venerdì 28 settembre 2018

Beni confiscati alle mafie: fallimenti e parole.


La Repubblica Palermo 27 settembre 2018

BENI CONFISCATI  I  RITARDI  E  GLI  ALLARMI
Francesco Palazzo


Togliere le ricchezze alle mafie, che fondano il loro potere su di esse, è l’ambito, più degli altri, dove bisogna agire. Lo abbiamo capito tardi, dopo più di 120 anni se contiamo dall’unità d’Italia, visto che la legge La Torre, che individua il reato di mafia e prevede le confische, è del 1982. Fece talmente paura ai mafiosi che il leader comunista fu ucciso principalmente per questo. Il punto è che la destinazione sociale dei beni sottratti alle cosche e il destino delle imprese un tempo mafiose, molto presenti in Sicilia con 5.946 immobili e 945 aziende, numeri forniti ieri da Repubblica, sono fallimentari. Qui l’antimafia doveva vigilare con azioni decise e costanti. Invece silenzi misti a bisbigli. Da un lato ha fatto passi falsi, dall’altro si limita alle commemorazioni. Ora, dibattito non nuovo, si parla di vendita. E si grida, come sempre, al lupo al lupo, temendo riappropriazioni delle famiglie mafiose. Ma anziché lanciare allarmi a puntate, l’antimafia associativa deve, una volta per tutte e unitariamente, cambiare passo su tale aspetto fondamentale nella lotta a Cosa nostra.

mercoledì 19 settembre 2018

Papa Francesco e Padre Puglisi tra populismo, conversione e antimafia.


La Repubblica Palermo
19 settembre 2018
LA CONVERSIONE DEGLI INDIFFERENTI
Francesco Palazzo

Ora che l’entusiasmo per una giornata particolare si è posato sulla quotidianità, torniamo su alcuni messaggi lanciati dal Papa. Facciamolo guardando don Puglisi, riferimento della visita. Partiamo dall’uso del termine populismo, fatto al Foro Italico durante l’omelia. Si indica un populismo cristiano al servizio del popolo, senza grida, accuse e contese. Il populismo è arnese delicato. Ce ne sono modelli virtuosi? Può essere. Ma non dimentichiamo che Puglisi, a Brancaccio, non liscia il gatto per il verso del pelo. È un segno di contraddizione. Grida, anche dal pulpito negli ultimi tempi, accusa i mafiosi, suscita contese, pure in parrocchia, dove trova contrapposizioni. Arriva in solitudine a quel colpo di pistola alla nuca. Più che col populismo si pone come il Gesù dei Vangeli. Sferza la sua gente, la mette di fronte a se stessa, non ne asseconda ogni tendenza. Un altro tema lanciato da Francesco è quello della conversione rivolta ai mafiosi. In cattedrale però, davanti ai suoi, affronta, parlando della religiosità popolare contaminata talvolta di mafiosità, il vero tema. Che è quello del «convertiamoci » più che del « convertitevi » . È un aspetto che andrebbe declinato meglio, visto che è l’ambito decisivo nella lotta alle cosche. I mafiosi che in questi ultimi decenni si sono pentiti non sono pochi. Più difficile il ravvedimento dei non mafiosi. Il « convertiamoci » vuol dire rendersi conto che, se la criminalità organizzata ha toccato sino a oggi tre secoli, il problema — più che dai mafiosi da redimere — è costituito dai non mafiosi. Quasi sempre battezzati. E che hanno permesso tutto ciò, fatte le dovute eccezioni, con l’indifferenza o una larvata connivenza. Il «Se ognuno fa qualcosa allora si può fare molto » del beato, la cui eredità è difficile da raccogliere, va proprio nella direzione del « cominciamo a convertirci noi » . A 25 anni dalla scomparsa di Puglisi, è consapevolezza di pochi nella Chiesa. Un altro spunto proveniente dal Pontefice è l’ormai abusata affermazione su padre Pino prete non antimafioso. Sì, non faceva certo retorica o proclami a vanvera. Ma è stato ucciso per la frontale contrapposizione alla mafia, dall’altare e sul territorio. E quando diciamo che le manifestazioni e gli appelli antimafia non servono più, ricordiamoci che Puglisi va allo scontro finale con la mafia del rione promuovendo, a maggio e a luglio del 1993, a Brancaccio e non in via Libertà, due grandi manifestazioni antimafia, riprese con evidenza dai media. Inoltre mette la firma sulla richiesta del Comitato Intercondominiale Hazon di intitolare a Falcone e Borsellino una via di Brancaccio. Don Pino era, se non all’inizio della sua vicenda a Brancaccio certamente alla fine, un prete dalla esplicita connotazione antimafiosa. Che la Chiesa non voglia riconoscere tale aspetto, perché difficile da replicare, non lo cancella. Questi ragionamenti possono mettere a frutto criticamente le ore vissute con il Papa. Altrimenti rimarrà un bel sabato di sole, speso accanto a un uomo straordinario, da inserire nell’album dei ricordi.

giovedì 13 settembre 2018

Padre Pino Puglisi, il suo sacrificio e la sua difficile eredità al cospetto di Papa Francesco.

La Repubblica Palermo 
12 settembre 2018
Don Puglisi ucciso da mafia e malapolitica 
Francesco Palazzo




Cosa ha fatto Don Pino Puglisi nei tre anni a Brancaccio? Perché è stato ucciso? Cosa ha messo in atto dal 1990 al 1993 tanto da armare menti e mani mafiose? Toglieva i bambini dalla strada? Sì, ma lo facevano e lo fanno pure altri preti, mai sfiorati dai proiettili di Cosa nostra. D’altra parte, nel quartiere Brancaccio, dove sono nato e cresciuto, rione agricolo come genesi storica, quasi tutti si andava e si va a scuola, con laureati, diplomati, professionisti, professori, pure universitari, impiegati e artigiani. Lui si occupò in particolare di un’enclave di famiglie, ancora esistente, circa 150, del centro storico, ghettizzate dalla politica e inviate in alcuni palazzi di Brancaccio all’inizio degli anni Ottanta. Da allora poco o nulla è mutato. Lì si gioca tutta, o quasi, la vicenda del beato. Che per bonificare quella zona sposò la causa del Comitato Intercondominiale Hazon. Persone che volevano portare civiltà e servizi dove la politica aveva imposto isolamento e invivibilità. Questa esperienza è quella dove quel colpo alla nuca matura. E ciò è dimostrato dal fatto che tre esponenti di punta di quel comitato, che era una cosa sola con 3P, si vedono bruciare le porte di casa in una notte di fine giugno del 1993, a poche settimane dall’agguato mortale. I processi hanno mostrato che la matrice incendiaria e quella omicidiaria sono identiche. Il quadro era ed è chiaro. Puglisi muore perché vuole cambiare quel pezzo di rione, le logiche aberranti che lo guidano, mettendo in discussione la manovalanza criminale che in quei luoghi si era messa a disposizione della mafia che regnava nella zona. Il sangue di don Pino viene sparso per riscattare un piccolo lembo, creato da una politica miope, di un quartiere periferico di Palermo. E non sembri una diminutio, ma un’esaltazione dell’uomo di fede. Che in altri angoli di quella parte di Palermo, il rione bidonville dello Scaricatore e l’agglomerato di case popolari senza servizi, adiacente alla chiesa di San Giovanni degli Eremiti, aveva operato allo stesso modo. A dimostrazione che alla malapolitica e alla mafia creava (crea?) profondo malessere la circostanza che la chiesa si interessi non soltanto di sacramenti, si possono citare i quattro anni, dal 1985 al 1989, in cui a San Gaetano, la parrocchia dove viene inviato nell’ottobre del 1990 don Puglisi, arriva un giovane prete, Rosario Giuè. Che spende il suo sacerdozio senza riverenze nei confronti della politica e senza timori di fronte alla cosca mafiosa di Brancaccio. Provocando le stesse reazioni da parte della malapolitica, della mafia, dei suoi sgherri e dei colletti bianchi al suo servizio. Ma come si agiva in queste due vicende pastorali e sociali? Forse implorando assistenzialismo e distribuendo carità attraverso le casse pubbliche? No, venivano chiesti diritti, promozione umana, infrastrutture, rispetto della programmazione comunale, incontri con le giunte comunali in parrocchia. Si cercava la canna per pescare e non il pesce dato a buon mercato dalla politica e dal volontariato, laico o religioso, che si limita al paternalismo che nulla sposta. Il senso del "Se ognuno fa qualcosa" puglisiano si muoveva in tale direzione e le coppole storte lo capirono subito. Ora le domande sono le seguenti. Dal 1993 a oggi i parroci, le realtà parrocchiali, la chiesa di Palermo, sono stati e sono presenti con lo spirito e il metodo di don Pino, mettendosi di traverso alla politica e alla criminalità, oppure ha finito per prevalere un cattolicesimo che non sposta una foglia? Oltre le scomuniche e i documenti dei vescovi, le omelie infuocate nei duomi, si resta sotto i campanili, dove non si reca fastidio a nessuno? La visita del successore di Pietro nei luoghi di don Pino, proprio perché è un imprimatur d’ora in poi inamovibile sul suo sacrificio, dovrebbe consentire a tutta la comunità cattolica siciliana di rispondere a tali fondamentali interrogativi.

giovedì 6 settembre 2018

Antirazzismo e Costituzione: i cinque passi della Sicilia.


La Repubblica Palermo – 5 settembre 2018

ANTIRAZZISMO I SEGNALI DALLA SICILIA

Francesco Palazzo



Anche in Sicilia si registrano, come altrove, intolleranze etniche. 
Ma, a differenza delle altre regioni, dall’isola partono cinque segnali. 
Il manifesto antirazzista che va verso le 18 mila firme. L’appello di Maurizio Muraglia su Repubblica, affinché la scuola non resti silente sul tema. La reazione positiva del mondo scolastico. La lettera alle scuole del comune di Palermo perché tra i banchi si promuova l’accoglienza. La negazione della comunione del parroco di Bagheria ai razzisti. 
Nei cinque casi gli agganci non sono di parte ma stanno piantati nella Costituzione. 
Ci riferiamo, per chi è già dentro e per chi bussa, all’articolo 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione...», e all’articolo 10: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica...». Dove la carenza di democrazia è pure economica. Visto che tanta umanità non ha di che sfamarsi.