La Repubblica Palermo
26 giugno 2014 - Pag. I
Scomunica ai boss. Se l'anatema diventasse norma.
Francesco Palazzo
Se volessimo stare ai fatti, potremmo affermare che i comunisti ieri (ma pare che la scomunica del 1949 non sia mai stata ritirata) e i divorziati/risposati oggi, in buona compagnia dei contestatori dell'attuale Chiesa (come ricordava Vito Mancuso lunedì su Repubblica parlando della scomunica alla leader del movimento "Noi siamo chiesa"), siano più pericolosi dei mafiosi. Questi ultimi, infatti, non sono mai stati raggiunti da un formale divieto sui sacramenti. Siccome vogliamo procedere con prudenza, di fronte a un papato nei confronti del quale non si può che essere ben disposti, dobbiamo svolgere ragionamenti diversi. Parliamo della condanna che Francesco ha rivolto agli 'ndranghetisti e a tutti i componenti della criminalità organizzata. La quale ha generato la stessa reazione che si è avuta verso il grido agrigentino lanciato nel maggio del 1993 da Giovanni Paolo II nella Valle dei templi, di fronte al Tempio della Concordia, dove adesso sorge in ricordo di quell'evento una grande croce. Come si fa a definire prime volte, punti di non ritorno, due eventi simili accaduti a meno di venticinque anni l'uno dall'altro? Dobbiamo forse pensare che, dal maggio del 1993 al giugno del 2014, poco è stato fatto di concreto da parte della Chiesa contro le mafie, tanto da avere bisogno di un'altra prima volta, di un altro vescovo di Roma proveniente dalla fine del mondo, che ripeta i gesti e le frasi del Papa polacco? E, in effetti, guardando le cose per come sono, compito cui non dobbiamo mai sottrarci, pena la propaganda e la mistificazione che possono sfociare anche nel culto della singola persona e nella deresponsabilizzazione dell'intera comunità cattolica, non possiamo che prendere atto che, dalla Valle dei templi a oggi, a parte singole e sparute scelte individuali di alcuni prelati, la Chiesa non ha varato alcun provvedimento normativo. Che neghi, ad esempio, la comunione, il padrinato, la cresima, il matrimonio o le esequie a chi si è macchiato di reati di mafia o ai colletti bianchi che sono stati condannati per aver favorito in qualche modo le cosche. Non solo non si è agito su aspetti così importanti, ma addirittura non si è proceduto su ambiti meno dirompenti. Come il non consentire a pregiudicati di far parte di congregazioni religiose. Ora, per evitare di doverci trovare, tra dieci o trent'anni, a definire nuovamente «storico» o a marchiare ancora come prima volta l'intervento, a parole, di un Papa contro le mafie, ci auguriamo che stavolta, parafrasando il prologo del Vangelo di Giovanni, si passi dal verbo alla carne. Lo diciamo anche perché, già all'indomani del monito calabrese di Francesco, sulla cui autenticità e importanza nessuno vuole disquisire, qualche alto prelato ha sottolineato due passaggi che lo renderebbero meno storico. Il primo è che delle applicazioni pratiche di questa scomunica orale dovrebbero occuparsi i singoli preti, non avendo dunque le spalle coperte dall'istituzione che rappresentano. Il secondo è che il monito del Pontefice ha caratteristiche essenzialmente teologiche. Se fosse così, sintetizzando, potremmo senz'altro dire che si tratta di acqua fresca, ancorché benedetta. Per evitare tale doppio epilogo della vicenda, non sarebbe male che le Chiese del Mezzogiorno, a partire da quella siciliana, che più vivono la presenza delle cosche mafiose e più dovrebbero sentire la necessità di andare oltre il verbo che non si fa carne, si facessero carico di un'azione chiara e diretta. Chiedendo con forza, questa volta, visto che non l'hanno fatto con Giovanni Paolo II, cosa deve significare in concreto, ossia con disposizioni aventi carattere di norme inserite nel diritto canonico, che i mafiosi e coloro che li appoggiano nel mondo politico ed economico sono posti fuori dalla comunione con la Chiesa.