venerdì 16 novembre 2012

Regionali: il mercato del consenso.

CENTONOVE
Settimanale di Politica, Cultura, Economia
N. 43 del 16 Novembre 2012
Pag. 46
Il voto che costa
Francesco Palazzo
 
Tre episodi vissuti direttamente, uno prima delle elezioni e due la settimana successiva al 28 ottobre, possono servire a capire come si è raccolto il consenso di una parte (residuale, piccola, ampia?) della minoranza di siciliani che è andata al voto. Sabato mattina, vigilia delle elezioni. Presso il popolare mercato palermitano del Capo due galoppini fermano diversi conoscenti ai quali si rivolgono in maniera concitata. Il messaggio è che recandosi in una determinata piazza di Palermo, portando la fotocopia della scheda elettorale, si potranno ricevere due buste di spesa senza uscire un centesimo dalla tasca. Alcune persone assicurano che è tutto vero. Uno del piccolo capannello che si forma, assicura che suo cugino c'è andato il giorno prima e ha ricevuto quanto promesso. Un altro suona alla moglie e sale a casa per prendere la scheda elettorale. Un commerciante rientra in negozio e dice che lui andrebbe, ma due pacchi di spesa sono pochi. Se si trattasse di cinquecento euro si potrebbe cominciare a discutere. A un certo punto i galoppini vanno via di corsa. Occorre battere altre zone e portare altrove la lieta notizia della spesa a sbafo in cambio del voto. Avrà funzionato tale metodo di raccolta del consenso last minute? Qui siamo allo scambio che precede il voto. Tutto si basa sulla fiducia. Coloro i quali riceveranno il “dono” poi non sgarreranno dentro la cabina elettorale. “Ma come fanno a controllare”? Uno del Capo se lo chiede, i galoppini assicurano che ci riescono, ottenendo l'assenso preoccupato dei presenti. Un anziano zittisce tutti. “Io se mi danno la spesa ci voto, è una questione d'onore”. Altro scenario a tre giorni dal voto. Siamo nella zona vicina al Civico e al Policlinico. Tre giovani discutono animatamente, i decibel aumentano man mano che la discussione entra nel vivo. In questo caso niente fiducia. Il “dono”, sotto forma di moneta sonante, sarebbe stato consegnato dopo aver contato i voti. I tre ventenni ne fanno una questione basilare per la consistenza delle loro finanze. Dovrà trattarsi di una somma non trascurabile. Il problema è concreto e va risolto. Il tipo che ha chiesto, secondo questi giovani, raccolta di voti in cambio di soldi non ha pagato. Malgrado, dice il più nervoso dei tre, abbia preso migliaia di preferenze. Uno dei tre sembra saperla più lunga. Annuncia che comunque lui tornerà tra qualche giorno e a muso duro andranno ad affrontare la questione. Ad un certo punto si coglie la motivazione del mancato pagamento. I voti spuntati dalle urne in quella zona non sono stati numericamente quelli pattuiti. Pochi voti, niente denaro. Perché, secondo quanto sostiene uno dei tre, chi è stato fedele alla promessa ha già ricevuto quanto stabilito. Ma loro sostengono che i voti li hanno capitati. A un certo punto siamo costretti ad allontanarci, ma da lontano vediamo che il teso simposio continua. Riceveranno i nostri racimolatori di voti quanto ritengono di avere diritto? Il terzo episodio, che probabilmente spiega il primo e il secondo, è un dialogo carpito, a sette giorni dalle elezioni, tra professionisti che vorrebbero una politica pulita e sanno però come funziona quella sporca. Andrebbe così, spiega quello che sembra il più esperto. Chi raccoglie voti con metodi, diciamo, discutibili, fa un ragionamento molto semplice. In una zona mobilita i galoppini e sa che deve aspettarsi un certo numero di voti. Se ne arrivano due, tre in meno, va bene, può essere che ci sia qualche malato che proprio non può recarsi al seggio. Ma se ne mancano qualche decina, ecco che paga tutto il gruppo a cui, in quella zona, nei diversi seggi, è stato assegnata la missione di convincere, distribuendo beni di ogni tipo, la gente a votare per il candidato. Allora, forse, i tre ragazzi hanno svolto bene il loro compito, ma il gruppo a cui appartengono non ha lavorato complessivamente bene e quindi niente corrispettivo pure per loro. Se questa è la regola, chissà come è finita ai galoppini del Capo. Avranno ricevuto il compenso dopo aver piazzato le buste di spesa all'ombra del Teatro Massimo?

venerdì 9 novembre 2012

La violenza sulle donne e la pubblicità.

CENTONOVE
Settimanale di Politica, Cultura, Economia
N. 42 del 9 Novembre 2012
Pag. 46
Carmela, la pubblicità non c'entra
Francesco Palazzo
 
Quando accadono fatti come quello dell'uccisione della giovane liceale palermitana, cerchiamo parole e motivazioni su cui appendere crimini così atroci. E' umano. E allora assistiamo a un campionario di sociologismi, magari da approfondire, per carità, ma che spesso mi sembrano dei tentativi a buon mercato per trovare vie d'uscite dai labirinti mentali che certi accadimenti creano dentro le nostre coscienze. Subito dopo l'omicidio della giovane Carmela, abbiamo visto salire sul bando degli imputati pure la pubblicità che commercializza prodotti sbandierando corpi di donne. Addirittura il comune intende fermare tutte le campagne promozionali sessiste. Ora, a parte il fatto che semmai occorrerebbe prendersela, più che con i pubblicitari, con le donne che si fanno ritrarre e donano i propri corpi, ma davvero si pensa che ciò possa essere, anche lontanamente, collegato, o motivare, atti come quello accaduto in Via Uditore o i tanti che si verificano con sempre maggiore frequenza? Tutti questi omicidi o aggressioni dovrebbero essere compiuti da uomini che, vedendo pubblicità su pubblicità, giorno dopo giorno, alla fine scelgono una donna su cui scaricare la libido che le immagini succinte del corpo femminile provocano. Se cosi fosse, dovremmo assistere pure ad una strage di uomini, visto che questi ultimi compaiono sempre più, forse in misura maggiore delle donne, nei manifesti di cui sono pieni le nostre strade. Ma davvero vogliamo raccontarcela così? Ma non sono sempre i mariti, i fidanzati, i padri, ossia il cerchio delle conoscenze e delle parentele più intime a farsi carico di sferrare colpi su colpi, perseguitando sino ad annullare identità e vite? E cosa c'entra, con tutto questo, un gluteo posto in bella vista in una fiancata di un autobus, un decolté impresso in un tre per sei, una coscia immortalata in uno spot televisivo? Magari c'entra un'altra cosa. Che a fatica, noi maschi perbenisti, che andiamo in cerca di mostri per non leggerci dentro, riusciamo ad ammettere. E cioè che l'immagine che abbiamo delle donne della nostra vita è quella dei nostri nonni e dei nostri bisnonni. Che non ammazzavano perché le loro compagne, figlie, mogli e fidanzate stavano al loro posto. Un posto che però la cultura borghese non ha modificato, semmai aggiornato e reso più presentabile. Insomma, quanti, pur sentendosi moderni e rispettosi delle donne, magari partecipanti alle fiaccolate contro i femminicidi, non pensano che queste debbano, contemporaneamente, badare alla casa, ai figli, lavorare, fare la spesa, stirare, lavare, occuparsi delle cene per farci fare bella figura e tutte le corvée a cui millenni di storia le hanno destinate? Se voi pensate che tutto questo accada in via Oreto, vi sbagliate, perché succede soprattutto nei nostri quartieri bene e nelle nostre case accessoriate e all'ultima moda. Ah, non dobbiamo dimenticare che, per molti appartenenti alla cultura borghese, che non stanno in via Oreto e non guadagnano quanto quelli della via Oreto, il problema della fedeltà non è bilaterale. Le loro donne devono rimanere fedeli, loro possono passare da un'amante all'altra. Lo fanno perché vedono le pubblicità? Non diciamo sciocchezze. Va bene, allora, lo slogan, che contiene un impegno che deve essere di tutti, “fermiamo i femminicidi”. Ma fermiamo anche le analisi inconsistenti e le banalità. Perché non aiutano ad affrontare bene la questione e creano falsi problemi. Piuttosto, guardiamoci di più dentro, noi che pensiamo di esserne fuori da certe questioni. E domandiamoci, nella rude pratica quotidiana e non solo nell'esternazione di bei principi, che ruolo consegniamo alle donne della nostra vita. Per parte mia, continuerò a guardare serenamente le pubblicità che ritraggono donne. Così come quelle che ci consegnano immagini di altri esseri viventi. In fondo, quando c'era carosello ci divertivamo, non pensavamo affatto che fosse un crimine contro l'umanità.