La Repubblica Palermo – 1 agosto 2020
Un manifesto davanti a tutte le chiese per
rilanciare l’antimafia senza retorica
Francesco Palazzo
L’antimafia dev’essere ripensata? Sì, nel profondo. L’argomento non è nuovo. E riguarda una minoranza di soggetti e realtà associative. Ci sono tantissime persone le quali, pur non avendo nulla a che fare con le mafie e ad esse contrapponendosi, non vanno alle commemorazioni e non vivono la militanza. Sfuggendo ai vizi ad essa talvolta connessi, che vanno uniti ai meriti. Occorre circostanziare analisi e proposte, evitando di far coincidere una piccola parte col tutto. Dobbiamo tenerci il prezioso bambino della memoria, fatta di storie, luoghi, e verità ancora negate, continuando ad aggiungere studi aggiornati e azioni sempre più specifiche, ed eliminare l’acqua sporca di un’antimafia inzuppata di retorica, personalismi e mere celebrazioni. Anche perché ad alto rischio infiltrazioni. Le persone, e il coraggio che ci hanno messo, rimangono punti di riferimento. Dobbiamo fare in modo che resistano alle postume debolezze umane, senza però ritenere che si ricominci ogni volta da capo e senza porsi come quelli che hanno in mano le dieci tavole della legge. Tenendo presente che in moltissimi casi il dopo non conosce problematiche particolari. Come quello del pastore della Chiesa valdese Pietro Valdo Panascia. La circostanza che gli sia stato dedicato, il 5 luglio, a tredici anni dalla scomparsa, un tratto di via Isidoro La Lumia, a due passi dal bel tempio valdese, ci consente di riflettere su due versanti del suo operato. Durante il periodo in cui fu pastore, dal 1956 al 1970, rese la sua Chiesa autonoma, l’unica da Roma in giù in grado di eleggersi il pastore. Quello che in questo mese s’insedia in via dello Spezio è stato votato dai credenti. Nei primi secoli del cristianesimo i vescovi e i diaconi erano scelti dai fedeli. Non è una cosa slegata dalla lotta alla criminalità. Dove c’è condivisione e democrazia, il percorso di contrasto non bacato ha più possibilità di attecchire. L’altro aspetto che ha reso Panascia riconoscibile, in ambito non soltanto locale, visto che della vicenda si interessò Paolo VI, è il manifesto, apparso all’alba del 7 luglio 1963 (una copia si trova dentro il luogo di culto), contro la violenza mafiosa, firmato dalla comunità valdese. Condannava l’uccisione di nove uomini in due attentati commessi il 30 giugno, tra cui sette rappresentanti delle forze dell’ordine, caduti a Ciaculli nello scoppio di una Giulietta piena di tritolo. Rimandava all’importanza della vita, chiedeva provvedimenti, trasmetteva solidarietà alle vittime e faceva un forte richiamo a non uccidere. Era, 41 anni prima, anche per il bianco e il nero, un appello alla dignità di tutti che nel 2004 utilizzerà Addiopizzo. Attaccando in una notte di fine giugno degli adesivi per spingerci a lottare contro le estorsioni di Cosa nostra. L’ecatombe di Ciaculli costituì l’apice della prima guerra di mafia. Vi fu sdegno, lo Stato intervenne e la mafia entrò in crisi. Ma non vennero inflitte condanne significative, come quelle del maxiprocesso degli anni Ottanta contro gli esponenti della seconda guerra di mafia. Le cosche vissero da protagoniste gli anni Settanta e Ottanta sino al periodo stragista. La domanda è la seguente. Servirebbe, oggi, un manifesto, questa volta firmato da tutte le comunità dei credenti, contro la mafia? Sì, ci sono i documenti. Ma a quanti arrivano? Il fatto che quel foglio di 57 anni fa, e non i tanti scritti ecclesiali contro Cosa nostra, abbia avuto un’eco così duratura, sta a significare che il metodo è giusto. Con una mafia che ancora ha consensi trasversali in tutte le fasce sociali, un manifesto in pianta stabile all’ingresso di tutte le chiese, che indicasse pure comportamenti quotidiani, sarebbe di sicuro effetto. Nel nome di Panascia. Ma soprattutto avendo presente i nostri giorni. Nel discorso alla città per il non-Festino 2020, l’arcivescovo Lorefice ha lanciato un allarme a proposito di una mafia che potrebbe tornare protagonista. Insieme a Rosalia tutti i protettori e le protettrici delle nostre polis ci guardano beati. Il resto dipende da noi. Anche la continuazione della costruzione di una diffusa, popolare e non elitaria antimafia. Che costituisca sempre più un’altra forte gamba, autonoma e sana, in aggiunta a quella della magistratura e delle forze dell’ordine.