sabato 30 maggio 2020

Il ponte sullo stretto di Messina e l'eterno, ed imbattibile, virus del prima ci vuole altro.


La Repubblica Palermo – 29 maggio 2020
Facciamo cadere gli ultimi alibi di chi non vuole il ponte sullo stretto
Francesco Palazzo
Dunque l’alta velocità, con "Italo" e "Frecciarossa", si fermerà a Reggio Calabria. Non potrà avere accesso all’Isola perché non c’è un collegamento stabile tra Scilla e Cariddi che lo permette. Conosciamo a memoria, e sino alla noia per la verità, le motivazioni dei noponte. Per la verità ne è rimasta in piedi soltanto una. Prima si diceva che quest’opera non si potesse realizzare da un punto di vista tecnico. Come se cinquanta e più anni fa non fossimo andati persino sulla luna e come se nel frattempo non fossimo stati travolti positivamente dall’innovazione digitale, che ci è alleata in periodo di lavoro agile. Poi si aggiungeva che siamo carenti di altre cose. Questo è un classico. Più de I Promessi sposi. Prima queste e poi il ponte, si afferma a tutt’oggi. Come se il collegamento stabile tra Messina e Reggio Calabria rendesse impossibile tutto il resto. Cosa palesemente fuori contesto logico. Visto che pur non essendoci il ponte non c’è neppure il resto. Ma ai no ponte a prescindere, come direbbe Totò, non importa la razionalità. Che invece farebbe arrivare al pensiero opposto. E cioè che la messa in cantiere di un manufatto così importante e imponente, unico al mondo per le caratteristiche che presenterebbe, si porterebbe dietro per forza di cose, ci vuole davvero molto poco a capirlo, tutto il resto. Ma è difficile farlo intendere ai no ponte per partito preso. Forse occorrerebbe uno di quei disegnini, non so se avete presente, è un classico della Settimana Enigmistica, che si ottengono facilmente collegando i puntini numerati. Tra l’altro, visto lo scenario di forte crisi economica mondiale, determinata dalla pandemia in corso, della quale abbiamo iniziato a vedere soltanto la punta dell’iceberg, e che farà soffrire di più le zone economiche già deboli prima del coronavirus, e la Sicilia e la Calabria sono tra queste, un’infrastruttura di questo tipo metterebbe al centro del mondo il nostro paese e in primo luogo il meridione. Con tutti i vantaggi che possiamo immaginare da un punto di vista dell’attrattività turistica. Che farebbe da portentoso volano per tutti gli altri assi sociali ed economici. Nei momenti di forte crisi, e quello che abbiamo solo iniziato a vedere lo è senza dubbio alcuno, occorre essere in grado di volare alto. Solo così si può spostare l’attenzione verso uno scenario positivo invece di accontentarsi di navigare nello stretto, ora ci vuole, necessario per sopravvivere ai colpi della gelata che il virus ha messo sopra a tutte le economie, ed a quelle malconce in particolare. Ai nostalgici della traversata potremmo promettere, facendo ricorso al solenne giuramento dei boy scout, di lasciare comunque alcuni collegamenti romantici e teneri con i ferryboats. Noi, col loro permesso, e considerando soprattutto che il ponte non sarebbe soltanto il semplice ma già fondamentale collegamento tra due sponde, ma si iscriverebbe in una strategia fondamentale di collegamenti internazionali, vorremmo andare avanti.


martedì 26 maggio 2020

Il virus mafioso che non dobbiamo più nutrire nella vita quotidiana.


La Repubblica Palermo – 26 maggio 2020
I gesti quotidiani che servono a battere la mafia
Francesco Palazzo
Quest’anno il 23 maggio è stato diverso. Palermo ha chiamato l’Italia al balcone. Non tantissimi i lenzuoli nei prospetti palermitani, nonostante i ripetuti appelli sui social di personaggi noti, molto pochi in Sicilia oltre il capoluogo e nel resto d’Italia. E qualcosa vorrà pur dire. Stanchezza, disincanto, sottovalutazione, timore? La giornata è stata dedicata, oltre a chi ha lottato contro i sistemi criminali mafiosi, pure a chi durante l’emergenza Covid si sta spendendo per senso del dovere e spirito di servizio. Che fu la risposta data da Falcone a chi gli chiedeva chi glielo facesse fare. Lenzuoli a parte, siamo sempre chiamati a ragionare intorno all’ordinario senso del dovere che ciascuno mette in campo nel contrastare le mafie. Non ci sono scorciatoie. Questa è l’unica strada. Si può supporre che in diversi contesti, sia popolari che borghesi, il quotidiano consenso, tacito o esplicito, verso la criminalità organizzata sia ancora in agenda? Dovrà in qualche modo essere così se la mafia ce la troviamo spalmata nell’arco di tre secoli, sofferente ma viva e destinataria di un certo gradimento. Come ci mostrano le operazioni antimafia, sino all’ultima. Estorsioni a tappeto senza denunce, imposizioni di materie prime agli esercenti, in qualche caso addirittura obblighi sugli orari di apertura e su cosa vendere. E ciò accade pure nei quartieri residenziali. Per consistenti strati di borghesia, il pizzo, praticato sotto diverse forme, è ancora un costo sostenibile. Il contagio zero, a 28 anni dalle stragi del 1992, a 40 anni dall’uccisione di un presidente di Regione, a quasi 27 anni dall’eliminazione di un prete, e potremmo proseguire in questa via crucis, è ancora distante. Molto vicina a noi è invece la gara febbrile tra chi ce l’ha più blasonato, il medagliere, nel campo dell’antimafia militante. Professionistica, dilettante o mistificatoria che sia. Non abbiamo più bisogno di paladini ma della consapevolezza sempre più matura di un intero popolo. C’è dunque questo trinomio, mafia, popolo e antimafia. Due a uno, partita vinta di poco, ma sempre i tre punti portati a casa. Così sarebbe stato da tempo se oltre la mafia, che fa la mafia, ci fossero stati in campo un popolo che in ogni sua propaggine avesse fatto il proprio dovere e un’antimafia che non si fosse spesso distratta. Col coronavirus stiamo facendo il possibile, in pochi mesi, per fargli il vuoto attorno. Mentre di tempo, soprattutto nel mezzogiorno, ne è trascorso parecchio senza riuscire a recidere questo legame perverso con le cosche. Cosa nostra non ha bisogno della crisi sanitaria per operare, l’habitat dove vive le consente di essere pervasiva con o senza pandemia. Questa colpevole sudditanza, che spesso non diminuisce con i titoli di studio posseduti, ce la porteremo appresso ancora per chissà quanto. E non basterà nessun 23 maggio, 19 luglio, 15 settembre o 6 gennaio, date insieme alle altre in cui ci si batte il petto per commemorare persone che hanno dato la vita per liberarci dal pizzo eretto a sistema di vita da un consistente numero di cittadini, carnefici della loro stessa libertà, per venirne fuori. A meno che non si decida finalmente, emulando proprio le persone che contro il coronavirus stanno dando tutto, ad affrontare Cosa nostra, e le altre mafie, come se fossero, e in effetti lo sono, una grande e strutturale patologia endemica criminale, politica, sociale, economica, esistenziale e culturale. Che non viene però da posti lontani questa volta. Ma che abbiamo creato nella nostra terra e che continuiamo a nutrire. La mafia c’è oltre le ricorrenze, dentro le quali, oltre la genuinità di tanti, cresce forte la foresta della retorica. La vigilia del 23 maggio la RAI ha ritrasmesso il film sulla mamma di Peppino Impastato. Occorre avere, nel quotidiano, giorno per giorno, la tenacia, la forza, il coraggio, la lucidità, gli argomenti, in qualsiasi ambito ci troviamo, di Felicia Bartolotta e di coloro che l’aiutarono nella ricerca della verità. Di tanti veri impegni come il suo è fatta la strada che può portarci alla fine della pandemia mafiosa.


mercoledì 13 maggio 2020

Dopo il Covid 19 cercheremo il passato o andremo avanti?


La Repubblica Palermo – 12 maggio 2020
Come sfruttare la tecnologia quando finirà l’emergenza
Francesco Palazzo
Tutti sentiamo la necessità di una vita con ritmi diversi e nuove consapevolezze. Non possiamo proseguire come se la pandemia non ci stesse interpellando nel profondo. La tecnologia, in questo passaggio storico, è una fondamentale alleata. Sarebbe, ad esempio, non comprensibile se ritornassimo alla vita lavorativa con i vecchi arnesi. Stiamo scoprendo, ma in fondo lo sapevamo già, che si può lavorare dalle nostre dimore. Per le pubbliche amministrazioni questo vorrebbe dire, pensando al dopo, se ben gestito, un aumento della qualità del lavoro e un risparmio di risorse. I bilanci sono ingessati da spese correnti, legate anche al funzionamento delle strutture. Lo smart working consentirebbe di avere notevoli abbattimenti in termini di possesso e mantenimento di tali luoghi. Rendendoli più snelli e liberando fondi da destinare allo sviluppo. Si dovrebbe procedere a una riorganizzazione del lavoro. Siamo in emergenza, ma successivamente si potrà pianificare meglio il lavoro agile, sfruttando a pieno regime reti, piattaforme, software e processori, al fine di rendere più agevoli e veloci servizi ai cittadini. Anche l’aspetto spirituale ha mutato forma. Grazie a dispositivi sempre più sofisticati, che ormai pure i nostri anziani maneggiano bene, abbiamo visto che la religiosità può essere vissuta pur nel distanziamento fisico. Prendiamo atto che la Chiesa cattolica, la quale con le chiese vuote è riuscita a parlare al mondo meglio di prima, anche a coloro che non le frequentano, si sta mettendo al sicuro tornando il 18 maggio alle celebrazioni, legittime e necessarie per i credenti, sia chiaro, nei templi con i fedeli. In un momento, però, in cui nessuna assemblea pubblica è autorizzata e non attendendo dunque che tutto il popolo fuori dalle sagrestie sia nelle stesse condizioni di agibilità. A parte la forma, c’è sostanza sulla quale riflettere. Tornare a chiudersi nelle chiese è uno schema vincente? Sarebbe più conducente aggiungere altre dimensioni più orizzontali nel rapporto Chiesa-mondo, tema centrale del Concilio Vaticano II. Un sacerdote, in questi mesi, ha mandato messaggi segnalando le letture domenicali da meditare nello stesso momento e poi commentare condividendo i pensieri. È un modo, tra i tanti, per rendere la vita delle comunità cattoliche sempre meno legata alle gerarchie clericali. Un altro settore toccato dall’impossibilità di stare insieme è quello della scuola. Limitandoci alle superiori e alle università, perché per i più piccoli il ragionamento sarebbe complesso, si è visto che l’insegnamento e l’apprendimento possono essere validati senza l’interazione fisica. Che non va eliminata, ma tarata secondo criteri che non siano "io parlo e voi ascoltate", perché si può fare pure da casa. Risparmiando, pure in questo caso, soldi pubblici, da investire sempre nella scuola, per utilizzare al meglio le tecnologie e consentirne a tutti l’accesso. Chiedevo l’altro giorno a mio nipote se i video delle lezioni rimangono memorizzati per approfondire meglio in seguito. No, la cosa finisce, da quello che ho capito, col bello della diretta. Il dopo-coronavirus dovrà farci ricalibrare pure le istituzioni scolastiche, la didattica, i modi con i quali viene proposta e probabilmente molti suoi contenuti. Il tutto va riconsiderato più a misura di chi apprende, pensando che può farlo in tanti modi e che i banchi e le cattedre sono soltanto un approccio. Lavoro, spiritualità e scuola sono tre aspetti. Altri ne potremmo introdurre, sempre parlando del dopo, su ambiti non meno importanti, come salute e cultura rispetto alle conquiste tecnologiche che permettono accessi dalle proprie abitazioni, per citare altri due soli settori. Accanto a questi percorsi da remoto, occorre poi costruire in tutti gli ambiti rinnovati momenti di contatto fisico, sviluppando più la qualità che la quantità. Il Covid ci ha fatto mettere il piede sull’acceleratore dell’innovazione. Sarebbe non saggio, quando tutto sarà finito, che scendessimo dall’auto ripercorrendo a piedi all’indietro le nostre passate orme.