venerdì 27 giugno 2014

Francesco,Wojtyla e la scomunica ai mafiosi. E il verbo non si è fatto ancora carne.

La Repubblica Palermo

26 giugno 2014 - Pag. I

Scomunica ai boss. Se l'anatema diventasse norma.

Francesco Palazzo

Se volessimo stare ai fatti, potremmo affermare che i comunisti ieri (ma pare che la scomunica del 1949 non sia mai stata ritirata) e i divorziati/risposati oggi, in buona compagnia dei contestatori dell'attuale Chiesa (come ricordava Vito Mancuso lunedì su Repubblica parlando della scomunica alla leader del movimento "Noi siamo chiesa"), siano più pericolosi dei mafiosi. Questi ultimi, infatti, non sono mai stati raggiunti da un formale divieto sui sacramenti. Siccome vogliamo procedere con prudenza, di fronte a un papato nei confronti del quale non si può che essere ben disposti, dobbiamo svolgere ragionamenti diversi. Parliamo della condanna che Francesco ha rivolto agli 'ndranghetisti e a tutti i componenti della criminalità organizzata. La quale ha generato la stessa reazione che si è avuta verso il grido agrigentino lanciato nel maggio del 1993 da Giovanni Paolo II nella Valle dei templi, di fronte al Tempio della Concordia, dove adesso sorge in ricordo di quell'evento una grande croce. Come si fa a definire prime volte, punti di non ritorno, due eventi simili accaduti a meno di venticinque anni l'uno dall'altro? Dobbiamo forse pensare che, dal maggio del 1993 al giugno del 2014, poco è stato fatto di concreto da parte della Chiesa contro le mafie, tanto da avere bisogno di un'altra prima volta, di un altro vescovo di Roma proveniente dalla fine del mondo, che ripeta i gesti e le frasi del Papa polacco? E, in effetti, guardando le cose per come sono, compito cui non dobbiamo mai sottrarci, pena la propaganda e la mistificazione che possono sfociare anche nel culto della singola persona e nella deresponsabilizzazione dell'intera comunità cattolica, non possiamo che prendere atto che, dalla Valle dei templi a oggi, a parte singole e sparute scelte individuali di alcuni prelati, la Chiesa non ha varato alcun provvedimento normativo. Che neghi, ad esempio, la comunione, il padrinato, la cresima, il matrimonio o le esequie a chi si è macchiato di reati di mafia o ai colletti bianchi che sono stati condannati per aver favorito in qualche modo le cosche. Non solo non si è agito su aspetti così importanti, ma addirittura non si è proceduto su ambiti meno dirompenti. Come il non consentire a pregiudicati di far parte di congregazioni religiose. Ora, per evitare di doverci trovare, tra dieci o trent'anni, a definire nuovamente «storico» o a marchiare ancora come prima volta l'intervento, a parole, di un Papa contro le mafie, ci auguriamo che stavolta, parafrasando il prologo del Vangelo di Giovanni, si passi dal verbo alla carne. Lo diciamo anche perché, già all'indomani del monito calabrese di Francesco, sulla cui autenticità e importanza nessuno vuole disquisire, qualche alto prelato ha sottolineato due passaggi che lo renderebbero meno storico. Il primo è che delle applicazioni pratiche di questa scomunica orale dovrebbero occuparsi i singoli preti, non avendo dunque le spalle coperte dall'istituzione che rappresentano. Il secondo è che il monito del Pontefice ha caratteristiche essenzialmente teologiche. Se fosse così, sintetizzando, potremmo senz'altro dire che si tratta di acqua fresca, ancorché benedetta. Per evitare tale doppio epilogo della vicenda, non sarebbe male che le Chiese del Mezzogiorno, a partire da quella siciliana, che più vivono la presenza delle cosche mafiose e più dovrebbero sentire la necessità di andare oltre il verbo che non si fa carne, si facessero carico di un'azione chiara e diretta. Chiedendo con forza, questa volta, visto che non l'hanno fatto con Giovanni Paolo II, cosa deve significare in concreto, ossia con disposizioni aventi carattere di norme inserite nel diritto canonico, che i mafiosi e coloro che li appoggiano nel mondo politico ed economico sono posti fuori dalla comunione con la Chiesa.

lunedì 23 giugno 2014

Giovanni Falcone, sereno e amato negli anni trapanesi.

La Repubblica Palermo

22 Giugno 2014 - Pag. XII

Il Falcone mai visto di Trapani circoli, cene e feste di Carnevale

FRANCESCO PALAZZO


Le foto poste alla fine del libro di Salvatore Mugno Quando Falcone incontrò la mafia (Di Girolamo Editore), ci rimandano un Falcone trapanese (1967/1978) poco noto. Rotariano, aderente ai Lions, impegnato sul referendum a favore del divorzio. «Sereno e amato, non perché Falcone, ma perché Giovanni: un asso nel lavoro ma anche semplice compagno di battute e goliardia». Parole dalla prefazione di Dino Petralia. Giovanni e Rita hanno molte conoscenze. Cene e balli. Ama San Vito, dove prende casa. Difficile immaginarlo vestito, per carnevale, da Tarzan, infermiere, matricola con un grosso lecca lecca. Fa parte del Nuovo Circolo, frequenta il "Light Ball", discoteca in voga. In un procedimento è a Roma per sentire Almirante. Nel 1976 è sequestrato nel carcere di Favignana con un coltello alla gola. Davanti a una Porsche sequestrata prova il piacere di mettersi al volante sino al garage dove deve essere custodita.

domenica 22 giugno 2014

PD siciliano: chiudo la sede e tengo aperte le correnti.

La Repubblica Palermo

21 giugno 2014 - Pag. I

La chiusura della sede come metafora del PD

FRANCESCO PALAZZO

La chiusur della sede regionale del PD è la logica conclusione per una formazione politica che in Sicilia, pur bagnata da un forte consenso elettorale alle europee, non rappresenta da tempo una comunità coesa e riconosciuta di donne e di uomini riuniti attorno ad un'idea e ad un impegno. Ma un agglomerato di leader, più o meno dotati di forza elettorale, con al seguito dei seguaci che seguono le orme dei capi corrente, ne sposano le convinzioni e stanno sulla scia mutevole delle cangianti alleanze che si compongono e si frantumano, raramente o quasi mai per ragioni ideali, continuamente dentro il partito. Se il quadro è più o meno questo, in effetti non c'è motivo di tenere aperta anche fisicamente una sede regionale. Una famiglia che non è più tale, non ha affatto bisogno di un tetto comune sopra la testa. Infatti, dentro il PD, ci si duole, giustamente, per le sorti dei lavoratori che vanno in cassa integrazione, ma nessuno si è dispiaciuto per la chiusura della saracinesca politica. Quasi fosse alla stregua di uno dei tanti esercizi commerciali che giornalmente a Palermo abbassano le loro saracinesche. E questo perché tutti sanno, e sappiamo, che non viene a mancare nulla d'importante. Bastano a disegnare le pratiche politiche dei democratici siculi le varie segreterie dei tanti eletti o eleggibili nelle varie assemblee rappresentative. Le leve del comando e i rapporti di forza stanno altrove, le assemblee plenarie servono soltanto a ratificare quanto deciso in altre stanze. Bisogna prendere atto che al partito degli iscritti, il quale una volta tanto deve farsi bastare e avanzare un gazebo, si è sostituito il partito dei ras del consenso. Basta dirlo una volta per tutte e non pensarci più. Una volta c'erano le sezioni, situate pure nei paesini più sperduti, e le sedi centrali del partito, dove cresceva e si temprava classe dirigente. Magari ammorbata di ideologie, ma certamente con davanti a sé il senso di una missione che non corrispondeva con l'orticello angusto della corrente di riferimento o con quello ancora più claustrofobico del leader di riferimento. Adesso la misura del ricambio sarà, è, la fedeltà non ad un percorso collettivo, ma alla singola persona. Non ci giungono notizie di chiusure simili dalle altre regioni, una specie di record di cui avremmo fatto volentieri a meno. Soprattutto in una Sicilia che avrebbe bisogno di un forte e unito Pd per fare qualche passo in avanti. Dalla sede di Via Bentivegna fanno sapere che ci sarà qualcuno che risponderà al telefono (ma per dire cosa? Mica è un call center) e che comunque la struttura rimane disponibile per le riunioni dei politici. E quest'ultima chiosa è la conferma che un partito può essere concepito come una sommatoria di individualismi che si riuniscono, pezzo per pezzo, per discutere delle loro cose. In futuro può essere che si ritrovino i fondi per ristabilire un minimo di funzionalità alla sede regionale. Ma anche se si dovessero trovare gli importi necessari, questi non potranno certo comprare la presenza di una politica partitica condivisa negli aspetti essenziali, la cui assenza ha portato alla cancellazione di una storia senza che qualcuno abbia alzato un solo sopracciglio. Una volta, più di trent'anni addietro, un assessore del comune di Palermo, a me giovane attivista politico di quartiere, disse che avevo qualche buona idea ma che non sarei mai andato avanti se non mi legavo a qualche corrente politica. Gli dissi che non ne avevo bisogno e che una nuova politica avrebbe polverizzato le sue errate e medievali convinzioni. Aveva ragione lui.

domenica 15 giugno 2014

Mondello e Favorita: appuntamento all'anno prossimo.

La Repubblica Palermo

14 giugno 2014 - Pag. XII

MONDELLO, CABINE E FAVORITA, LA “TRINITÀ” DELL’EMERGENZA

Francesco Palazzo

Mondello, cabine, Favorita. Un trinomio che sta tenendo banco in questo inizio estate. Ed è come se scoprissimo questa trinità laica all’ultimo momento. E, invece, ci confrontiamo ogni anno con tali “emergenze”. Che è il modo rassicurante, tutto siculo, di chiamare ciò che non si vuole, o non si sa, risolvere per decenni. Ora sentiamo che questi mesi saranno una preparazione per la prossima bella stagione. Quando avremo Mondello pedonalizzata e ciclabile, ma si diceva la stessa cosa lo scorso anno, niente cabine, e non ricordiamo più da quanto se ne parla, e il Parco della Favorita completamente chiuso, ed anche questo è un romanzo che ormai conta parecchi capitoli. Non sarebbe scommessa temeraria ipotizzare che, più o meno tra dodici mesi, ci ritroveremo a discutere di tali argomenti rimandando, ovviamente, al divenire la loro radicale e definitiva soluzione. Perché è proprio questa la nostra dimensione, il non mettere mai un punto definitivo su nulla. Ed anche quando gli attuali governanti palermitani, alcuni dei quali per inciso hanno già amministrato in passato non modificando di una virgola ciò che ora intendono rivoluzionare, dovessero in qualche modo trovare delle soluzioni non dell’ultimo momento, e perciò condivise e ragionevoli, state pur certi che una prossima giunta cambierebbe nuovamente le regole del gioco. Questo è il baratro che ci divide dalle città che funzionano. Nella quali, ogni passo avanti che si fa, diventa patrimonio di tutti e non si mette più in discussione.

domenica 1 giugno 2014

I disagi che fanno rumore e quelli che non si vedono.

La Repubblica Palermo
31 maggio 2014 - Pag. I

I SENZA TETTO NÉ LEGGE E I POVERI SILENZIOSI

Francesco Palazzo

Le occupazioni dei senzatetto si prestano a qualche lettura. In primo luogo si registrano contrasti tra gli occupanti, in qualche caso un gruppo avrebbe deciso arrivi e partenze. Inoltre, gli stessi sostenitori degli occupanti temono infiltrazioni mafiose. Un altro problema è relativo al fatto che alcuni beni storici e artistici presenti nei siti oggetto di occupazione, ancorché abbandonati, corrono ulteriori pericoli, vedi la vicenda dell'Istituto Sacro Cuore, dove sarebbe stato portato via di tutto. Ovviamente, non si può generalizzare, tante famiglie vogliono soltanto un tetto sopra la testa. Ma, prevaricazioni tra gli occupanti, possibile utilizzo del disagio abitativo da parte delle cosche, alta probabilità di mettere in pericolo l'integrità dell'esistente, sono caratteristiche di cui abbiamo preso atto e vediamo in altri luoghi di Palermo. Spostandoci su un altro versante della questione, occorre segnalare che la pratica delle occupazioni ha inaugurato a Palermo una variante inquietante. Si prendono di mira direttamente, magari già usufruendo di alloggi popolari, non beni pubblici o appartenenti a enti vari, ma le stesse proprietà private di singoli, procedendo direttamente alle ristrutturazioni. Al fondo di molte di queste azioni, si sostiene legittimamente con l'intento di giustificarle, sta la crisi con l'impoverimento di tante famiglie, le quali non possono più sostenere gli affitti. Dovremmo riflettere, tuttavia, sul perché anziché pochi nuclei familiari, non si mobilitino tutti quelli che sono investiti dalla penuria di liquidità. Al contrario, la stragrande maggioranza della famiglie a rischio povertà campano con modestissimi redditi, riuscendo pure a mandare i figli all'università con mille sacrifici. Poiché non si fanno sentire, non fanno notizia, rimanendo invisibili. Giusto affermare che le istituzioni devono fare la loro parte nei confronti di chi non ha un giaciglio. Ma nel frattempo si fa tutto il possibile per cominciare a uscire con le proprie risorse dall'indigenza o si attende che il manto assistenzialista si faccia carico di tutto? Ciò va detto perché in questa terra, è sotto gli occhi di tutti, c'è una fascia di precariato senza titoli di studio che pretende e ottiene, andando in piazza e trovando orecchie politiche più che "attente". È una minoranza, ma sa farsi sentire. Poi c'è una moltitudine di giovani silenziosi con titoli di studio che non prendono un euro da nessuno, pur presentando curriculum di peso a destra e a manca. Sono costretti ad andarsene o a sbarcare il lunario con poco, senza mai bloccare un solo viottolo di campagna. È bene allora, senza rivolgere lo sguardo soltanto a coloro che possono diventare un problema di ordine pubblico o cospicui bacini elettorali finanziati dalle casse pubbliche, che si abbia uno sguardo a 360 gradi sul disagio. Che è reale e al quale la politica deve fornire le risposte che può dare. Senza che tuttavia si pretendano miracoli da essa e ci si impegni ad aiutarsi con una seppur minima entrata finanziaria. Per tornare alle occupazioni, nel chiedere disponibilità di immobili alla curia e ai vari enti religiosi, si cita l'invito di papa Francesco a condividere con gli ultimi i beni inutilizzati dalla chiesa. Non sarebbe male, adottando lo stesso criterio, se pure qualche frammento di gerarchia laica, che può permetterselo, cominciasse a donare qualche metro quadro per i fratelli e le sorelle che stanno messi male. Così, per dare il buon esempio e per vedere l'effetto che fa.