La Repubblica Palermo - 21 ottobre 2020
L’antimafia proclamata dalla Chiesa non sempre arriva
nelle parrocchie
Francesco Palazzo
Quest’anno siamo a
27 anni dall’uccisione per mano mafiosa di don Pino Puglisi. Oggi viene
festeggiato nel calendario liturgico della Chiesa cattolica. È la ricorrenza
del suo battesimo, avvenuto nella chiesa di Santa Maria della Pietà alla Kalsa.
Quel colpo di pistola alla nuca del 15 settembre 1993, che per gli uomini del
disonore voleva significare la parola fine a una parabola umana e pastorale (le
donne, anche trovandosi dentro meccanismi criminali, difficilmente
ricorrerebbero all’eliminazione delle persone), ha invece dato l’avvio a
sentieri di consapevolezza. Pieni di parole e sentimenti profondi, documenti
pregnanti, momenti importantissimi, come la beatificazione del 2013 e la visita
di papa Francesco del 2018. In questi giorni nel nome di "3P" l’arcidiocesi
ha espresso vicinanza agli imprenditori che hanno denunciato le richieste di
pizzo al Borgo Vecchio. La cornice di riferimento, al seguito del sacerdote
ucciso da Cosa nostra, è dunque abbastanza delineata. Ma cosa c’è dentro? Abbiamo
linee di riflessione e d’intervento comuni a tutte le parrocchie, non soltanto
palermitane, che seguano le orme di Puglisi? Oppure tutto viene lasciato alle
sensibilità di parroci e fedeli? C’è differenza tra una contrapposizione alla
mafia che avvenga nei piani alti e rimanga intrappolata nei documenti e nelle
omelie dei vescovi e un contrasto che invece si sposti sui singoli territori
parrocchiali. Don Pino non muore perché si diletta sui massimi sistemi
antimafia, sarebbe ancora vivo e vegeto. Ma in quanto svolge sino in fondo il
proprio compito in quel fazzoletto di territorio nel quale era stato mandato,
Brancaccio, ma probabilmente allo stesso drammatico epilogo si sarebbe giunti
pure altrove. Il punto è che non basta dire che i boss sono scomunicati o
che il messaggio evangelico è incompatibile con loro. Ciò, ammesso che si
riesca nell’intento, prova a sbarrare le porte d’ingresso dei luoghi di culto
agli esponenti del crimine. Ma non elimina il problema che permane nei
territori in cui insistono gli ambiti parrocchiali. Ci vuole un metodo, da
applicare in tutte le parrocchie, per provarci in maniera significativa ed
efficace. Senza che dipenda dagli umori e dal coraggio dei singoli. Così come
si fanno battesimi, prime comunioni, cresime e matrimoni, si dovrebbe mettere
in campo un programma. Perché, lo abbiamo visto con Puglisi, non applicare in
massa tale ragionamento, porta all’isolamento. Se nel 1993 tutte le parrocchie
si fossero mosse come quella di don Pino, lui non sarebbe diventato un
bersaglio. Siamo ancora a quella fase? Più o meno sì. Allora perché non
provarci, davvero, a seguire Puglisi? Avanzo alcune proposte. Si può partire da
un’analisi socio-economica di ogni singolo territorio parrocchiale. È ciò che
ha fatto Puglisi. Poi si dovrebbero avere rapporti stabili con cittadini,
organizzati o meno, che perseguano diritti e servizi per tutti. Don Pino ha
dato fastidio per questa sua azione sociale e politica. Inoltre si dovrebbe
promuovere la creazione di centri sociali legati strettamente alle parrocchie,
che servano a creare promozione umana e cittadinanze mature e non a drenare
risorse pubbliche limitandosi alla carità. Questo fu il nocciolo dei tre anni
del parroco di San Gaetano. Si dovrebbero aggiungere approfondimenti sulle
storie delle mafie e sui loro legami con le istituzioni, la politica, la
società, borghese e popolare, attraverso incontri con esperti. Cercando di
arrivare sin dentro le celebrazioni eucaristiche. Destinando, ad esempio, una
volta al mese, il ricavato delle offerte alle vittime del racket delle
estorsioni. Fonte considerevole delle entrate dei sodalizi mafiosi. Se non si
fa questa operazione di riempimento della cornice di cui si parlava all’inizio,
Puglisi sarà un santino e non uno che indica un cammino che si può e si deve
percorrere, con un’agenda precisa, in tutte le comunità parrocchiali.