed anche quando gli attuali governanti palermitani, alcuni dei quali per inciso hanno già amministrato in passato non modificando di una virgola ciò che ora intendono rivoluzionare, dovessero in qualche modo trovare delle soluzioni non dell’ultimo momento, e perciò condivise e ragionevoli, state pur certi che una prossima giunta cambierebbe nuovamente le regole del gioco. Questo è il baratro che ci divide dalle città che funzionano. Nella quali, ogni passo avanti che si fa, diventa patrimonio di tutti e non si mette più in discussione.

domenica 1 giugno 2014

I disagi che fanno rumore e quelli che non si vedono.

La Repubblica Palermo
31 maggio 2014 - Pag. I

I SENZA TETTO NÉ LEGGE E I POVERI SILENZIOSI

Francesco Palazzo

Le occupazioni dei senzatetto si prestano a qualche lettura. In primo luogo si registrano contrasti tra gli occupanti, in qualche caso un gruppo avrebbe deciso arrivi e partenze. Inoltre, gli stessi sostenitori degli occupanti temono infiltrazioni mafiose. Un altro problema è relativo al fatto che alcuni beni storici e artistici presenti nei siti oggetto di occupazione, ancorché abbandonati, corrono ulteriori pericoli, vedi la vicenda dell'Istituto Sacro Cuore, dove sarebbe stato portato via di tutto. Ovviamente, non si può generalizzare, tante famiglie vogliono soltanto un tetto sopra la testa. Ma, prevaricazioni tra gli occupanti, possibile utilizzo del disagio abitativo da parte delle cosche, alta probabilità di mettere in pericolo l'integrità dell'esistente, sono caratteristiche di cui abbiamo preso atto e vediamo in altri luoghi di Palermo. Spostandoci su un altro versante della questione, occorre segnalare che la pratica delle occupazioni ha inaugurato a Palermo una variante inquietante. Si prendono di mira direttamente, magari già usufruendo di alloggi popolari, non beni pubblici o appartenenti a enti vari, ma le stesse proprietà private di singoli, procedendo direttamente alle ristrutturazioni. Al fondo di molte di queste azioni, si sostiene legittimamente con l'intento di giustificarle, sta la crisi con l'impoverimento di tante famiglie, le quali non possono più sostenere gli affitti. Dovremmo riflettere, tuttavia, sul perché anziché pochi nuclei familiari, non si mobilitino tutti quelli che sono investiti dalla penuria di liquidità. Al contrario, la stragrande maggioranza della famiglie a rischio povertà campano con modestissimi redditi, riuscendo pure a mandare i figli all'università con mille sacrifici. Poiché non si fanno sentire, non fanno notizia, rimanendo invisibili. Giusto affermare che le istituzioni devono fare la loro parte nei confronti di chi non ha un giaciglio. Ma nel frattempo si fa tutto il possibile per cominciare a uscire con le proprie risorse dall'indigenza o si attende che il manto assistenzialista si faccia carico di tutto? Ciò va detto perché in questa terra, è sotto gli occhi di tutti, c'è una fascia di precariato senza titoli di studio che pretende e ottiene, andando in piazza e trovando orecchie politiche più che "attente". È una minoranza, ma sa farsi sentire. Poi c'è una moltitudine di giovani silenziosi con titoli di studio che non prendono un euro da nessuno, pur presentando curriculum di peso a destra e a manca. Sono costretti ad andarsene o a sbarcare il lunario con poco, senza mai bloccare un solo viottolo di campagna. È bene allora, senza rivolgere lo sguardo soltanto a coloro che possono diventare un problema di ordine pubblico o cospicui bacini elettorali finanziati dalle casse pubbliche, che si abbia uno sguardo a 360 gradi sul disagio. Che è reale e al quale la politica deve fornire le risposte che può dare. Senza che tuttavia si pretendano miracoli da essa e ci si impegni ad aiutarsi con una seppur minima entrata finanziaria. Per tornare alle occupazioni, nel chiedere disponibilità di immobili alla curia e ai vari enti religiosi, si cita l'invito di papa Francesco a condividere con gli ultimi i beni inutilizzati dalla chiesa. Non sarebbe male, adottando lo stesso criterio, se pure qualche frammento di gerarchia laica, che può permetterselo, cominciasse a donare qualche metro quadro per i fratelli e le sorelle che stanno messi male. Così, per dare il buon esempio e per vedere l'effetto che fa.

giovedì 29 maggio 2014

Cosa ne faranno i democratici siciliani del miracolo di San Matteo?


Repubblica Palermo
28 5 2014 - Pag. I

Matteo il taumaturgo copre le “magagne” dei dem siciliani

Francesco Palazzo

Nel Pd siciliano ricominciano da dove avevano lasciato alla vigilia delle elezioni, cioè litigando e dandosele di santa ragione. Ed è la dimostrazione più evidente che il merito di essere diventato il più votato partito in Sicilia è tutto di Matteo Renzi. Perché giammai una formazione politica così rissosa avrebbe potuto, con le sue sole forze, raggiungere un risultato simile. Quello che è accaduto dentro le file dei democratici in questa campagna elettorale per le Europee era un viatico certo per una sconfitta. L'ennesima. Evitata perché il presidente del Consiglio si è caricato tutti sul groppone e li ha posati in una dimensione percentuale che non li rappresenta affatto. Il tema dell'antimafia e la spinta ad appoggiare questo o quel candidato, per mettere la propria bandiera su diversi frammenti del consenso, sono stati la carta d'identità del Pd siculo nelle settimane passate. E non si fermano. Dopo il responso delle urne si è ripreso il tema dell'antimafia e si è rivendicato questo o quel risultato positivo, questo o quel fallimento elettorale, per continuare il gioco. Ma a chi serve tutto ciò? Certamente non al popolo siciliano. Che con il suo voto si è dimostrato più avanti di tutta la classe dirigente democratica siciliana. E ha indicato, come del resto ha fatto nella parte restante del Paese, una chiara direzione di marcia. Che, al momento, è abbastanza chiaro, chi dirige questo partito in Sicilia, chi lo rappresenta nelle istituzioni, non è in grado di cogliere. Eppure, almeno questa volta, non si può rimproverare al corpo elettorale siciliano, almeno a quella esigua parte che ha espresso voti validi, di andare da un'altra parte, di non aver visto e capito. È accaduto tante volte, ma questa volta è andata diversamente. Nel giorno delle elezioni mi è capitato di incontrare diverse persone che solitamente votano a destra, altre che di consueto scelgono l'estrema sinistra e altri ancora che non andavano da tempo alle urne rivelare di aver messo un segno sul simbolo del Pd senza indicare preferenze, quindi sorvolando sulle tribù e sulle fazioni in cui è attualmente diviso il partito siciliano e senza che si fossero accorti di questa querelle stucchevole e incomprensibile a un'intelligenza media sull'antimafia. I democratici hanno a disposizione oggi, ma non è detto che sarà così anche domani o dopodomani, un grande pezzo di Sicilia che ha dato una generosa quanto immeritata, per le ragioni esposte, apertura di credito. E anche fra i tanti che non si sono recati alle urne si può mutarne in positivo lo scontento, portandoli a credere che qualcosa è ancora possibile sperare. Anche in Sicilia. Solo il Partito democratico, l'unico vero partito rimasto in Italia, al momento può, se smetterà di guardarsi l'ombelico e di scannarsi dentro le segrete stanze e poi in piazza, indicare ai siciliani un percorso di modernità, non passiva — quella la conosciamo già sin troppo bene, come scrive Emanuele Felice nel suo libro "Perché il Sud è rimasto indietro" (Il Mulino) — ma attiva, partecipe, condivisa. Fatta di governo concreto e accorto della cosa pubblica e di politica che si sviluppa nel territorio. Non è difficile. Si chiama politica. O, meglio, si potrebbe rivelare oltremodo arduo, se si continuerà a mostrare un partito che cannibalizza se stesso e non riesce neppure a sfruttare, perché questa è l'impressione che abbiamo al momento, un consenso che lo ha baciato pur avendo fatto di tutto per non coglierlo. Non durerà molto, nella nostra terra, questa luna di miele. Riuscirà il Pd oggi, perché domani potrebbe essere tardi, a mostrare ai siciliani il volto di una comunità coesa, attenta, preparata e responsabile? Possiamo augurarcelo. E non per mere questioni elettoralistiche. Che il Pd prenda il 35 o il 50 per cento in Sicilia, non servirà a nulla se non sarà capace di portare questa regione e i suoi abitanti verso un miglioramento delle loro condizioni sociali ed economiche. Che, allo stato, rimangono pessime e non miglioreranno certo perché il Partito democratico è primo in Sicilia. Questa è ormai storia di ieri. 

mercoledì 14 maggio 2014

Palermo-Catania: il pallone e altre storie.

La Repubblica Palermo
Pag. XV - 14 maggio 2014
L'altro derby per lo sviluppo
Francesco Palazzo

Durante i festeggiamenti per la promozione del Palermo, il coro “chi non salta è catanese”, si è sprecato. Così come le battute sulla precarietà della classifica, calcistica, degli etnei. Ma il calcio è una ruota che gira e può riservare, ad ogni curva, sconfitte o vittorie. Questa regola vale meno se guardiamo agli assetti che la politica, l'economia e la società riescono a dare alle città. In tale contesto contano aspetti meno effimeri di un pallone che rotola in rete. Qui temiamo che la classifica si capovolga. Se vi recate nel capoluogo catanese troverete una pulizia delle strade e dei marciapiedi notevole. Anche le erbacce sono oggetto di una certa attenzione. Non si vedono sacchetti d'immondizia. Per quanto a Palermo la situazione della raccolta dei rifiuti sia migliorata, cartacce, bottiglie, buste di plastica, pacchi di sigarette e mozziconi, per limitarci ad un elenco sobrio, si fanno notare ovunque. Non parliamo della situazione dell'asfalto. Buche e sconnessioni ci accompagnano ad ogni passo. All'ombra del vulcano, confrontando le zone centrali delle due città, abbiamo strade lisce e marciapiedi integri e larghi. Se poi paragoniamo le chiusure dei centri storici, a Catania la grande piazza dove sorge la cattedrale da la sensazione di un'area pedonale tranquilla e condivisa. Non ci sono piante o dissuasori. A Palermo, gli spazi secondari tolti alle auto, Piazze San Domenico e Bologni, devi difenderli manu militari e comunque è davvero poca roba. Ben altra cosa sarebbe chiudere tutta Piazza Politeama, la zona adiacente la cattedrale o quella circostante il Teatro Massimo. Se ci riferiamo ad un'importante infrastruttura quale l'aeroporto, registrando che Fontanarossa è stato promosso scalo strategico, come Punta Raisi, possiamo notare la sua agibilità e la confusione che persiste al Falcone-Borsellino. Con lavori che non ricordiamo più quando sono iniziati e non sappiamo quando finiranno. Altra questione è il mare. Mentre a Palermo si svolge il dramma scespiriano intorno al dilemma cabine si o no a Mondello, ma in realtà si continua a non utilizzare il mare che costeggia la parte centrale della città, a Catania il mare che vedi non appena entrato in centro è tutto balneabile. Intorno ad esso tanti stabilimenti balneari, con indotto di alberghi, ristoranti, bar e pizzerie. Non va peggio nel circondario catanese, Acireale, Acitrezza e le frazioni di Catania. L'utilizzo e il rispetto delle bellezze naturali e la pulizia risultano sempre ben visibili. Se guardiamo a destra e a sinistra della città di Palermo, non è difficile, soprattutto nei primi paesi verso Trapani scorgere immondizia e coste martoriate. Ma anche verso Messina, a parte eccezioni, bisogna arrivare a Cefalù per trovare un'economia basata sulle bellezze storiche, artistiche e naturali. A proposito, inoltre, di un altro dubbio esistenziale palermitano, l'infinita storia dei gazebo, dando un veloce sguardo alle vie centrali di Catania ci è parso di non vederne. Sicuramente, per le strade catanesi, non c'è la teoria di saracinesche chiuse che si registra a Palermo. Segno di un'economia fatta di piccoli negozi che ancora regge pur sotto i colpi della crisi. E pensare che soprattutto nel catanese, visto che la morte dei piccoli esercizi si attribuisce ai mega centri commerciali, sono presenti i colossi della grande distribuzione. Resistono anche i marchi che hanno fatto la storia culturale della città, come le librerie Cavallotto. A Palermo sappiamo cosa accade alle insegne storiche. Forse che a Catania politica, economia e società civile sono avanti rispetto a Palermo? Probabilmente per questo, nel distretto catanese si produce l'80% del PIL isolano. Una volta un detto catanese recitava: Si Catania avissi portu, Palermu saria mortu. Ma oggi il porto catanese ha superato per traffico quello palermitano. Per riprendere e rovesciare lo slogan dei rosanero, non sarebbe male se riuscissimo a saltare insieme ai cugini catanesi.  

venerdì 2 maggio 2014

La mafia non sta bene, ma l'antimafia manco babbia.

La Repubblica Palermo
1 Maggio 2014 - Pag. I

LA MAFIA È ANCORA FORTE, SPIEGATELO ALL'ANTIMAFIA

Francesco Palazzo


La mafia magari non ha vinto, ma l'antimafia mica sta tanto bene. E' uno slogan che, come tutte le sintesi estreme, dice un pezzo di verità che non si discosta molto dalla situazione che viviamo. Che la mafia non abbia vinto può essere vero se guardiamo l'aspetto militaresco.  QUELLO che fa scorrere il sangue, anche se in realtà gli omicidi continuano, da Brancaccio alla Zisa. Ma basta spostarsi nei settori economico e politico della secolare storia di Cosa nostra per correggere il tiro. Per quanto riguarda il frangente finanziario, possiamo registrare sequestri e confische e prendere atto che si utilizza male, e in minima parte, quanto viene sottratto ai mafiosi. Resta un fiume di denaro che ormai ha preso le sembianze dell'economia legale. Sul versante politico non ci pare che Cosa nostra abbia mostrato la corda. Il consenso elettorale dei candidati alle varie elezioni e gli appalti pubblici interessano molto le cosche, ricambiate probabilmente in maniera meno appariscente dai singoli politici e dalla burocrazia. Se questo quadro è verosimile possiamo dire che la mafia, pur non vincente su tutti i fronti, sinora pareggia e forse non è mai scesa in campo per far suo tutto il bottino. Non gli conviene e non avrebbe la forza per farlo. Utilizza le proprie energie per curare gli affari e continuare ad occupare il territorio. Perché, questo, se qualcuno si fosse distratto, continua ad avvenire come prima e più di prima. Cosa nostra ha bisogno dello Stato, della politica, dell'economia legale per infilarvisi dentro e contagiarli. Non se ne farebbe nulla di una vittoria, vuole tutt'attorno semmai un mondo che ha la parvenza della legalità per viverci dentro. E l'antimafia, ha vinto o perso? E' posizionata nell'associazionismo, in centri e fondazioni, in magistratura, nel mondo degli intellettuali, tra gli studiosi, nei partiti, nelle istituzioni, nelle università e via elencando. Un universo in cui c'è gente valorosa e capace. Tuttavia, complessivamente, ognuno di questi frammenti recita il proprio vangelo, fatto anche di dogmi e anatemi. E' un mondo protagonista di un dibattito che ci investe a ondate periodiche e che, supponiamo, ha come finalità inconfessata la scissione dell'atomo antimafioso. Sport che poco interessa sia quella parte della popolazione siciliana (una netta ma consistente minoranza) che ha sviluppato negli ultimi decenni una direzione di marcia contro le cosche senza perdersi nel proprio labirinto mentale, sia quelli che (ancora una sensibile maggioranza) donano ancora il loro consenso a Cosa nostra. Forse sarebbe il caso che quanti cercano la pietra filosofale dell'antimafia si recassero per un periodo, come si faceva con la leva obbligatoria, nei quartieri popolari delle città siciliane e misurassero lì le loro ipotesi di scuola. Immergendo nella dura realtà le infinite paturnie che ci regalano a regolari ondate e le profonde lesioni di un piccolo pezzo di movimento antimafia che sembra rappresentare il tutto e ha invece l'ampiezza di qualche metro quadro. Sicuramente, in quei luoghi, lontani dagli ambienti rarefatti dell'intellighenzia, dove il bianco e il nero son ben visibili e non c'è bisogno di convegni per individuarli, troverebbero molto da fare e da lavorare, ripartendo dall'abc della legalità, e poco da polemizzare. Allora l'antimafia ha perso? No, è l'altra formazione che pareggia, che non fa mai squadra e tesoro, in maniera unitaria e coesa, dei passi in avanti compiuti. E si perde in infinite discussioni e lacerazioni dentro quello che sembra un oceano, ma è soltanto una piccola tinozza dove ciascuno vuole innalzare il proprio pennone di leader. Perché all'ombra di un pareggio infinito tutti possono sventolare la propria antimafia demolendo quelle altrui. 

venerdì 25 aprile 2014

Palermo, costa sud, i progetti del futuro, l'incuria di oggi.

La Repubblica Palermo 24 Aprile 2014

Pag. I 

Risanamento della costa sud, quel che i progetti non dicono

FRANCESCO PALAZZO

I messaggi positivi in politica hanno una rilevanza notevole. «Yes, we can» (sì, noi possiamo), pronunciato da Obama, ha infiammato gli Stati Uniti. Frasi come questa, ancorché si riferiscano a cose da realizzare, disegnano scenari che indicano una direzione di marcia.  QUINDI, che la costa sud di Palermo diventerà come Mondello, in seguito agli interventi programmati dal Comune, è uno slogan ben fatto che ti fa balzare contento dalla sedia. Quasi cerchi il costume a inizio primavera perché pare che siamo lì per lì per andare a rituffarci in quelle acque, da Sant'Erasmo ad Acqua dei Corsari, che un tempo furono limpide e cristalline. Altro che Mondello. Le ultime generazioni non ne hanno visto niente. Poi leggi più attentamente e ti rendi conto che il costume è meglio cercarlo con calma. Perché si tratta del potenziamento della flotta degli autobus, della realizzazione di stazioni di ricarica di auto elettriche, dell'affitto di bici e auto, di piste ciclabili, servizi digitali e riduzione di consumi energetici. In aggiunta, interventi assistenziali su infanzia, non autosufficienza e indigenza. Ora, a parte il fatto che i tempi, e anche i fondi, sono collocati nel divenire, e ammesso, come ci auguriamo, che il tutto tocchi terra, tali interventi, seppur importanti, non sembrano in grado di incidere profondamente sul contesto socioeconomico di quelle contrade. Anche l'acquario, che a quanto sembra verrà realizzato alla Bandita, è un grande progetto con tempi di realizzazione da definire. Comunque vada, mentre si aspetta, si potrebbe cominciare ad aggiustare quello che c'è già. Iniziando dal porticciolo di Sant'Erasmo. In attesa di risolvere la questione porto turistico sì o no, si potrebbe chiudere l'area, aprire la vista e mettere comode panchine. Spostandoci di una cinquantina di metri, ci chiediamo che fine ha fatto l'intenzione di liberare le sponde del fiume Oreto, rendendole percorribili sino alla foce. Risalendo ancora, vorremmo sapere perché non è entrata in funzione la passeggiata in legno che sorge quasi di fronte al Buccheri, costata chissà quanto, finita da anni, recintata e pronta a marcire in solitudine. Proseguendo, una domanda potrebbe essere posta sul porticciolo della Bandita. Non sembra in buone condizioni, attualmente le auto possono arrivare sino in riva al mare. E che ne è, avanzando sino al limite palermitano della costa, del Teatro del Sole di Acqua dei Corsari? Un anno e mezzo fa un gruppo di ciclisti, durante una manifestazione, chiese al Comune di riappropriarsi dell'area abbandonata, dove recentemente si è consumato un omicidio. Erano stati piantati alberi e realizzate discese a mare. Pare che la situazione non sia cambiata di una virgola. Su tutto, comunque, spicca la questione mare. Sino a quando non tornerà a essere fruibile, ogni progetto sulla costa sud resterà accademico. Per la verità qualcuno dice che la qualità delle acque non è inferiore a quella di Mondello. Il 12 luglio 2011 Mario Pintagro, su queste colonne, scriveva che l'appalto per il risanamento della costa, dopo un blocco di tre anni, era pronto a ripartire. Chissà qual è adesso la situazione. Chi, oggi, è in grado di pronunciare parole chiare su tale cruciale questione? Per fugare, ad esempio, i dubbi di chi, pur registrando che il depuratore funziona a dovere, anche se ancora pare si scarichi direttamente nella foce dell'Oreto, non riesce a darsi risposte sul perché i pescatori tirino fuori pesci di grandissime dimensioni e spesso deformati. Insomma, oltre a non recuperare quanto già c'è, non si riesce a mettere un punto chiaro sulla balneabilità della costa. L'unica via per non far morire le piccole imprese che ancora resistono (e che magari si sanzionano, nel rispetto delle regole, per qualche sedia sul marciapiede, come accaduto a una gelateria che ha dovuto chiudere per alcuni giorni), per farne nascere di nuove e per non fare di quella parte di città un immenso portafogli per centri commerciali o multinazionali.

giovedì 27 marzo 2014

Consenso alle mafie: classe dirigente e popolo dei quartieri.

La Repubblica Palermo
26 marzo 2014- Pag. I
IL CONSENSO ALLA MAFIA NON E' SOLO DI NECESSITA'
Francesco Palazzo

Ogni volta che il popolo dei quartieri si mobilità, vuoi per un funerale dopo un omicidio di mafia, vuoi per difendere quanti delinquono scagliandosi contro le forze dell'ordine o semplicemente appoggiando nella vita quotidiana la cultura e le prassi mafiose, si rimane stupefatti. In realtà, il quadro che si presenta fa parte di una lunga storia e non è affatto una sorpresa. Si tratta del consenso sociale che Cosa nostra continua ad avere presso ampi strati della società siciliana. Disseminato un po' ovunque, sia nelle classi dirigenti, sia negli strati popolari. Questa constatazione dovrebbe interrogarci sulla presa che il movimento antimafia ha avuto in Sicilia. Occorrerebbe dire con onestà che solo una parte non maggioritaria, localizzabile nell'asse che parte dalla borghesia e arriva nei quartieri, ha fatto effettivi passi in avanti circa l'opposizione al potere mafioso, nelle diverse forme in cui esso continua a declinarsi. Ora, il punto è che quasi sempre si assiste a una sorta di interpretazione di classe un po' curiosa. Capita di leggere condivisibili analisi quando si punta la classe dirigente, ovviamente una sua parte, posizionata in politica o nelle professioni, come lo strato sociale che va a braccetto con le mafie, nutrendole e nutrendosi del potere economico e sociale da esse derivante. Quando si passa a esaminare l'altra parte di questo filo continuo, e ben più numeroso, ossia quella parte di classe popolare che fa esattamente la stessa cosa, seppure con diverse finalità, si ha come uno scarto nella valutazione. Mentre i primi, cioè quei membri collusi della classe dirigente, sarebbero, come effettivamente sono, dei consapevoli sostenitori delle cosche, per vari motivi - voti, soldi, appalti - il popolo minuto che appoggia le mafie lo farebbe in stato di costrizione. Perché senza lavoro, senza casa, senza soldi, con pochi diritti, a causa dello stato non molto presente e via elencando. Non è che questi aspetti siano del tutto infondati. Ma non possono essere degli alibi. Non si riflette sino in fondo su una possibile opzione complementare e non completamente alternativa. Cioè che anche nei quartieri, tra la gente non dotata di cospicui conti in banca, ma non necessariamente indigente, in quanto avente un lavoro, un ambiente familiare sano o una pensione rispettabile o tra gli stessi nullatenenti, possa esserci un appoggio deliberato, convinto, consenziente, lucido alle cosche mafiose. Perché negare che nei rioni ci possano essere teste pensanti che si cibano e alimentano le mafie scegliendo questa opzione come fa uno spaccato della classe dirigente? Allora, più che veicolare una sorta di giustificazionismo della necessità, ci si deve chiedere perché ciò succede e come fare per capire, prima, e affrontare, dopo, tale situazione. Ammesso che le cose stiano così. Perché, se invece è l'indigenza o la non ricchezza, a generare mafia in maniera innocente, allora lasciamo le cose come stanno e continuiamo ad accontentarci delle analisi consuete. Bisognerebbe però spiegarsi e spiegare perché mai, strati sociali non poveri, tutt'altro, continuino a foraggiare i poteri criminali. Se fosse vera l'equazione niente povertà, niente mafia, non dovremmo assistere al fenomeno di membri della classe dirigente, dunque per definizione forti sia culturalmente che economicamente già di loro, che si mettono al servizio della parte peggiore della società siciliana. Se ci convinciamo di questi ragionamenti, dobbiamo ammettere che Cosa nostra, nella sua lunga vita, che ancora non ci siamo messi alle spalle forse anche perché non sempre ne abbiamo letto le dinamiche in maniera corretta, abbia sempre pescato e raccolga tuttora approvazione non forzata in tutti i settori della società siciliana. E tale gradimento è tutto grave allo stesso modo. Forse, come suggeriva don Ciotti nell'intervista a Repubblica in cui commentava le parole che papa Francesco ha rivolto ai mafiosi, è necessario “rovesciare schemi vecchi e datati”. Non è semplice farlo, tuttavia può rivelarsi necessario e urgente. 









mercoledì 12 marzo 2014

Foro Italico: cuscini, birilli e altre storie.

La Repubblica Palermo
11 marzo 2014 - Pag. I
I pezzi mancanti del panorama urbano
Francesco Palazzo


I cuscini mancanti sono trentaquattro, uno in più di quanti ne avevamo contati nel 2011. In parte è una buona notizia. Significa che negli ultimi tempi la voglia distruttiva dei palermitani non ha quasi causato altri danni. Non è migliorata, invece, l'attenzione di chi sarebbe stato preposto alla sostituzione dei guanciali scomparsi. Erano cinquantasette all'inizio, di un bel blu elettrico, rivolti verso il mare insieme ai divani allegramente colorati nella passeggiata in fondo al prato del Foro Italico. Oddio, chiamarlo prato, visto le condizioni in cui versa, è arduo. Pure quello che circonda la Cala pare consumato. Ma torniamo ai cuscini. E poi parleremo dei birilli. Ok. Il parco della Favorita non può essere chiuso. Resta un interrogativo. Quando si promettono le cose nelle campagne elettorali, si verifica prima la fattibilità di ciò che si vuole fare? Per carità, la realizzazione tecnica di certi progetti è più facile a dirsi che a farsi. Ma con i cuscini sarebbe più semplice. Uno va lì, conta quelli che sono passati a peggior vita, al posto dei quali vi sono delle sgradevoli macchie di cemento, e ne ordina degli altri. Restaurando quelli rimasti e rinfrescando i colori delle panchine. Se per caso non andassero di corsa, gli addetti potrebbero pure notare che lo spazio adiacente, che una volta era bianco e celeste, è tutto crepato e scolorito. E se poi si volesse esagerare, si potrebbe pensare pure di mettere dei comodi sedili (che i divani sono, anzi erano, belli ma poco confortevoli), rivolti verso il mare. Non sia presa come superflua quest'ultima precisazione. Ma sul lungomare di Villagrazia di Carini ci sono panche in cui uno si può certo comodamente sedere, ma sono messe curiosamente al contrario, danno le spalle al mare. Sicché in estate vedo gente che prende un gelato o fa due chiacchiere guardando non il blu delle acque, ma l'asfalto e le auto che transitano. A Palermo non potrebbe mai succedere una cosa del genere. Capitano però cose come il ratto dei cuscini non rimpiazzati. Per la verità, altri pezzi erano presenti sul prato del Foro Italico, sono spariti (ricordo i totem di ceramica che avevano vinto un premio a Verona), e col tempo che trascorre ne avremo una memoria sempre più sbiadita. Ma almeno rendiamo dignitosi quelli rimasti. Altrimenti li si tolga e li si sostituisca con altro. E non è finita meglio ai birilli colorati che fanno da dissuasori lungo il perimetro del prato. La loro forma prende spunto dal profilo del busto marmoreo di Eleonora d'Aragona. All'inizio erano di colori brillanti, belli da vedere. Adesso i più di mille e cinquecento rimasti non si possono più guardare. Poi ci sono quelli che mancano. Ne abbiamo contati più di duecento. L'effetto complessivo è davvero brutto. Possibile che nessuno di quelli che dovrebbero assicurare l'integrità del luogo se ne sia accorto e abbia rimediato? Parliamo di un sito tra i più frequentati, mica di qualche angolo buio dello ZEN o di Ballarò. La “scomparsa” dei cuscini l'avevamo vanamente denunciata, da queste pagine, tre anni addietro, in vigenza della passata amministrazione, ma vediamo che nemmeno con l'attuale si è provveduto a intervenire. Ora, il punto è che possiamo anche farcene una ragione se sul sogno del Parco della Favorita chiuso al traffico dobbiamo metterci una croce. Forse dobbiamo pure farlo con la chiusura da Piazza Croci alla Stazione Centrale. Anche sul porticciolo di Sant'Erasmo risanato nutriamo a questo punto poche speranze. Si tratta di cose non viste e alle quali non ci si è potuti affezionare. Ma la passeggiata al Foro Italico l'abbiamo immagazzinata come un fermo immagine che fa parte dei momenti di svago. Almeno quella curiamola, vista che ce l'abbiamo già. Non vorremmo che, un pezzo mancante dietro l'altro, ci restasse solamente il bel panorama, quello per fortuna nessuno lo può toccare, e il liquido marino. Che possiamo solamente guardare e annusare a debita distanza. E lo facciamo con rassegnazione. Visto che nemmeno li ascoltiamo più i propositi di recupero della costa palermitana e del suo mare.

mercoledì 5 marzo 2014

Il PD e la litania della Sicilia offesa.

Repubblica Palermo
4 marzo 2014 - Pag. 1

L'inutile stupore per l'assenza del PD siciliano a Palazzo Chigi
Francesco Palazzo

La mancata nomina nel governo Renzi di esponenti democratici isolani sta causando malumori e acuendo le consuete lotte all'interno del PD. Leggendo le natalità di ministri, vice e sottosegretari, mancano del tutto all'appello cinque regioni: Val D'Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Marche e Molise. Non ci pare di aver sentito chissà quali lamentele provenienti da queste realtà. La stessa Sardegna ha un solo sottosegretario, identico trattamento per la “rossa” Umbria. Solo dalla Sicilia viene fuori la stanca recriminazione sull'isola lasciata ai margini. Peraltro, va detto che, oltre ad un ministro e due sottosegretari (benché targati centrodestra), nella squadra del segretario nazionale del PD figura, con un incarico di peso il palermitano Faraone. Prevale la convinzione che più ministri e sottosegretari hai, più premiata è la tua regione in termini di politiche da mettere in atto. Ma potrebbe risultare più convincente un altro filo logico. E cioè, che più una regione riesce a brillare di suo nel lungo periodo, più è facile che emergano biografie in grado di imporsi sullo scacchiere nazionale. Ma perché mai Renzi avrebbe dovuto premiare esponenti del PD siculo? Il solo ad aver creduto al percorso del rottamatore è stato Faraone e il suo entourage. Bastava respirare il clima dell'incontro svoltosi a Palermo, prima delle primarie, con Renzi, per capire che si cercavano posizionamenti più che una nuova e convinta prospettiva politica. Ma, a parte ciò, non si riflette sul fatto che questo partito, (PCI, PDS, DS e ora PD), da decenni non esprime una classe dirigente di livello. Tra le figure più importanti, dagli anni settanta ad oggi, si piazzano due esponenti inviati dall'esterno, Achille Occhetto e Pietro Folena. Tutto il resto è stato, tranne una biografia imponente e abbastanza isolata, perché senza veri eredi della stessa caratura, come quella di Pio La Torre, lotta tra correnti. Che ha sfornato una teoria di funzionari, ma nessuno nelle condizioni di brillare di luce propria oltre lo stretto per analisi politica e leadership. Che tutto ciò sia vero ce lo mostra la cronaca. I sindaci di centrosinistra che guidano le due città più importanti, Palermo e Catania, Orlando e Bianco, che erano riusciti a emergere nel panorama nazionale negli anni ottanta/novanta, sono tornati a guidare le due metropoli proprio per mancanza, in primo luogo in casa democratica, di figure fresche e riconosciute come tali dall'elettorato. Anche le primarie per la corsa alla segreteria regionale, non ce ne vogliano gli eletti, hanno premiato un riposizionamento strategico di aree e non nuova classe dirigente. Se la nuova segreteria saprà diventarlo lo vedremo misurando il lavoro che sarà in grado di svolgere. Ma non è certo cominciando con le rampogne contro Roma che strapazza la Sicilia che esordisce con il piede giusto. Questa considerazione sulla dirigenza politica dei partiti siciliani, va fatta anche per tutte le altre formazioni politiche. Non è che manchino giovani capaci nei partiti. Ma essi, tranne qualche caso, fanno evidentemente fatica a venire fuori. E quando ci riescono, devono guardarsi da un doppio pericolo. Quello di essere emanazione di qualche gruppo che ne sfrutta la carta d'identità continuando a comandare il gioco, oppure di perdersi nel labirinto della politica di piccolo cabotaggio. I trentenni, in Sicilia, dovrebbero avere molto più coraggio. Gli ultimi profili importanti che scorgiamo nella vita politica siciliana sono quelli del citato La Torre e di Piersanti Mattarella. Se vogliamo, potremmo aggiungere un nome in odore di beatificazione, il siciliano Giorgio La Pira, non dimenticato sindaco di Firenze. Quando nell'orizzonte siciliano cominceranno a nascere figure come quelle di La Torre, Mattarella e La Pira, ce ne accorgeremo subito. Purtroppo, al momento, tra le giovani generazioni, non se ne scorgono. E non sono certo due coccarde da sottosegretario, in più o in meno, che possono smuovere di un millimetro tale stato di cose.

domenica 16 febbraio 2014

I muri della Vucciria e la difesa del prosecco.

La Repubblica Palermo 
15 Febbraio 2014 - Pag. I

Quel muro che divide due città colpevoli

(Le parti in neretto non sono state pubblicate per motivi di spazio)
Francesco Palazzo

Passato il miraggio di essere città della cultura, ci proviamo con l'UNESCO, per diventare patrimonio dell'umanità. Ma la percezione è di avere smarrito il senso di essere comunità dove prevalga la normalità e non l'inseguimento di eccezionalità. È  giusto, in tale situazione, chiamare in causa la politica che ci rappresenta nelle istituzioni e che governa. Ma il quadro va completato. Quel rudere della Vucciria,e i tanti altri sparsi per i quattro mandamenti, era da tempo sotto gli occhi di tutti. Forse quelli della movida palermitana pensavano che potesse risorgere da solo tra un aperitivo e un drink? Come mai s'indignano soltanto adesso? Una residente del centro storico, riferendosi alla movida, ha dichiarato a Repubblica che le sembra di vivere all'interno della sezione gastronomica della fiera del mediterraneo (buonanima). Le sere e le notti dei fine settimana questi luoghi della goduria si riempiono di gente che è assolutamente indifferente al contesto. Gli basta premere sull'acceleratore del divertimento. Ma come si fa a divertirsi in luoghi degradati? Lo schema di gioco sembra il seguente. Da un lato il disinteresse, direi l'ammutinamento, di larga parte dei cittadini palermitani, frequentatori delle movide o meno, dall'altra l'amministrazione che interviene quando i balatoni vengono giù e, in questo caso, che potrebbe ripetersi visto le condizioni di altri stabili, per sì e per no, erige muri. E magari saranno stati necessari nel caso specifico. Però, a parte il fatto che gli spazi chiusi risultano un terreno fertile per i malintenzionati,  sono il simbolo più efficace che si accoppia all'altra dimensione di cui parlavamo prima. L'indifferenza e i muri, quelli visibili e quelli invisibili, quest'ultimi i più rognosi, rischiano di diventare le impronte di una città. Stretta tra la logica del non vedo, a meno che non mi caschi addosso, e quella del tufo. Chi comanda in questa città, si chiede Enrico del Mercato, in un sintetico ed efficace editoriale? Dobbiamo rispondere, purtroppo, che ciascuno ha in mano un piccolo pezzo del mosaico del presente e del futuro di Palermo e lo gestisce come un diritto inalienabile. Una città divisa in tribù. Ognuna ne tira giù un pezzo quotidianamente ed è pronta ad scandalizzarsi a corrente alternata. E' questa la malattia del capoluogo. E' un veleno che non uccide Palermo, perché, certo, una città non muore mai. Ma i suoi abitanti si. Magari, tra un passo di movida e un altro, pensano di vivere in una metropoli viva e moderna. In realtà tra l'olivetta che annega nel bicchiere e un'azione politica che non ce la fa, pur con tutta la buona volontà di questo mondo, dobbiamo raccontarci una storia che difficilmente può avere un decorso diverso che non sia il sopravvivere annaspando. A meno che non si abbia la volontà di riscrivere un nuovo patto di cittadinanza. Ma, occorre dire onestamente, la situazione appare molto compromessa. E non si pensi che tale smarrimento della bussola riguardi soltanto il centro antico (su quello moderno, poi, meglio non parlare). Fatevi una passeggiata nelle periferie e la sensazione di spaesamento sarà ancora più netta. Passo spesso da Brancaccio e la situazione, più di vent'anni addietro descritta da don Puglisi, è peggiorata, ormai costituisce la prassi alla quale più nessuno si oppone. Insomma, tra centro storico, zone residenziali e periferie emerge il tesserino di riconoscimento di una città in cui comandano tutti e non comanda nessuno. Su un aspetto, tuttavia, bisogna essere chiari. A Palermo non può primeggiare la violenza, il far west. Chi mesi addietro ha creato disordini a Piazza San Domenico e quelli che a Piazza Garraffello hanno abbattuto i muri nottetempo, non possono pensare di essere in qualche modo giustificati. Se dobbiamo scegliere, non sottacendo le lacune di una giunta municipale da rivedere e di un consiglio comunale di livello non certo eccellente, stiamo dalla parte di chi ha la legittimazione popolare per agire, purché non innalzi il vessillo dell'antimafia anche nei casi dove nulla c'entra. Non stiamo affatto con chi ha scambiato le proprie opinioni in pietre da scagliare contro un muro che non è certo quello di Berlino. Lì si difendeva la libertà, qui, con tutto il rispetto, solo un prosecco.

lunedì 10 febbraio 2014

Testimoni di giustizia. Qualche spiraglio e una vita difficile.

La Repubblica Palermo

9 Febbraio 2014

I TESTIMONI DI GIUSTIZIA E I RITARDI DELLO STATO

Francesco Palazzo

Grazie all'associazione nazionale dei testimoni di giustizia, i quali quasi sempre vivono lontani dalla loro terra — e già questa è una sconfitta per tutti — che non hanno voluto più essere rappresentati da nessuno se non da loro stessi, è stata approvata la legge numero 125, di conversione del decreto legge 101 del 2013. Il percorso è stato favorito da pezzi di politica sensibili all’argomento. L’articolo 7 consente ai testimoni di lavorare negli uffici pubblici. Parliamo non di mafiosi pentiti, anche se per lungo tempo sono stati trattati allo stesso modo, ma di semplici cittadini che hanno deciso di non girare la testa dall'altra parte quando si è trattato di rivelare fatti o denunciare i loro estorsori. Le crude storie di abbandono, raccontate il 20 gennaio scorso in un programma RAI (Presa Diretta) a loro dedicato, parlano da sole e sono disarmanti. Soprattutto perché ben conosciute dalle istituzioni e dalla politica. Del resto, che questo ultimo passaggio, ossia l’arruolamento tra le file della pubblica amministrazione, sia stato atteso da più di vent’anni, la dice lunga su come sono stati trattati questi cittadini e cittadine che hanno semplicemente deciso, da incensurati, di fidarsi dello stato. Attualmente non superano le cento unità. La norma, che va a modificare una legge del lontanissimo 1991, dispone che queste persone, in analogia a quanto già in atto per i familiari delle vittime di mafia e terrorismo, anche se non più sottoposte al programma di protezione, ma non per questo non più in pericolo, possono accedere a un percorso di inserimento nei pubblici uffici, rispettando titoli di studio e professionalità posseduti. Ora si attendono i provvedimenti attuativi, in particolare, sembra, un decreto che il Ministero degli Interni dovrebbe inviare al Ministero della Funzione Pubblica. Un buon risultato, dunque. Che rischia di risultare problematico nella sua applicazione.

mercoledì 29 gennaio 2014

Il merito in Sicilia viaggia sott'acqua e non si vede.

La Repubblica Palermo

28 Gennaio 2014 - Pag. I

In morte di un ricercatore precario

Francesco Palazzo




La morte del ricercatore messinese, la settimana scorsa, tra le acque dell'Antartide, ci consegna la figura di un appassionato del suo lavoro che a quaranta anni, con un curriculum eccellente, era un precario che guadagnava, così leggiamo, 800 euro al mese con contratto a tempo determinato. Un suo collega ha dichiarato che «il mondo universitario avrebbe dovuto da tempo riconoscere le doti, la passione, la preparazione di un ricercatore che proseguiva tra la nebbia delle mille promesse, concorsi, finanziamenti e contrattini: la sua caparbietà non doveva essere esaltata postuma». invece è andata così. Continua una collega. «Era il migliore tra di noi, sarebbe potuto andare ovunque, invece ha scelto di restare in Italia perché ci credeva e aspettava fiducioso che arrivasse il suo momento, vista la sua evidente competenza». È morto sott'acqua Luigi Michaud. Quest'immagine ci consegna, ad di là della casualità del fatto specifico, la condizione di quanti in Sicilia studiano, si specializzano, accumulano master e, sol perché non hanno mai rovesciato un cassonetto sotto i palazzi del potere, rimangono invisibili, sotto il livello del liquido quotidiano della cronaca. Forti del loro sapere e saper fare, ma con un presente di stenti e poco futuro. Sono tantissimi ma non contano nulla. Un giovane agronomo mi raccontava che lui ormai vive di contratti derivanti dai finanziamenti europei. È anch'esso competente, aggiornato, parla con cognizione di causa della sua professione, ma deve vivere alla giornata. C'è anche quella ragazza che non ce l'ha fatta più ad inseguire il sogno della docenza universitaria, troppo pochi i fondi e nulle le speranze. Alla soglia dei quaranta anni vive con un contratto in un altro ente, che spera possa essere rinnovato più volte possibile affinché possa ambire alla stabilizzazione. Che magari giungerà quando lei veleggerà verso i cinquanta. Del resto, anche chi ancora è ai primi passi nel mondo universitario sa che qui c'è poco da sperare. E allora a cena ti racconta di quel fratello trentenne del suo conoscente, ingegnere gestionale, che qui non aveva niente e che a Los Angeles guadagna 14 mila dollari. Anche lei pensa di fare la stessa cosa. E ne discute come se la città californiana fosse proprio dietro l'angolo. E forse, nell'immaginario di una giovane ragazza, proprio lo è per chi già ha capito che terra amara è la Sicilia per chi ha troppo studiato. È meglio non avercela in Sicilia una professionalità che ti fa essere un mago del computer, un esperto di finanziamenti internazionali, un onesto e preparato consulente nel E campo della comunicazione. Perché è proprio di questi profili, che talvolta fanno crescere solo per breve tempo le pubbliche amministrazioni, lo spazio di qualche contrattino annuale, dove magari non ti pagano per mesi, che la Sicilia, forse l'Italia intera, non sa che farsene. Giocando tutto il suo orizzonte, angusto e pieno di tante giovani e preparate teste che vanno via, nel rinnovare, stabilizzare, creare questo o quel pezzo di precariato. Dicendo sempre che è l'ultima volta e dove l'ultima cosa che conta non è quello che sai fare, come lo sai fare e quanto hai studiato. E non si pensi, troppo semplicisticamente, che le colpe ricadono tutte sul sistema politico e universitario. È la società siciliana, fatta da diverse generazioni, che ha creato un sistema di questo tipo. Ciascuno ci ha messo del suo. La filosofia è quella del che male c'è se anch'io inserisco il mio piccolo pezzo nel grande mosaico della spesa pubblica che deve garantire stipendi e non selezionare per meriti. Ma sono discorsi di poco momento. Che ti vengono in testa quando senti di un giovane professionista siciliano che ci rimette la vita per passione, non pensando al magro bottino degli ottocento euro mensili e alla sua precarietà lavorativa. Oggi è un altro giorno. Anzi, acqua passata. Il gioco può continuare a procedere per come lo conosciamo già.

lunedì 27 gennaio 2014

La Teologia della Liberazione. Dall'America latina a Brancaccio.


La Repubblica Palermo

26 Gennaio 2013 - Pag. 12

LA CHIESA CHE VERRÀ CON LE NUOVE REGOLE

Francesco Palazzo

LA TEOLOGIA della liberazione, (TdL), Rosario Giuè l'ha sperimentata nella seconda metà degli anni Ottanta, da parroco, a Brancaccio prima che a San Gaetano giungesse Puglisi. L' autore parte da due punti fermi. Qualsiasi cambiamento non può considerare con sufficienza le religioni. Riflettendo sulla fede dal quotidiano, si fa teologia. Il libro passa in rassegna la TdL, nata in America Latina, dal 1960 a oggi. Il punto di vista di ogni teologia non è neutrale. Quello della TdL sono i poveri. In occidente sul pubblico prevale il privato. Nella TdL, la salvezza è nella storia. Partendo dai conflitti, si aiutano vittime e carnefici a liberarsi, rispettivamente, da oppressioni e peccati. La lettura della Bibbia muove dal concreto (salari, scuole, territorio), privilegiando il Cristo politico. Sul monoteismo, prevale la trinità, simbolo di partecipazione. Se il popolo vive la democrazia, chiosa Giuè, perché non lo fa anche la chiesa? In tale percorso le comunità di base lavorano al cambiamento, senza attenderlo dall'alto. Dagli anni Ottanta, nella TdL, donne sempre più protagoniste, contro il maschilismo dei linguaggi e dei ruoli. Giuè ricorda che Roma ha punito le migliori teste della TdL. Alla fine auspica che con Francesco possa esserci una chiesa che, senza trionfalismi, annunci un vangelo di liberazione.


Chiesa e Liberazione, Tau Editrice, 2013, 104 pagine, 8 euro

sabato 4 gennaio 2014

Peppino Impastato e gli occhiali, proviamo a vederla diversamente.

La Repubblica Palermo

3 Gennaio 2014 - Pag. I
Grazie a quel video le parole di Peppino diventano globali
Francesco Palazzo

Si contano ormai sulle dita di molte mani le polemiche sull'utilizzo di simboli mafiosi o antimafiosi. Ogni qualvolta, ad esempio, va in onda una ricostruzione che racconta con la lente d'ingrandimento le gesta degli esponenti di Cosa nostra, opposti ai pochi che nello Stato o nella società l'hanno combattuta, si sottolinea, quasi sempre, che non è corretto fare emergere queste forti personalità criminali in quanto si rischia che l'opinione pubblica ne abbia un'immagine positiva e che i più giovani si sentano portati quasi ad emularli. Stesso discorso, mutatis mutandis, quando ci si cimenta nel tentativo di raccontare, mettendole in primo piano, le vittime della criminalità mafiosa. Coloro che sono stati più vicini a tali biografie, talvolta con buone ragioni, parlano sovente di mistificazioni o tradimenti. Il punto, in entrambi i casi, è che ci si scorda che tali opere parlano non ai vicini, ossia a coloro che possono, sulle singole vicende, spaccare il capello in quattro, ma a spettatori generalisti. Ai quali alcuni concetti, che richiederebbero un fiume di convegni per essere esplicitati a dovere, devono per forza di cosa essere trasferiti con poche immagini e con un certo trascinamento emotivo. Altrimenti si cambia canale o non si staccano i biglietti dei cinema. Anche la pubblicità ha sovente utilizzato questo tipo di medium per propagandare prodotti. Sinora, se ricordiamo bene, è accaduto che si sia fatto l'occhiolino compiaciuto alla cultura e alle parole del lessico mafioso. E ciò, ogni volta, è stato fatto notare con robuste rivendicazioni. Ora, proprio in questi giorni, si sta discutendo di un video pubblicitario in cui transita un messaggio sulla bellezza appartenuto (in realtà è un passaggio della sceneggiatura del giustamente fortunato film "I cento passi" ripreso dagli autori dello spot trasmesso in tv) a Peppino Impastato, ucciso dalla mafia a Cinisi il 9 maggio del 1978. In questo caso il tentativo è opposto. Non si fa la corte al sentire mafioso ma si utilizza una frase di un antimafioso vero come Impastato. La cosa può essere valutata sotto diversi aspetti. I familiari di Peppino, il centro a lui intestato a Palermo, altre voci vicine all'antimafia militante, hanno espresso parole di forte critica verso l'accaduto. Che però, senza contrapporsi ad esse, può essere guardato anche da un altro punto di vista. Quello del grande pubblico, non infarinato in cose di mafia e antimafia, a cui lo slogan è principalmente diretto. È una cosa negativa che milioni di persone abbiano potuto ascoltare l'inno alla bellezza di Impastato, che altrimenti sarebbe rimasto conosciuto ai pochi che hanno approfondito la sua vita? Ciascuno può dire la sua. Tenendo conto della considerazione che l'arte pubblicitaria è un prodotto dell'ingegno umano, come può esserlo un film, un saggio, un romanzo, un racconto, un fumetto, un documentario, un videogioco. Prodotti, anche questi, che vengono realizzati per essere venduti. Si esprime nelle sue proprie forme, ossia cercando di convincere gli acquirenti della bontà di un prodotto, altrimenti non esisterebbe come genere. Va giudicata nelle sue singole manifestazioni. Così come ci esprimiamo criticamente nei confronti di un film, di uno sceneggiato televisivo o di una fiction. Non deve, quindi, essere ritenuta un'espressione artistica di serie b, solo perché cerca di piazzare sul mercato della merce. Da biasimare a prescindere se vuole intestarsi in maniera palese, senza sotterfugi, come in questo caso, l'operazione di utilizzo di un pensiero. Che era certo stato coniato con diverse finalità. Ma che può essere riproposto pure in contesti diversi, essendo ormai divenuto patrimonio dell' umanità. Così come le vite e le gesta di quanti hanno contribuito a rendere migliore questo mondo contrapponendosi alla signoria mafiosa. Basti pensare alla frase "E se ognuno fa qualcosa", di Don Puglisi, utilizzata ormai dappertutto. Ho guardato diverse volte lo spot sulla marca di occhiali in questione. Devo dire che, alla fine, potrebbe essere preferibile che passino certi messaggi, pur con tutte le cautele, i distinguo del caso e il massimo rispetto delle ragioni di coloro che si oppongono, che altre forme di sponsorizzazione in cui, passata la réclame, non rimane assolutamente nulla.