La Repubblica Palermo
28 Gennaio 2014 - Pag. I
In morte di un ricercatore precario
La morte del ricercatore messinese, la settimana scorsa, tra le acque dell'Antartide, ci consegna la figura di un appassionato del suo lavoro che a quaranta anni, con un curriculum eccellente, era un precario che guadagnava, così leggiamo, 800 euro al mese con contratto a tempo determinato. Un suo collega ha dichiarato che «il mondo universitario avrebbe dovuto da tempo riconoscere le doti, la passione, la preparazione di un ricercatore che proseguiva tra la nebbia delle mille promesse, concorsi, finanziamenti e contrattini: la sua caparbietà non doveva essere esaltata postuma». invece è andata così. Continua una collega. «Era il migliore tra di noi, sarebbe potuto andare ovunque, invece ha scelto di restare in Italia perché ci credeva e aspettava fiducioso che arrivasse il suo momento, vista la sua evidente competenza». È morto sott'acqua Luigi Michaud. Quest'immagine ci consegna, ad di là della casualità del fatto specifico, la condizione di quanti in Sicilia studiano, si specializzano, accumulano master e, sol perché non hanno mai rovesciato un cassonetto sotto i palazzi del potere, rimangono invisibili, sotto il livello del liquido quotidiano della cronaca. Forti del loro sapere e saper fare, ma con un presente di stenti e poco futuro. Sono tantissimi ma non contano nulla. Un giovane agronomo mi raccontava che lui ormai vive di contratti derivanti dai finanziamenti europei. È anch'esso competente, aggiornato, parla con cognizione di causa della sua professione, ma deve vivere alla giornata. C'è anche quella ragazza che non ce l'ha fatta più ad inseguire il sogno della docenza universitaria, troppo pochi i fondi e nulle le speranze. Alla soglia dei quaranta anni vive con un contratto in un altro ente, che spera possa essere rinnovato più volte possibile affinché possa ambire alla stabilizzazione. Che magari giungerà quando lei veleggerà verso i cinquanta. Del resto, anche chi ancora è ai primi passi nel mondo universitario sa che qui c'è poco da sperare. E allora a cena ti racconta di quel fratello trentenne del suo conoscente, ingegnere gestionale, che qui non aveva niente e che a Los Angeles guadagna 14 mila dollari. Anche lei pensa di fare la stessa cosa. E ne discute come se la città californiana fosse proprio dietro l'angolo. E forse, nell'immaginario di una giovane ragazza, proprio lo è per chi già ha capito che terra amara è la Sicilia per chi ha troppo studiato. È meglio non avercela in Sicilia una professionalità che ti fa essere un mago del computer, un esperto di finanziamenti internazionali, un onesto e preparato consulente nel E campo della comunicazione. Perché è proprio di questi profili, che talvolta fanno crescere solo per breve tempo le pubbliche amministrazioni, lo spazio di qualche contrattino annuale, dove magari non ti pagano per mesi, che la Sicilia, forse l'Italia intera, non sa che farsene. Giocando tutto il suo orizzonte, angusto e pieno di tante giovani e preparate teste che vanno via, nel rinnovare, stabilizzare, creare questo o quel pezzo di precariato. Dicendo sempre che è l'ultima volta e dove l'ultima cosa che conta non è quello che sai fare, come lo sai fare e quanto hai studiato. E non si pensi, troppo semplicisticamente, che le colpe ricadono tutte sul sistema politico e universitario. È la società siciliana, fatta da diverse generazioni, che ha creato un sistema di questo tipo. Ciascuno ci ha messo del suo. La filosofia è quella del che male c'è se anch'io inserisco il mio piccolo pezzo nel grande mosaico della spesa pubblica che deve garantire stipendi e non selezionare per meriti. Ma sono discorsi di poco momento. Che ti vengono in testa quando senti di un giovane professionista siciliano che ci rimette la vita per passione, non pensando al magro bottino degli ottocento euro mensili e alla sua precarietà lavorativa. Oggi è un altro giorno. Anzi, acqua passata. Il gioco può continuare a procedere per come lo conosciamo già.