giovedì 31 dicembre 2015

Il bel tram e la ZTL alla pasta con le sarde.

La Repubblica Palermo - 30 12 2015
Ma per inquinare basterà pagare
FRANCESCO PALAZZO

Pagare per inquinare o non pagare e scordarsi tram, Amat e ogni parvenza di trasporto pubblico. Sembra questa la scelta che si troveranno davanti i palermitani nel 2016. Il tram è realtà ma, oltre che sui binari, scorre su due aspetti connessi che vale la pena evidenziare. Parliamo della Ztl e della tariffa che si dovrà sborsare. Prima domanda. Cosa è una Ztl? Cosa accade a Torino, Milano, Genova, Verona, Roma, Firenze, Bari e Bologna? Abbiamo l’impressione che, rispetto a Palermo, ci troviamo di fronte a due concetti di Ztl. Nelle città citate, come giustamente indica il termine limitato, non si può assolutamente, da non residenti, accedere in queste zone se non si è in possesso di specifiche autorizzazioni. A Bologna e a Milano un non residente sgancia cinque euro al giorno se vuole accedere, ed è chiaro che lo farà solo per eventi particolari. Non è che paghi cento euro una volta ogni 365 giorni ed entri per un anno intero 24 ore su 24. Se così fosse ovunque, andrebbe a farsi benedire l’ambiente e salirebbe ancora di più il picco di polveri velenose che stanno mettendo in ambasce molte città italiane, costringendo a targhe alterne o a chiusure totali. Per mettere in campo Ztl vere, devi fornire servizi di trasporto adeguati. Se non puoi fare questo, ti inventi la Ztl alla pasta con le sarde. Che consiste nel dire all’automobilista che ha acquistato la sua auto anche sedici anni addietro: vuoi entrare sempre dentro il cerchio magico anche se non sei residente? Pagare e sorridere. Con una somma la tua auto diventa pura come un giglio e ci scorderemo che in realtà inquina lo stesso. È vero che vengono fatte fuori le auto da Euro 0 a 2. Ma non cambia la struttura della Ztl palermitana, che non trova repliche in Italia. Sul fronte della spesa privata va detto che molte famiglie dovranno sborsare trecento o quattrocento euro. A ciò va aggiunto l’aumento del costo della sosta nelle strisce blu, portato dappertutto a un euro, anche se l’attuale amministrazione nel 2012 voleva eliminarle del tutto. Messa così, non ce ne voglia il Consiglio comunale che ha fatto nottate per tutti noi, sembra un modo di fare cassa. E qui siamo al secondo aspetto che vorremmo sottolineare. Non parliamo di un’imposta che viene raccolta da tempo, della quale si conosce la consistenza e che a un certo punto si destina a qualcosa. Ciò che andrà a saziare il tram, l’Amat e tutto il sistema di trasporto pubblico è una posta di bilancio di cui ancora non si conosce l’ammontare. Non è leggermente imprudente far dipendere tutto il sistema di trasporto pubblico della quinta città d’Italia da un’entrata ancora largamente incerta che dovrebbe andare a decrescere in condizioni ottimali? C’è infatti da augurarsi che, mettendo in campo condizioni migliori di mobilità nel tempo, solo una minima quota di palermitani pagheranno. Ma se ciò accadesse, visto che tutto è appeso al pagamento dell’obolo, che fine farebbero il tram, l’Amat e tutto il potenziamento della mobilità alternativa alle auto? Inoltre, non è leggermente temerario caricare su un’unica azienda, l’Amat, al momento pare in sofferenza, tutte le modalità di trasporto pubblico? Tutto ciò senza considerare che la Ztl potrebbe essere impugnata, come accadde nel 2008 con la Ztl venuta meno prima di emettere il primo vagito. Siamo contenti che il tram parta. Siamo pure disposti a non pensare che ci è costato quasi 18 milioni a chilometro. Vorremmo vederle sempre piene, quelle vetture, e non sappiamo se lo saranno subito. Cioè prima ancora che si completino le altre opere (anello ferroviario e passante). In atto pare che i numerosi semafori aggiunti nelle strade interessate al transito del tram creino non pochi ingorghi. Destinati ad aumentare ora che i convogli aumenteranno la loro frequenza. Altri punti di domanda, questi ultimi, che si sommano ai precedenti. Il 2016 si farà carico di diradare o confermare i dubbi.

venerdì 18 dicembre 2015

Tram a Palermo: l'ideologia e la concorrenza.

La Repubblica Palermo - 17/12/2015 - Pag. I
Le domande da porsi aspettando il tram
Francesco Palazzo
Che il tram riesca entro dicembre a imbarcare utenti, pena la restituzione di fondi e una penale giornaliera alla ditta che ha svolto i lavori, dipende da un voto del Consiglio comunale.Il giocattolo è pronto, ma non è ancora stabilito chi debba gestire il servizio. Non ci si poteva pensare prima? Certo, dice l'opposizione di Forza Italia. Altri consiglieri comunali del centrosinistra sono sul piede di guerra. Affermano di non conoscere lo stato patrimoniale dell'Amat e di non essere, perciò, nelle condizioni di votare il contratto di servizio con l'azienda. Vedremo come andrà a finire. Ma lo spettacolo non è dei migliori. Già c'è un primo intoppo. Tre commissioni di Palazzo delle Aquile hanno bocciato il contratto di servizio dell'Amat e il suo piano industriale, rimandando la patata bollente in Consiglio. La battaglia è sulla Ztl. Da settimane c'è un movimento di cittadini. Chiede che le linee del tram entrino subito in funzione. In effetti, nel vedere tutto pronto, con queste luccicanti vetture che transitano senza passeggeri, un po' d'impazienza è normale che prevalga. E sono pure disposti ad accettare, i palermitani, che quanto spenderanno per le zone a traffico limitato andrà a foraggiare il sistema tranviario, pagando dunque due volte il servizio. Per la cui gestione l'amministrazione comunale ha individuato l'Amat. Si tratta di un'azienda florida, che gestisce in maniera ottimale il servizio degli autobus, per cui è logico affidarle un altro asse di mobilità pubblica di primaria importanza qual è il tram? Su questo punto, stando a quanto affermano i consiglieri del centrosinistra, non siamo in grado di dire molto. Come cittadini utenti non possiamo certo trarne giudizi superlativi. Basta vedere il numero di vetture che ogni giorno sono su strada e lo stato dei mezzi, il numero di portoghesi, le attese alle fermate. Si può dare a un'azienda già zoppicante un altro carico di lavoro molto pesante? Perché non veniva svolta, in tempi utili, non con l'acqua alla gola, una gara pubblica per vedere chi offriva la gestione migliore del tram e una spesa minore da parte dei viaggiatori? In fin dei conti all'utente interessa che i mezzi passino con una frequenza temporale accettabile e che il tagliando e gli abbonamenti costino il giusto. Per dire, se tutti pagassero sui bus dell'Amat, il biglietto costerebbe di più o di meno di un euro e 40? Con i soldi incassati si potrebbero comprare più o meno autobus? La risposta non è complicata. Qui, però, entra in gioco il classico schema che consiste nel mettere sull'avviso, contro quanti vogliono liberalizzare questo tipo di servizi, che sarebbero alle porte, pronti a buttarsi sull'osso, quei cattivoni dei privati. Non parliamo di scuola, di sanità, di acqua, ambiti in cui in occorre fare molta attenzione tra pubblico e privato. Si parla d'altro. E gridare al lupo sembra fuori luogo. Per carità. Dove il pubblico riesce a gestire in maniera ottimale il servizio di trasporto, nulla quaestio. Ma se non ci trovassimo in questa condizione a Palermo, e più di qualcosa ci dice che così è, aprire le porte alla concorrenza per offrire un servizio migliore, e che costi meno alle tasche dei contribuenti, dovrebbe essere assolutamente un percorso naturale. O no?

mercoledì 9 dicembre 2015

Vecchioni, nessuno ci può giudicare. Semu troppu tochi.

La Repubblica Palermo 
 8/12/2015
L’errore di Vecchioni? Considerare i siciliani i più intelligenti.
Francesco Palazzo


Gentile Roberto Vecchioni, lei non poteva sapere che in Sicilia c’è un esercito che in passato su queste colonne ho chiamato compagnia dei difensori. Il quale non aspetta altro che qualcuno scopra l’acqua calda su di noi per scatenarsi. E’ difficile spiegare a un brianzolo il senso di una frase che definisce la compagnia dei difensori: “difenni u to o tortu o rittu”. Una reazione belluina, intrisa nel sangue, che porta a proteggere ciò che è tuo quando altri, “stranieri”, invadono il campo. E come si permette, uno di fuori, a dirci cose che solo noi, veri amanti di questa terra, possiamo pensare? Perché noi siamo amanti senza rivali. Amiamo tanto che soffochiamo per troppo ardore il nostro oggetto d’amore. Se l’avesse detta un siciliano quella frase, peraltro in un discorso ampio, che esortava alla reazione contro l’inciviltà, per non essere un’isola di merda, non ci sarebbe stata alcuna replica sdegnata. L’ottima platea che l’ascoltava avrebbe applaudito. L’opinione pubblica avrebbe calato umilmente la testa. Nelle nostre discussioni capita spesso che esprimiamo lo stesso concetto. Cosa dovremmo dire, del resto, con una regione che soffre da tanti punti di vista e che si trova in fondo alle classifiche di importanti indicatori, dove non i giovani meritevoli sono premiati, ma migliaia di lavoratori assistiti, che portano voti. E che talvolta devono completare i giorni lavorativi, non il lavoro, si badi bene. Dove le regole del vivere quotidiano, dallo buttare le cicche a terra al depredare tutto ciò che è pubblico, dal pagare i posteggiatori abusivi al parcheggiare ovunque, dal sostare sulle strisce pedonali allo sfrecciare lungo le corsie riservate, sono piegate verso l’interesse personale. E meno male che è venuto ad autunno inoltrato. Se fosse atterrato a Palermo in estate avrebbe ammirato montagne d’immondizia lungo il percorso che unisce il Falcone-Borsellino al capoluogo. Vicino all’aeroporto, inoltre, nei mesi caldi, i palermitani che si recano al lavoro dall’abitazione estiva, lanciano a due passi dallo svincolo autostradale sacchetti d’immondizia. E come vogliamo chiamarli, se non uomini e donne di merda, coloro che trattano la Sicilia come una pattumiera, che sfregiano le coste, il mare, il territorio, chi non controlla o si gira dall’altra parte? Ci sono tanti siciliani perbene, mi scrive un amico. E chi lo mette in dubbio. Ma se fossero molti e non una piccola minoranza non saremmo a questo punto. Ma sa cos’è, Vecchioni, che mi ha fatto sobbalzare? Lei ci definisce i più intelligenti al mondo. Le sembrano intelligenti persone che hanno pasciuto per più di un secolo e mezzo la mafia? Le pare dotato di grandi quantità di materia grigia un popolo che si crede furbo ricorrendo spesso alle raccomandazioni e invece è solo fesso? Le sembriamo così brillanti quando facciamo fuggire le teste migliori, che formiamo spendendo un fiume di soldi? Davvero siamo dotati di grande intelletto visto che riusciamo a esprimere una classe dirigente che, quando va bene, governa mediocremente la cosa pubblica? Ne è certo che siamo così acuti considerato che non riusciamo a valorizzare economicamente un tesoro, la Sicilia, che la storia ci ha messo tra le mani? Mi fermo qui. La ringrazio, ci ha aiutato a riflettere per qualche giorno. Ogni tanto qualche tumpulata a sorpresa ci vuole. Non che cambierà molto nella sostanza. Scorrendo i social network ho però l’impressione che molti abbiano capito la teoria. Un siciliano scrive: “Il mio paese è sul mare in un golfo splendido. Ma abbiamo il 70 per cento di disoccupati che del mare e del sole non se ne fanno niente”. L’altra sera, sull’autobus, (sa che a Palermo in pochi pagano il biglietto?) noto un ragazzo con i piedi sul sedile. Gli dico di metterli giù. Un suo amico sussurra che le mie parole gli ricordano l’intervento di quel cantante il giorno prima all’università. Insomma, almeno nella testa di un diciassettenne il suo discorso è entrato. Può essere un buon inizio. 

giovedì 29 ottobre 2015

Città,antimafia e politica.Tre sfide per il nuovo arcivescovo di Palermo.

La Repubblica Palermo
28/10/2015 - Pag. I
Le sfide che lo attendono
Francesco Palazzo

La nomina della guida ecclesiale della più importante diocesi della Sicilia riveste un carattere di prima importanza pure per gli aspetti, sociali, culturali e politici che riguardano anche coloro che con la chiesa cattolica hanno poco a che fare. Piaccia o no, infatti, la curia arcivescovile palermitana, essendo la sede più importante della Sicilia in ambito cattolico, incrocia spesso tanti aspetti della vita civile e non soltanto del territorio in cui ha giurisdizione. Sulla nomina dell’ispicese Corrado Lorefice, e su ciò che lo attende, si può fare più di una riflessione. Innanzitutto è giovane, 53 anni, (ma non è un record, il cardinale Pappalardo fu nominato nel 1970 a 52 anni), quindi ha molto tempo davanti a se per lasciare il segno e per modificare alle radici la diocesi palermitana. E’ un parroco, e questa è una novità assoluta dovuta al nuovo corso di papa Francesco, che direttamente diventa generale, ossia s’insedia in una sede cardinalizia. Non è palermitano. E questa è ormai una prassi. Per rintracciare l’ultimo arcivescovo del capoluogo nato a Palermo, (mentre troviamo una sfilza di napoletani anche risalendo molto indietro nel tempo), dobbiamo fare un salto indietro di centoquarantaquattro anni quando, nel 1871, e sino al 1904, il palermitano Michelangelo Celesia salì sulla cattedra di San Mamiliano. Insomma, da quasi un secolo e mezzo la comunità cristiana palermitana non riesce a esprimere un vescovo che riesca a prendere la guida della diocesi. Non c’erano parroci a Palermo che potevano ambire alla stessa nomina che è caduta sul prete della parrocchia modicana? Forse sì. Se si fosse seguita questa strada, senza nulla togliere all’alto profilo, umano e pastorale, di cui è accreditato il novello vescovo, si poteva segnare un altro dato in controtendenza e valorizzare qualche esperienza che va avanti da decenni a Palermo e viene molto apprezzata da laici e cattolici. Ammesso che non ci sia religiosità nella laicità e profonda laicità nell’essere cattolici o credenti di qualche professione religiosa. Ma cosa attende il nuovo vescovo? O meglio, cosa può aspettarsi da lui il mondo che guarda ai fatti ecclesiali dall’esterno? Vogliamo segnalare tre aspetti. Il primo. Innanzitutto occorre stabilire un nuovo rapporto con la città, in tutte le sue articolazioni. Bisogna risalire al cardinale Pappalardo, che andò via dalla sede cardinalizia quasi vent’anni addietro, per trovare la Missione Palermo con l’accattivante slogan “Palermo salva Palermo”. Le ultime due esperienze cardinalizie non si sono contraddistinte in questo senso. E’ vero, c’è stata la beatificazione di don Pino Puglisi, nel cui nome ogni anno in cattedrale s’inaugura l’anno pastorale. Ma la figura del prete ucciso a Brancaccio dalla mafia, che ha cercato un costante rapporto con i territori dove è stato mandato, è rimasta un punto di riferimento senza nessuna azione strutturale. E proprio quest’aspetto, definire una volte per tutte una pastorale antimafia organica, che non lasci più spazio ai tiepidi e agli indifferenti nelle parrocchie della diocesi, è uno dei compiti più importanti che attendono Lorefice, ed è il secondo tema che vogliamo segnalare. Se ogni parrocchia mettesse in campo segni chiari, precisi, quotidiani contro la criminalità organizzata, sarebbe un bel colpo per i mafiosi che credono che in fondo dentro la chiesa ci si sta ognuno a suo modo. Anche da criminali patentati. Infine, terzo aspetto, occorre ristabilire un nuovo rapporto con la politica rappresentata nelle sedi istituzionali. Un rapporto che non sia ricerca di finanziamenti da un lato e rampogne generiche nelle omelie dall’altro. Semplici da fare quanto facili da dimenticare. Un rapporto adulto della chiesa nei confronti della politica significa capacità di analisi, studio, esempio, denunce precise. Mettendo in campo iniziative che durino. Dimostrando che con la gratuità e la povertà di mezzi si può fare molto dove la politica non riesce pur spendendo spesso ingenti fondi.

giovedì 22 ottobre 2015

L'avventura di un viaggio in Sicilia

La Repubblica Palermo

21/10/2015 - Pag. I

Un tranquillo weekend di ritardi e disagi sulle strade siciliane

FRANCESCO PALAZZO

Un bel sabato mattina pieno di sole una coppia di palermitani decide di recarsi a Catania. Si vuole sperimentare il treno veloce, quello messo su in fretta e furia, per ovviare, in parte, alla chiusura dell'autostrada causata dal cedimento del viadotto Himera. Veloce consultazione del sito di Trenitalia, il primo convoglio parte alle 13 e 38 e arriva alle 16 e 25. Due ore e quarantasette, si può fare. Il treno precedente parte alle ore 10 e 05, ma è quello ancien regime , ci impiega quasi cinque ore. Nel sito non è specificato nulla, sembra che la corsa non nasconda alcun problema. Sembra. Si esce da casa alle ore 11 e 30, si prende il 101, si scende in Via Roma, il tempo c'è e si fanno due passi senza fretta. Arrivati alle 12 e 20 nell'atrio della stazione, diamo uno sguardo ai treni in partenza e accanto al nostro e a quello per Agrigento leggiamo " servizio bus". Che vuol dire? Ci avviciniamo alla biglietteria e un'impiegata ci informa che, a causa del deragliamento di un treno nei pressi di Caltanissetta la linea è interrotta, avremmo dovuto prendere un pullman sino a Caltanissetta Xirbi per poi imbarcarci sul treno sino a Catania. Prendiamo atto, potevano scriverlo sul sito dove invece, se vuoi acquistare il biglietto elettronico, c'è scritto che si tratta di un regionale veloce. Sì, ma quanto tempo occorre per fare tutta l'operazione? Non si può sapere, ci viene risposto in biglietteria, dipende dal traffico che incontra il pullman. Sì, ma un tempo ipotetico? Niente pronostici, pare che qualche giorno prima ci sono volute anche dieci ore. Come non detto, si opta per il classico torpedone che almeno non prevede trasbordi e in tre ore e mezza, compreso il pittoresco giro turistico sulle Madonie, ti scarica a Catania. Solo che il prossimo parte alle 14 e 30. Vabbè, a questo punto non c'è possibilità di scelta. A Catania si arriva alle 18, considerato che siamo usciti da casa alle 11 e 30, se eravamo all'EXPO potevamo completare la coda per visitare l'ambitissimo stand del Giappone. Ma non è finita qui. Poiché avevamo pagato fatto anche il biglietto di ritorno, domenica alle 18 e 30 ci presentiamo alla fermata di Piazza Alcalà, nei pressi della caratteristica pescheria catanese e a due passi dal Duomo. Arriva il mezzo e scopriamo che c'è solo un posto libero. Il secondo, vicino all'autista, abbastanza scomodo, si libera perché una ragazza scende all'aeroporto di Fontanarossa. Ma la sorpresa maggiore ce l'hanno una decina di utenti che vorrebbero salire alla fermata dell'aeroporto. L'autista scende e informa che non ci sono più posti. Pare che in aggiunta a quest'ultima corsa ce ne sarà una straordinaria alle 20 e 30, che depositerà i malcapitati, che avevano previsto di arrivare alle dieci, nel capoluogo siciliano verso mezzanotte. La società di trasporti rilascia evidentemente tagliandi in overbooking, cioè in numero maggiore di quanti passeggeri può contenere un pullman pieno come un uovo. Chiediamo all'autista se è la prima volta che capita. Non è la prima volta. Sui tornanti delle Madonie, che da Tremonzelli s'inerpicano sino a Polizzi Generosa per poi ridiscendere verso l'autostrada, il posto vicino all'autista, l'unico che ho trovato disponibile, non è il massimo. Vengo sballottolato da una parte all'altra anche con la cintura di sicurezza ben stretta. Arrivati a Palermo, che ve lo dico a fare, abbiamo ancora a confrontarci con i mezzi di trasporto. Un autista dell'AMAT c'informa che la nostra linea, il 101, la domenica dimezza il numero degli autobus su strada, e che dopo le 20 il numero si dimezza a sua volta. Qui ci voleva una mente matematica tendente all'infinito per stabilire quanto avremmo dovuto aspettare. Ma siamo stanchi e non ce la sentiamo di arrivare ai massimi sistemi. Perciò prendiamo il primo autobus che copre quasi lo stesso tragitto del 101. Ah, Catania era bella e piena di sole. Palermo è bella, la Sicilia è bellissima. Ma amministratori e amministrati, non vale per tutti ma per quasi tutti, non sono all'altezza di cotanto splendore.

mercoledì 14 ottobre 2015

Palermo: la politica dei cinque minuti pagati a peso d'oro.

Repubblica Palermo
13/10/2015 - Pag. I
La politica lontana dei gettoni d'oro
Francesco Palazzo

Centocinquantasei euro per cinque minuti per i consiglieri comunali più pagati d’Italia. Fanno trentuno euro e venti centesimi al minuto, cinquantadue centesimi al secondo. Al mese arriviamo all’iperbolica cifra di 1 milione trecentonovantaduemila settecentosessantotto euro. All’anno siamo a quasi sedici volte di quanto prende a stagione l’attaccante di punta del Palermo. Sono queste le quote d’ingaggio per gli abitanti di Palazzo delle Aquile affinché una loro, seppur fuggevole, presenza in commissione sia pagata per intero.  In nessuna attività lavorativa, pubblica o privata, è permesso un simile stato di cose. Ce li vedete un banconista di un bar, una commessa, un operatore di un call center, un operaio edile, un impiegato di banca, e non proseguiamo l’elenco perché sarebbe interminabile, che si assentano giornalmente dopo pochi minuti per poi pretendere l’intero ammontare delle giornate lavorative? Sarebbero licenziati, a ragione e con fondati motivi riconosciuti dalla legge, nel giro di niente. Quando si parla, a volte qualunquisticamente, ma spesso con fondati motivi, della distanza che c’è tra la politica e la vita normale delle persone, s’intende esattamente questo baratro, questa incolmabile distanza tra gli abitanti delle assemblee elettive e i normali cittadini. Come si può pretendere dai componenti di una comunità il rispetto delle regole se poi alle latitudini istituzionali valgono prassi, incredibilmente consentite dalla legge, che fanno a pugni con qualsiasi concetto di produttività? Senza contare che vi sono casi in cui l’elezione a uno scranno comunale coincide, ancora più assurdamente, con il miracoloso materializzarsi di un posto di lavoro super retribuito, dove il lauto stipendio viene posto a carico delle amministrazioni pubbliche, ossia grava sulle tasche di tutti noi. Ci troviamo, così, a pagare due volte una politica la cui efficienza, in molti casi, è tutta da dimostrare. Oltre il danno, la beffa. Non solo paghiamo i cinque minuti a peso di diamante, ma dobbiamo pure farci carico di attività lavorative che devono essere rimborsate alle aziende di appartenenza dei sin troppo fortunati eletti dal popolo. E’ difficile, così stando le cose, non dare fiato alle trombe del disinteresse dei componenti di una comunità verso ciò che appartiene a tutti. Perché, potrebbe dire un palermitano, io che mi sudo sino alla fine il mio magro stipendio, dovrei interessarmi del benessere collettivo se c’è chi guadagna più di centro cinquanta euro per cinque minuti di “lavoro”? Volete dargli torto? Ma è proprio impossibile immaginare che un consigliere comunale di una città come Palermo abbia soltanto un mensile (bastano due mila euro? Sono molto di più di quanto prende un insegnante a fine carriera, il quale non se ne può uscire allegramente dalla classe dopo cinque minuti piantando in asso lezione e alunni) per tutta l’attività che pone in essere sia in aula che nelle commissioni in cui è impegnato? Credo che sia più che possibile e chi può dovrebbe porre in essere delle modifiche normative, in modo che non vi sia quest’oceano di differenze tra chi vive di politica e i comuni mortali. E’ possibile che se faccio il consigliere comunale di una grande città possa prendere solo quanto mi spetta senza che la mia azienda, che magari mi assume miracolosamente un minuto dopo la mia elezione, abbia un solo centesimo? I costi della politica sono davvero un buco nero. Dentro il quale è possibile trovare una buona parte di quello che occorre per sanare i conti.  Basta puntare lo sguardo sulle più di cinquemila società partecipate in mano agli enti locali. Secondo la Corte dei Conti pesano in Italia per 26 miliardi. Realtà che talvolta paghiamo due volte, nel loro normale funzionamento e quando, in crisi, devono essere rimboccate dal pubblico con ulteriori finanziamenti. Ma questo è un tema più complesso. Nell’immediato ci si potrebbe accontentare di superare la filosofia dei “cinque minuti”, ricostruendo un rapporto di parità tra la politica del palazzo e la vita di tutti gli altri. Che giornalmente scorre su altri binari. 

sabato 3 ottobre 2015

Il sud decolla o sprofonda?

La Repubblica Palermo 
02/10/2015 - Pag. 1
Se del sud si parla soltanto nei titoli
Francesco Palazzo

Il titolo della festa nazionale dell’unità sul mezzogiorno, Il sud decolla, era accattivante e in controtendenza. E’ del maggio scorso la rilevazione annuale dell’Istat che, registrando l’aumento dello 0,3 per cento del PIL nel primo trimestre 2015, mostra un paese che sta riemergendo dalla crisi. Ma tutto ciò riguarda il centro nord. Perché il mezzogiorno va giù decisamente con una perdita di mezzo milione di occupati da quando la crisi ha esordito. Al nord, in particolare, il tasso di occupazione è del 64,3 per cento, al sud si arresta al 41,8. Anche rispetto al centro (60,9 per cento di occupati) rimane un baratro. Ma non solo questo. Scrive l’Istat che “le aree del mezzogiorno si caratterizzano per una consolidata condizione di svantaggio legata alle condizioni di salute, alla carenza di servizi, al disagio economico, alle significative disuguaglianze sociali e alla scarsa integrazione degli stranieri residenti”. I dati sono abbastanza chiari: il reddito è più basso del 18 per cento rispetto alla media nazionale (nelle aree con più difficoltà si arriva al 30). Minore reddito significa minori consumi. Infatti, gli abitanti del sud tirano fuori dalle tasche il 70 per cento della media riguardante il centro e il nord. Peraltro, il 28 per cento viene speso in beni alimentari (al centro-nord il 13). Più un sud che decolla, sembra un sud che sprofonda e che da, casomai, qualche segno non decisivo di vitalità. Nel secondo trimestre 2015 si è registrato un incremento nei dati occupazionali del sud, ma si rimane ancora molto distanti dall’area più progredita del paese. Inoltre sono aumentate le vendite sui mercati esteri. Ma ciò non sposta di molto il problema se il segretario nazionale di un sindacato (UIL), a inizio settembre, si mostrava preoccupato per il divario crescente tra nord e sud. Preoccupazione confermata dall’Istat sempre a inizio settembre, visto che, pur con un PIL raddoppiato rispetto a pochi mesi addietro (0,6 per cento), aumentano le differenze territoriali sulla disoccupazione. Perché se al nord la disoccupazione in effetti scende (0,3 per cento), al sud la situazione rimane stabile. Così le differenze aumentano: al nord 7,9 per cento di disoccupati, 10,7 al centro e 20,2 nel mezzogiorno. Mettiamoci pure gli ultimissimi dati ISTAT di questi giorni, con la Sicilia, (22,3 per cento), seconda sola alla Calabria (25,2) per tasso di disoccupazione e con Palermo prima città (dati Svimez) in quanto a fuga verso il nord. Da una festa nazionale sul sud non poteva mancare una lettura attenta di questi dati da parte di esperti. Invece non è accaduto. Assente pure un’analisi approfondita di quello che è lo stato delle mafie che infestano questa parte molto ampia dell’Italia. Nessun confronto tra esperti del settore e magistrati che si occupano della lotta alle mafie. Dicevamo, comunque, che il titolo era accattivante perché ci si aspettava che si mettessero in luce le attività imprenditoriali che nel sud vanno bene, e certamente ve ne sono, e che possono essere prese a modello. Ma anche questo aspetto non è stato trattato. Dal punto di vista politico è mancato del tutto un confronto tra i vari presidenti di regione e tra i sindaci, almeno, delle città capoluogo delle realtà regionali del mezzogiorno.  Insomma, ci si poteva aspettare molto di più, visto che la questione meridionale è ancora sotto gli occhi di tutti e condiziona i numeri di tutto il paese quando deve confrontarsi con gli altri stati dell’Unione Europea. Non basta, allora, il simpatico logo della festa (una lambretta con un’Italia capovolta, la Sicilia e il mezzogiorno che cambiano latitudini e un nord che va sotto), per mutare le cose. Che, invece, vanno capite sino in fondo per fare in modo che questa parte dell’Italia continui a non essere più la palla al piede di tutta la realtà nazionale. Da questo punto di vista sarebbe stato, ad esempio, interessante uno zoom sulle classi dirigenti del sud. Che è sempre stato il vero nodo della questione mezzogiorno. Ma non abbiamo trovato neppure questo. Sarà per la prossima volta. 

mercoledì 23 settembre 2015

L'antimafia del gambero

La Repubblica Palermo
22 9 2015 - Pag. I

Il gioco dell'oca chiamato antimafia

Francesco Palazzo

Sul fronte mafia-antimafia proviamo a ragionare intorno a cinque circostanze. Confindustria Sicilia dilaniata sul fronte antimafia, l’inchiesta sulla gestione dei beni confiscati (sulla quale è eclatante il silenzio della classe politica e della società civile), il processo per la strage di Via D’Amelio in cui si è toppato alla grande. Poi, la mafia che non permette, con ripetuti attentati l’apertura di un pub a Ballarò in locali confiscati, infine interi quartieri dediti allo spaccio di droga, l’ultima operazione alla Zisa, attività cui non può mancare il benestare di Cosa nostra e nella quale il ricambio di persone dedite allo spaccio avviene dopo ogni retata. Cinque quadri diversi tra loro, i primi tre che riguardano la classe dirigente di questa regione, i secondi riguardano le leve mafiose sul territorio, il popolo che si muove nell’interesse e per conto della criminalità organizzata o avendone preventivamente il consenso. Classe dirigente e mafia. Cominciamo da questa. I mafiosi, si sa, fanno il loro lavoro. Controllano il territorio, fanno affari, cercano e trovano rapporti con il mondo di fuori, sia esso politico, economico o sociale. Sono capaci di autorigenerarsi, di cambiare pelle, di mutare nomi e facce. Anche la microcriminalità a essi legata si muove con una certa coerenza. Sta sul territorio, crea enclave quasi inespugnabili, pratica, come dicevamo, un efficace turnover dopo ogni operazione di polizia. Sappiamo poco, al momento, della struttura apicale di Cosa nostra. Secondo la Direzione Investigativa Antimafia, attualmente coesistono un aspetto verticistico e una rigida compartimentazione di molte famiglie mafiose. Sopravvive, quindi, la dimensione verticale e contemporaneamente si registra lo sviluppo orizzontale, quindi parcellizzato, delle varie consorterie mafiose. Anche dal punto di vista del contrasto coesistono due aspetti che pare vadano ognuno per proprio conto. Da una parte la DIA sottolinea l’importanza, ai fini di una reazione che definisce immunitaria contro il potere mafioso, delle tante iniziative a favore della legalità. Dall’altra, rileva, che il legame mafia-corruzione è fortissimo. Sia quando si esplicita nella forma di vincolare le istituzioni e l’apparato burocratico, sia quando si estrinseca nell’inserimento presso il circuito economico sano. La saldatura tra mafia-politica-imprenditoria, rileva ancora la DIA (citiamo la relazione relativa al secondo semestre 2014), punta ad alterare le dinamiche della pubblica amministrazione in favore di un’elite di soggetti. Tra le principali voci attive si evidenzia il racket delle estorsioni. Per ricollegarci al nostro ragionamento e spostarci dalla mafia alla classe dirigente, Cosa nostra – scrive la DIA - è in grado di estendere i propri interessi verso qualsiasi distretto produttivo. Noi aggiungiamo una considerazione abbastanza nota, ossia che la perdita dei beni per un mafioso è ben più grave, perché ne intacca il vero potere, di un’eventuale e anche prolungata permanenza nelle patrie galere. Ecco perché, quando i beni passano allo Stato non è accettabile che il 90% di essi, qualora costituiscano attività imprenditoriali e commerciali, arrivino, nel giro di poco tempo, al fallimento.  Allora, tenuto conto che i mafiosi fanno quello che sanno fare da sempre, e lo fanno bene anche quando, come adesso, non sono proprio nelle migliori condizioni, è la classe dirigente, in ogni posizione dislocata -  imprenditoria sana, tribunali, palazzi di giustizia, società civile, università, chiese, mondo sanitario, istituzioni pubbliche, partiti, associazioni, professioni varie - che deve porre in essere comportamenti limpidi, procedure trasparenti e coerenze inattaccabili. Non applicando i quali la lotta alla mafia si trasforma in una specie di gioco dell’oca. Dove fai quattro passi in avanti e poi sei costretto a farne più di cinquanta indietro tornando all’inizio. Condivido, in tal senso, la parte finale dell’articolo di Enrico Del Mercato del 13 settembre. Chi si occupa di antimafia deve essere più puro di un bambino appena nato. E, se possibile, anche di più. 

sabato 5 settembre 2015

Palermo 2017. Cominciamo a parlarne?

La Repubblica Palermo
3 settembre 2015 - Pag. I

Il silenzio sul futuro di Palermo

Francesco Palazzo

Nel capoluogo siciliano, poiché si è votato nel maggio 2012, si andrà a nuove elezioni esattamente tra ventuno mesi, nella primavera del 2017. Troppo presto per parlarne? Non sappiamo. E’ molto strano comunque il silenzio assoluto che avvolge la città in vista di tale appuntamento. Non andò così per le ultime elezioni. Almeno nel centrosinistra. Già a inizio settembre del 2010, quando dunque c’era lo stesso spazio di tempo che ci separa dalle future elezioni, c’era un certo fermento in giro e si cominciavano a delineare, seppure con mille distinguo, le primarie. C’erano già dei candidati in campo a quella data, il renziano, anche all’epoca, Davide Faraone e Ninni Terminelli. Ma non solo nel PD c’era movimento. Anche Italia dei Valori si era mossa concretamente. Dialogando con un ampio movimento civico palermitano, che puntava al governo della città, composto da dodici associazioni. Anche da parte di Sinistra Ecologia e Libertà c’era stata una risposta positiva alla chiamata al risveglio da parte di Italia dei Valori. Ora non sappiamo se le primarie, visto com’è finita l’ultima volta, con polemiche al vetriolo e la candidatura successiva di Orlando, siano lo strumento giusto da mettere sul tavolo. Ma, al di là dello strumento concreto con il quale poi si arriverà a un nome, quello che sorprende è il silenzio politico che pervade la città. A parlare è soltanto l’amministrazione in carica, poche e scarne notizie ci giungono dal consiglio comunale. Potremmo trovarci di fronte alla replica, mutatis mutandis, di quanto avvenne nel centrosinistra tra il 2000 e il 2001. Quando ci s’incartò sino alla fine nell’individuazione del successore di Orlando, dimessosi perché intenzionato a candidarsi alle regionali, e si consegnò con un plebiscito la città al centrodestra dell’era Cammarata. Questa volta i conquistatori potrebbero essere quelli del Movimento Cinque Stelle, i grillini, che pare godano di un consenso presso l’elettorato siciliano sempre più radicato e motivato. Ma a prescindere da chi poi conquisterà lo scettro di guida della città, che è una cosa di cui potremmo prendere solo atto, sarebbe interessante, oltre che utile, che qualcuno, almeno nel centrosinistra, buttasse una pietra nello stagno e cominciasse a riparlare di Palermo, anche in vista dell’appuntamento elettorale. Ma né dalla cosiddetta società civile, né dai partiti, né dai singoli sentiamo giungere nulla che assomigli a un pur timida volontà di protagonismo. Eppure Palermo avrebbe bisogno, per tanti motivi, non ultimo il fatto che pare una comunità in cerca di una nuova identità, di una rinnovata lettura, di una giovane classe dirigente che possa mettersi in cammino per governare con nuove idee una metropoli che non più identificarsi soltanto con il proprio passato e che non sappiamo cosa potrà diventare in futuro. Il presente quadro politico che l’amministra, che sta cercando di mettere a posto i conti e sta tentando di condurre la città verso mete che le facciano compiere qualche passo in avanti, è fermo, probabilmente, a una gestione dell’esistente. Non riesce a spiccare il volo, sconta anni di amministrazione non proprio virtuosa e non è capace di dare ai palermitani una meta, un sogno, dei veri segnali di cambiamento effettivo che segnino uno scarto deciso rispetto al passato e facciano vedere che si va verso un futuro diverso. Chi potrebbe, ci chiediamo e chiediamo, fare un primo passo, sia esso un singolo, sia una forza politica, sia la cosiddetta società civile, rompere questo silenzio e cominciare pubblicamente a percorrere questi ventuno mesi che ci separano dal voto? Palermo ha bisogno di essere amministrata adesso, e stiamo vedendo che la cosiddetta primavera è ormai consegnata per sempre alla storia che fu, ma ha ancora più bisogno di un percorso che la porti sempre più a essere una città europea. E, per tanti versi, troppi, ancora non lo è. 

venerdì 28 agosto 2015

Palermo, quei muri sporchi e Viale Regione non curato.

La Repubblica Palermo
27 agosto 2015 - Pag. I
Gli inutili acronimi non coprono il degrado
Francesco Palazzo

Non c’è più la GESIP e ora abbiamo la RESET (Rete Servizi Territoriali). Ai cambiamenti di sigle di precari, socioutili e affini siamo abituati ormai da decenni. Quanto nel tempo è cambiato nella sostanza già lo sappiamo. Cosa muterà adesso con questa nuova configurazione societaria lo vedremo. Fermo restando che parliamo sempre di assistenzialismo rivolto verso la parte più debole della società e non di progetti che vedano entrare nelle pubbliche amministrazioni giovani laureati che potrebbero portare competenze, freschezza d’idee e nuova linfa. Tutto ciò mentre non si finisce d’ipotizzare la nascita di nuove sacche di precariato. Andando in un ufficio pubblico comunale, situato a pochi metri del bel ponte bianco sul fiume Oreto, da poco inaugurato, ho visto pareti nere, immortalate in alcune foto, perciò una stanza dentro la quale non è dignitoso accogliere l’utenza. Quanti uffici cui accede il pubblico, di pertinenza del comune, sono in queste condizioni? Il mio accesso presso detto piccolo ufficio decentrato comunale accade perché al momento la sede della seconda circoscrizione, sita a Brancaccio, risulta chiusa per dei lavori. Ma non si può continuare a tenere aperto un ufficio pubblico mentre si realizzano delle opere, a meno che non si stia buttando tutto giù per rifarlo da capo? E comunque, non so di chi sia il compito, operai della RESET o altri, sarebbe il caso di inviare un imbianchino per rendere quelle pareti pulite e quella stanza un minimo vivibile. La zona, peraltro, visto che a pochi passi sorge il Ponte dell’Ammiraglio, è dentro il percorso arabo-normanno che è appena divenuto patrimonio dell’umanità. Ma ciò è secondario, i muri degli uffici pubblici non dovrebbero ridursi in questo stato in nessun luogo che sia di pertinenza dell’amministrazione comunale palermitana. Tornando, poi, la stessa mattina al centro città, imbocco Viale Regione Siciliana dalla fine dell’autostrada Palermo-Catania per uscire quasi all’imbocco della Palermo-Trapani-Mazara del Vallo. Ebbene, solito spettacolo. Questo lungo anello, taglia di fatto in due la città, e che è il biglietto d’ingresso a Palermo, è sostanzialmente abbandonato a se stesso. Erbacce ovunque, alberi e piante non curati, aghi di pino disseminati lungo tutti i bordi della strada, detriti che volano giù dai finestrini delle auto che stazionano per settimane. Insomma, davvero una bella presentazione per chi entra nel capoluogo siciliano. E non è una cosa degli ultimi tempi, sono anni che va avanti così. Non sappiamo se la RAP (ex AMIA), la RESET (ex GESIP) o altre sigle presenti o future dovrebbero occuparsi della pulizia di tale lungo e principale tratto viario. Ma è chiaro che non è decoroso lasciare Viale Regione Siciliana in queste condizioni. Tutte queste cose, piccole o grandi che siano, ti stridono dentro quando capita, nel periodo estivo, di essere reduce dalla visita in qualche capitale europea. Dove il dibattito non si svolge attorno alle trazzere regie, all’immondizia che non si raccoglie, ai precari che vengono passati da un contenitore a un altro. A Oslo hanno realizzato negli ultimi anni, vicino alla zona portuale, un maestoso, portentoso, panoramicissimo e architettonicamente modernissimo teatro lirico. Come dire, una città che guarda avanti e che non mira a rimescolare solo il proprio passato, visto che già avranno avuto un teatro lirico in funzione. A Copenaghen, oltre le migliaia di biciclette che vedi posteggiate ovunque, trovi stazioni di bici elettriche che puoi affittare e farti un bel giro della città. Da noi il bike sharing inizierà tra qualche mese. Ma sulle piste ciclabili siamo ancora all’alba. In questo caso si sta andando molto stranamente al contrario. Prima le bici e poi le strade. Vedremo dove viaggeranno le 420 bici che il comune metterà in campo e le altre dei privati. 

giovedì 6 agosto 2015

Sicilia: trazzera Borbonica e dintorni.

La Repubblica Palermo 
6 Agosto 2015 - Pag. I

Non basta la trazzera a fare uscire la Sicilia dal tunnel

Francesco Palazzo

La politica siciliana, al momento, gira attorno ai lavori realizzati su una trazzera regia. Che farà risparmiare qualcosa in termini di tempo (sedici minuti ha documentato Repubblica) dopo il cedimento del viadotto Himera, avvenuto nel mese di aprile. Questo è un fatto. Sul breve tratto di strada inaugurato e voluto dai grillini si è già detto, in rete e sui giornali, praticamente di tutto. Dagli elogi più sperticati alle critiche più severe. Due aspetti coniugati sempre all’insegna dell’esagerazione, che noi siculi mai ci facciamo mancare. Difficile stabilire, per uno che non ne capisce un’acca su tale argomento, qualcosa sui vari aspetti tecnici che sono stati sollevati, pro e contro, dagli esperti del settore. Ma non è questo il nostro compito. Dobbiamo soltanto prendere atto che quattordici deputati siciliani, non gravando sulle casse pubbliche, ma piuttosto mettendo mano ai portafogli privati, hanno permesso la realizzazione, in tempi rapidissimi, di un pezzo di strada. Questo è un fatto, e prescinde dalle varie, e pur significative e accreditate, opinioni sull’opera realizzata. E’ la prima volta che accade in Sicilia una cosa del genere. Cioè che dei rappresentanti del popolo utilizzino parte dei loro emolumenti per fare qualcosa. C’è un’altra prima volta che proviene dal parlamento siciliano, un deputato, Fabrizio Ferrandelli, si è dimesso perché crede che ormai la legislatura sia alla frutta, rinunciando allo stipendio da parlamentare, che non è proprio da fame, per i restanti due anni abbondanti che mancano alla fine del mandato quinquennale. Ed anche questo è un fatto, sul quale si possono esprimere tutte le valutazioni di questo mondo, ma ciò non sposta di una virgola l’inedito gesto del giovane deputato democratico. Che ha inaugurato un percorso politico chiamando in causa i coraggiosi che vogliono lavorare per una nuova Sicilia. Come mettere insieme i due aspetti, ricordando che lo SVIMEZ, ed anche questo è un fatto, ha impietosamente descritto la situazione drammatica in cui si trova tutto il mezzogiorno, Sicilia ovviamente, e per prima, compresa? Può una trazzera regia smuovere di un solo millimetro la pesante situazione sociale ed economica siciliana? Arduo dare una risposta positiva. Lo sanno per primi i grillini. Ai giovani con lauree e specializzazioni in tasca, la cui formazione c’è costata e ci costa un patrimonio, che vanno via per trovare il giusto riconoscimento ai loro meriti, visto che da noi il merito viene in coda a tutto, servirebbero velocità, tessuti sociali, umani e politici d’eccellenza, che riconoscano e utilizzino i loro saperi. A loro la trazzera proveniente dai Borboni serve a ben poco. Forse può fare vincere le prossime elezioni, ma serve tutt’altro per fornire alle giovani generazioni quanto serve per sovvertire le sorti, a oggi nere, di questa terra. E quest’altro ancora non si vede o non si ha la forza della normalità per metterlo in campo. E qui torniamo alle dimissioni di Ferrandelli, che vanno apprezzate perché parlano il linguaggio della sincerità e rinunciano a una posizione personale di grande rilievo qual è quella di parlamentare regionale. Lui adesso chiama a raccolta i coraggiosi per elaborare delle azioni coraggiose per cambiare la Sicilia. Può essere che riesca nel suo intento. Ma quello di cui la Sicilia, i giovani e le giovani siciliani soprattutto, avrebbe innanzitutto bisogno è una “noiosa e duratura normalità amministrativa”, che ci allinei con le regioni più avanzate del paese, che crei lavoro, che dia la possibilità ai cervelli di rimanere. Che provi a sovvertire le nere constatazioni degli istituti di ricerca. Di questo abbiamo bisogno. Troveremo anche il coraggio di percorrere la ormai celebre e utile trazzera. Che per il momento serve a qualcosa, non c’è dubbio. Per domani e per il futuro di questa terra, per i ragazzi che crescono, per i lavoratori che cercano o perdono il lavoro, servirà tutt’altro che una strada stretta.

venerdì 31 luglio 2015

Posteggiatori abusivi: Il pizzo che si paga senza problemi.

Repubblica Palermo 
30 luglio 2015
Pag. I
La dittatura dei posteggiatori
Francesco Palazzo

Sul fronte posteggiatori abusivi, abbiamo appena registrato la protesta degli stessi perché all’Ospedale Cervello di Palermo si è deciso di far pagare il parcheggio, assicurando alla struttura ospedaliera un canone superiore al milione di euro in cinque anni. Novecento posti auto che non andranno più ad alimentare le tasche di quanti pretendono di guadagnarci sin dentro un nosocomio, ma quelle di una struttura pubblica. Ora, capiamo lo “sdegno” degli abusivi, ma non abbiamo compreso, al di là dei piccoli disagi iniziali, la protesta degli altri. Avete mai sentito di ribellioni quando nel grande piazzale suddetto si doveva dare l’obolo ai parcheggiatori “proprietari” del suolo?  In questa città, quando si converge verso la legalità, guadagnandoci pure, ecco che sorgono le invettive. Prima avevo un atteggiamento di contesa con questa gente, che non è messa lì per caso, ma deve farsi autorizzare dalla “ditta” che ha il controllo del territorio, ossia Cosa nostra. Ora, faccio semplicemente finta di non vederli. Pago, se la sosta è a pagamento, nelle macchinette o acquistando i tagliandi, oppure lasciando l’auto se la sosta è libera, imponendomi di non sentire la frase “duttù, u cafè nu pighiamu uora o dopo?”. L’altro giorno, zona Politeama, un panormosauro imponente, vedendo che sto pagando alla macchinetta, mi dice di stare tranquillo, di non farlo, ci avrebbe pensato lui. Rispondo che sono tranquillo, preferisco pagare ciò che devo e che si tranquillizzi pure lui. Capisce l’antifona e corre verso altre auto, sapendo che qualcosa, pur trattandosi di zone blu al centro città, racimolerà. Perché a Palermo coloro che pagano questo pizzo all’aria aperta sono in tantissimi e lo fanno senza fiatare. Sino a quando, ovviamente, non c’è che da prendersela con il muro basso di una pubblica istituzione che decide di cambiare radicalmente questo stato di cose. A quel punto il coraggio dell’invettiva si trova. Del resto, lo vedo ogni giorno in zona residenziale, con questa gente, che subappalta nelle ore serali le zone di’influenza a extracomunitari, molta classe dirigente socializza alla grande, paga, sorride, ricambia il saluto, che è come riconoscere la signoria territoriale a chi non ha nessun titolo per esercitarla, se non la violenza che può mettere in atto contro il tuo mezzo. E’ questa paura che va superata, perché se fossero sempre di più quelli che non pagano, il fenomeno si eliminerebbe da solo. Ovviamente, occorre che l’esempio sia dato anche da chi rappresenta le forze dell’ordine. Un piccolo esempio. Nelle adiacenze di un bar del centro residenziale, ogni mattina, si creano sino a tre strati di macchine che formano una pericolosa barriera di lamiere in prossimità di una curva obbligata. Ebbene, sovente è possibile scorgere pure auto pubbliche adagiate sull'asfalto, diciamo così, in maniera creativa. Un giorno faccio notare la cosa a un agente. “Guardi che quelle macchine messe in quel modo sono pericolose”. Fa un cenno al gentile posteggiatore di farle spostare. Insisto. “Guardi che quello è un parcheggiatore abusivo”. Risposta. “Non mi dica niente, stendiamo un velo pietoso”. Una possibilità di mostrare che cambiare si può, potrebbe essere messa in mostra durante le partite del Palermo. I dintorni del Barbera si riempiono di posteggiatori abusivi che stanno a pochi passi dalle forze dell’ordine. Non si potrebbe tentare, lo diciamo a prefetto, sindaco e questore, dal prossimo anno una vigilanza “pubblica” dei mezzi lasciati dai tifosi che si recano a vedere la partita? Non si stratta di un territorio sterminato. Chissà se assisteremo mai a un miracolo del genere. Intanto, proprio a pochi metri e sin dentro il glorificato percorso arabo-normanno, uno lo abbiamo visto l’altra sera esattamente a ridosso di S. Giovanni degli Eremiti, i posteggiatori abusivi, forse anche loro promossi a patrimonio dell’umanità, continuano a imperversare. 

domenica 19 luglio 2015

Lotta alla mafia: ripartiamo dalle periferie.

Repubblica Palermo 
17 luglio 2015 - Pag. I
Un nuovo inizio senza carrierismi
Francesco Palazzo


La mafia dentro l’antimafia, l’antimafia dentro la mafia, l’antimafia per fare carriera, i proclami sulla legalità che nascondono atteggiamenti contrari, l’antimafia come metallo non più coniabile. Niente di nuovo sotto il sole. Da quando esiste la mafia vivono anche queste eterne querelle. Si giunge così a questo 19 luglio 2015. Che sia un passo indietro o l’uscita necessaria per andare altrove ce lo dirà il tempo. Sembra, intanto, che la profezia di Sciascia sui professionisti dell’antimafia, che nel 1987 infiammò il dibattito pubblico, sia ormai moneta corrente. Pare che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, anche loro accusati, sappiamo quanto ingiustamente, di carrierismo da vivi, per farne eroi da morti, non pronunciarono mai il termine antimafia. Anche se al loro tempo, quando ancora qualcuno diceva che la mafia non esisteva quel suffisso, anti, poteva avere un senso. Oggi non l’ha più quel senso? Difficile rispondere alla domanda. Sulla lapide di San Domenico, sotto la quale giace da alcune settimane il corpo di Falcone, c’è scritto “eroe della lotta alla mafia”, che si può tradurre “eroe dell’antimafia”. Mettiamo da parte una domanda cui, al momento, non sappiamo rispondere. Forse quello che può dare fastidio, sono le parate istituzionali che nei giorni delle due ricorrenze principali, il 23 maggio e il 19 luglio, e già qui c’è una graduatoria di fatto rispetto alle altre vittime, si sciorinano nei due luoghi simbolo, l’Albero Falcone e Via D’Amelio. Ma insieme con esse, lo sappiamo, ci sono centinaia, migliaia di persone per le quali l’essere in quei luoghi ha il senso di una testimonianza civile, di una rinnovata memoria, di un tentativo di sottrarre tutto all’oblio. Ma poi si dice un’altra cosa. La lotta alle mafie è fare ogni giorno il proprio dovere, nei luoghi in cui ci si trova, contro le prepotenze, gli intrighi, le corruzioni, contro il malaffare che ci si presenta davanti. Questo il senso che la famiglia Borsellino vuole dare all’assenza di quest’anno da via D’Amelio. E non si può che essere d’accordo con questa declinazione del proprio impegno personale, che non ha bisogno di fanfare, lustrini e parole roboanti. Tuttavia, in questa vicenda c’è anche un aspetto collettivo, corale, di popolo, da salvaguardare. Cosi mi pare. Magari non coincide con le navi della legalità o con i cortei che giungono in Via D’Amelio, né con le rappresentazioni che in quel luogo si svolgono nei dintorni del 19 luglio. Ma le mafie, nel loro agire, sono sì legate alle male azioni dei singoli, ma sono anche un fatto collettivo, di sistema, strutturale, di lungo periodo. Quindi, oltre l’impegno personale e privato, primario e importantissimo, occorre che contro di esse si agisca come sistema che ha altri valori e altri scopi. Non la vogliamo chiamare antimafia? Il problema è relativo, i nomi contano sino a un certo punto. Tuttavia, quello che ci sta dietro importa eccome. E allora la si potrebbe mettere più o meno così. Almeno provarci. Ogni anno si potrebbero scegliere più periferie, luoghi spesso abbandonati e dove forse il discrimine tra mafia e antimafia può essere meno evanescente di quello consunto che si celebra nel salotto cittadino. Andare lì a manifestare e contemporaneamente, e in primo luogo, dare vita a strutture pubbliche, collettive, che rimangano, in cui la politica, il volontariato locale e il movimento anti quello che volete provino a lasciare segni concreti da curare e salvaguardare nel tempo. Può essere un nuovo inizio. Che non elimina i rischi del carrierismo, delle ambiguità, delle parole che nascondono azioni contrarie. Dobbiamo, però, sapere, questo ce lo dice una lunga storia, che la mafia, proprio per non essere una forma semplice di criminalità, ma un sistema che ha rapporti duraturi e bilaterali con politica, economia e società, non è semplice da affrontare. Possiamo pure eliminare la parola anti. Ma le mafie rimangono e per essere spazzate via richiedono una duplice azione: personale e collettiva. 

mercoledì 8 luglio 2015

Chiesa e democrazia: come si potrebbe eleggere un cardinale.

La Repubblica Palermo

7 luglio 2015
SE IL VESCOVO FOSSE SCELTO DAI FEDELI
                                                                   Francesco Palazzo


L'UNIVERSITÀ di Palermo, chiamando a raccolta 2.559 elettori, ha un nuovo rettore. Un esercizio di democrazia che darà forza e autorevolezza, anche per il grande consenso raccolto alla nuova guida dell'Ateneo palermitano. C'è un'altra istituzione, la diocesi di Palermo, che, dopo le dimissioni per limiti di età dell'attuale arcivescovo Paolo Romeo, attende da tempo l'indicazione del nuovo pastore della Chiesa. Non sappiamo che tipo di riforma e con quali tempi si potrebbe configurare una situazione in cui una platea di sacerdoti, religiosi e religiose, laici che hanno incarichi nelle parrocchie, diaconi, ministri straordinari dell'eucaristia, catechisti e catechiste, capi di gruppi scout presenti in vari contesti parrocchiali, rappresentanti di parrocchie e altre figure interne alla gerarchia ecclesiastica palermitana, possano eleggere da una rosa di nomi, proposti da Roma, almeno tre, di cui uno espressione della Chiesa locale, il loro capo spirituale. L'attuale Pontefice ci sta abituando a tante novità teoriche e pratiche su diversi campi. In questo settore, peraltro, non ci sarebbe da inventarsi nulla di nuovo. Né dal punto di vista della prassi né da quello teologico. Nella Chiesa delle origini il vescovo era eletto dal clero e dal popolo. Non si tratterebbe di consentire a chiunque di partecipare alle elezioni: l'elettorato attivo sarebbe composto soltanto da alcune migliaia di votanti che vivono, con diversi carismi e funzioni, la realtà ecclesiale di determinati contesti geografici, sociali e pastorali. Spesso dai pulpiti delle cattedrali si ascoltano condivisibili critiche, da parte di vescovi e cardinali, nei confronti del potere civile eletto nelle istituzioni che talvolta, e in Sicilia spesso, non fa il proprio dovere di amministratore oculato ed efficiente. Ma ci si dimentica in questi casi che, pur proferendo parole di vera e viva preoccupazione verso le comunità civili, si considera il proprio essere immersi nel mondo e nella società come un qualcosa di distaccato, che non è tenuto a rispettare neppure l'elementare regola della democrazia interna nella scelta dei vertici delle diocesi. Conosciamo le obiezioni principali a questa proposta. La prima è che la fase elettorale tende a essere divisiva e che la Chiesa deve conservare, apparentemente, l'unità attraverso una scelta proveniente dall'alto. Sennonché le divisioni all'interno delle varie comunità diocesane, e persino parrocchiali, sono all'ordine del giorno. Spesso si alimentano di dicerie e anonimi che confermano l'esistenza di un universo frammentato di fatto. La scelta dal basso comunque avrebbe il timbro di un corpo elettorale che potrebbe rafforzarsi e trovare unità praticando un metodo condiviso e inclusivo, rispettando poi l'esito della consultazione. Una seconda obiezione è che questa pratica sarebbe uno scimmiottamento della politica, dove non sempre gli eletti sono i migliori, sia dal punto di vista dello spessore umano e morale che da quello professionale e operativo. Questo può rispondere talvolta a verità. Ma sarebbe un buon motivo per sospendere i procedimenti elettorali e accettare nominati dall'alto a tutti i ruoli di vertice, solo per scongiurare il rischio che i peggiori abbiano la meglio sui migliori? E poi chi lo dice che un nominato, seppure dal soglio papale, sia più adeguato di un eletto? Insomma, questo papato potrebbe (re)introdurre, anche in tempi non necessariamente lunghi, una pratica di questo tipo. Darebbe un ruolo non di mero esecutore a un vasto potenziale elettorato cattolico e avvicinerebbe, in un frammento cruciale, la democrazia praticata, e anche rischiosa, le istituzioni civili e quelle religiose. E renderebbe anche più credibili le critiche che spesso i principi della Chiesa svolgono nei confronti degli amministratori della cosa pubblica.

lunedì 23 febbraio 2015

Il giovane medico, quel calcio nella notte e Palermo.

La Repubblica Palermo - Pag. I
Venerdì 20 Febbraio 2015
Il dramma di una città nella guerra fra tribù
Francesco Palazzo



Della vicenda del giovane medico morto a 25 anni a Palermo per un gesto assurdo, sul quale è persino inutile cercare la definizione più appropriata che possa descriverne la ferocia, mi ha colpito la lucidità del padre, un uomo delle forze dell’ordine, durante la fiaccolata in ricordo del figlio Aldo. Si augura che la sua morte possa in qualche modo fare da campanello d’allarme e interrogare tutti, dando risposte nell'ambito della legalità, perché certi fatti non accadano più. Pur sapendo, tuttavia, che nessuno può in assoluto scongiurare la violenza del singolo, è nostro compito accettare questo invito di un genitore il quale, pur nel momento di uno sterminato dolore, prova a indicare un percorso di riflessione che porti a concreti cambiamenti. L’omicidio del giovane Naro è accaduto a Palermo, in una zona ai margini della città, dove politiche abitative e urbanistiche dissennate hanno creato delle zone dl’illegalità oramai vissuta a cielo aperto. Sia chiaro, non si vuole fare del facile sociologismo. La responsabilità penale è personale e niente giustifica un accadimento di questo tipo. Ma proviamo a ragionare, sulla scia del genitore di Aldo. Dunque, Palermo. Una città che da parecchio tempo non è più una comunità in cui tutti i suoi membri si riconoscono in un comune percorso. E’, è tornata ad essere, un insieme di tribù, di pezzi che non riescono a dialogare, dunque un mosaico fatto di non luoghi, che siano centrali e periferici. Ad un certo punto, tra una luce psichedelica e una consumazione, spunta il calcio feroce che chiude una vita che voleva dedicarsi ad altre vite. Siamo così sicuri che possiamo tutti girare la faccia dall'altra parte come se fosse un alieno e non un abitante di questa città colui che l’ha sferrato? Se lo guardassimo come uno diverso da noi, non potremmo che attendere il prossimo calcio, o colpo di bottiglia in testa o coltellata nell'addome. Se, invece, almeno in una parte della nostra mente comincia a farsi spazio il ragionamento sul futuro che ci propone il padre di Aldo, dobbiamo ammettere che ciascun gesto, dal più bello e nobile, al più infame e sporco, ci pone domande su quanto abbiamo fatto di positivo nel primo caso e di negativo nel secondo in termini di indifferenza e distrazione. Non comprendendo che se insieme non costruiamo la città della convivenza e del rispetto, prima o poi arriva un calcio nella notte che ci fa annaspare e non comprendere più quello che siamo e dove viviamo. Che la giustizia faccia il suo corso, ma non possiamo accontentarci. Così come sarebbe facile il gioco dello scaricare ad altri responsabilità che certamente hanno, chiedendo tutto alle istituzioni. No, qui occorre fare un passaggio ulteriore, e parlare di cittadinanza. Quante volte ci si gira la testa dall'altra parte, come cittadini e cittadine, osservando e quasi inciampando nelle tante illegalità che misuriamo a vista o contribuiamo a creare nella nostra città? Una comunità, Palermo, dove il rispetto delle regole civiche e di convivenza riguarda sempre l’altro, l’altra, il prossimo, preferibilmente sporco brutto e cattivo, che così possiamo gestire meglio il nostro vivere quotidiano guardando dall'alto della nostra torre l’alieno, il delinquente, l’altro da noi. E dimenticare che l’altro, quello che lascia a terra, mentre la musica impazza, una vita, fa parte di un modo d’essere e di vivere che ci può essere completamente distante nella misura in cui ci accontentiamo di rimanere con le mani in mano e il viso contratto dall'orrore. Ma facendo così, come teme il papà di Aldo, questa morte servirà a poco. E non vogliamo che sia così. Nel 2017 in questa dolorosa e bellissima città si tornerà a votare. Mancano due anni. I partiti, in prossimità della scadenza elettorale, faranno la loro parte e non cominceranno certo a scaldarsi i muscoli adesso. Può farlo, invece, un cospicuo gruppo di persone che volesse, da oggi, cominciare a percorrere Palermo in lungo e in largo, ricapirla, vedere cosa è adesso questo grosso gigante adagiato sul mare, mettere insieme, rivitalizzare, creare, in ogni angolo del capoluogo, percorsi di vera cittadinanza, ingrossare le fila e poi proporre alla città un percorso che arrivi, perché no, al Palazzo di Città nel 2017. Ciò magari non ci garantirà in assoluto che quel calcio nella notte non partirà più per sempre. Ma ci permetterà almeno di provare a risentirci una comunità vera. In cui sarà più facile che due ragazzi, pur venendo da mondi diversi, finiscano la serata prendendo un drink al bar. Senza che l’uno spenga per sempre l’altro, spegnendo pure se stesso.