mercoledì 30 luglio 2008

Legalità e percorsi collettivi


REPUBBLICA PALERMO - MERCOLEDÌ 30 LUGLIO 2008
Pagina I
L´analisi

Attenti a non ammainare la bandiera della legalità
FRANCESCO PALAZZO

Quando una parola diventa d´uso comune in un determinato e ristretto contesto sociale, rischia di diventare, dopo anni che la si usa in tutte le salse, solo un vuoto simulacro. Per decenni corre in bocca a tutti gli esponenti di quello spaccato socio-politico. Ecco che allora c´è chi comincia a denunciarne, dall´interno di quel gruppo, il suo superamento, il logoramento, quasi la banalità. È questo il caso della parola legalità? Può essere. In effetti la parola, dalle stragi del 1992, ha trovato cittadinanza. Ne parlano alcuni parroci nelle omelie, quasi tutti i rappresentanti di partito, tanti insegnanti nelle scuole, un discreto numero di donne e uomini eletti nelle istituzioni rappresentative, determinati vertici del mondo imprenditoriale, l´associazionismo, altri settori della vita pubblica e un nutrito plotoncino di singoli. A voler essere generosi, oltre le parole, non più di cinquemila persone su cinque milioni di siciliani ne hanno fatto uno stile convinto di vita. Anche nei convegni, frequentati a turno dai cinquemila e non dalla massa, la legalità viene da tanto tempo celebrata in varie forme. Pure da chi se ne tiene sistematicamente ben lontano. Effettivamente questa sbornia della parola può provocare legittimamente, in alcuni che girano nel mondo dei cinquemila, quasi la nausea nei confronti di un concetto più teorizzato che praticato. E dunque, così stando le cose, pare che della parola ci si possa facilmente sbarazzare, cambiandola con nuove denominazioni. Una di queste è l´educazione alla cittadinanza. È ciò che suggerisce Giovanni Fiandaca da queste colonne in un articolo pubblicato sabato scorso, che aveva come sfondo l´educazione antimafia da proporre nelle scuole. Nell´interessante e stimolante intervento, egli si chiede se basta la mera osservanza delle leggi, ossia un comportamento basato sul rispetto giuridico della norma, a fare un buon cittadino. La sua risposta è no, nel senso che legalità e moralità personali non sempre coincidono. Personalmente a questa posizione, che da un po´ di anni si fa spazio nel dibattito pubblico, ho sempre risposto con una domanda: ma siamo sicuri che almeno la sola idea di legalità sia stata così bene assorbita dal popolo siciliano, tanto che se ne può proporre il suo superamento? La risposta è scontata: un larghissimo strato della società siciliana, a volere essere ottimisti potremmo parlare del 95 per cento, non considera, neppure per via teorica, il semplice rispetto delle norme come un valore in sé, cioè come un elemento costitutivo della propria esistenza in questa regione. Perciò ci si può chiedere: è conducente abbandonare, introducendo l´idea più complessa ed evoluta di educazione alla cittadinanza responsabile, un concetto, quello della legalità, condiviso solo da una piccolissima minoranza di siciliani? Io credo che sia un errore. Anche se, facendo parte di una minoranza che già ha percorso molta strada partendo dal semplice ragionamento legalitario, può sembrare quasi logico e necessario farlo. Ma dobbiamo pensare che la Sicilia potrà migliorare solo facendo ricorso a frange minoritarie che sono già al di là del guado? Oppure, prima di proporre altri schemi, ci deve interessare che quasi tutti i siciliani facciano un utilizzo quotidiano di tutto ciò che attiene al rispetto delle regole della civile convivenza? Credo che ci debba importare, esclusivamente, la risposta positiva a quest´ultimo interrogativo. In quanto al resto, dibattiamo pure, ma con i piedi ben piantati per terra. Tenendo presente che nei quartieri periferici e degradati della Sicilia non si è cominciato neanche a parlare di legalità. Come si fa a proporre il suo superamento a chi non è ancora arrivato a una tappa? Quando ci troveremo di fronte a una regione in cui il rispetto delle regole minime sarà pane quotidiano per la stragrande maggioranza (e da ciò passa molto della lotta alla mafia), potremo iniziare a spostare gli orizzonti verso nuove e più che condivisibili conquiste di civiltà sostanziale.

venerdì 18 luglio 2008

Commissione Antimafia Siciliana: cosa non è mai stata e come potrebbe diventare


LA REPUBBLICA PALERMO VENERDÌ 18 LUGLIO 2008

Pagina XIV
PALAZZO DEI NORMANNI A CHE SERVE L´ANTIMAFIA
FRANCESCO PALAZZO


La scorsa legislatura regionale, iniziata nel 2006, è stata particolare per tanti avvenimenti, primo tra tutti lo scioglimento anticipato dell´Assemblea regionale. Un altro record è stato determinato dall´assenza della Commissione parlamentare antimafia. All´inizio la presidenza fu offerta all´opposizione. Che rifiutò. Poi si assistette a un valzer di nomi di esponenti del centrodestra. Chi non aveva avuto un assessorato o un incarico di peso doveva essere accontentato. Poiché quelli da accontentare erano parecchi, ci s´incartò per alcuni mesi. Poi, nella evidentemente implicita considerazione che la mafia non costituisce in fondo un problema per questa regione, calò il silenzio. Quindi il buio. Per tanti motivi. Non ultima la circostanza che la Commissione antimafia è vista come sostanzialmente inutile. E tale si è, in effetti, dimostrata nel tempo. Principalmente perché è mancata la volontà politica per farla diventare qualcosa di significativo. E quando una cosa rasenta l´inutilità, piuttosto che migliorala è meglio cancellarla. E la proposta c´è pure stata. Per dirla tutta, nei due anni della legislatura precedente qualche disegno di legge, che tendeva ad una radicale modifica dei compiti e del funzionamento della commissione, è stato presentato. Ma il parlamento regionale non ebbe il tempo, oltre che la voglia, di andare oltre. Nella legislatura appena iniziata si è invece, almeno dal punto di vista temporale, partiti con il piede giusto. La commissione è già formata dall´inizio di luglio e la presidenza è stata proposta nuovamente a un esponente dell´opposizione. Che questa volta, secondo noi opportunamente, ha accettato. Non vorremmo sbagliarci, ma dovrebbe essere la prima volta che l´opposizione riveste tale carica. Ne abbiamo avuto notizia attraverso brevi di cronaca nei maggiori quotidiani. Segno che tale istituzione è ridotta davvero ai minimi termini. Non sappiamo il perché questa volta la situazione si sia sbloccata al sorgere della legislatura. Se c´era qualcosa da rivedere profondamente nella concezione di un simile organismo, era logico procedere alle modifiche, coinvolgendo nel percorso anche la società siciliana, e poi nominarne i membri. O forse è in previsione una discussione parlamentare a breve sull´argomento? Non sappiamo. Notiamo, intanto, dal sito dell´Assemblea regionale, che la commissione è relegata nel novero di quelle «speciali» (sono due, oltre l´antimafia abbiamo quella che si occupa della revisione e attuazione dello statuto regionale). Il termine speciale rimanda, intuiamo, al fatto che la mafia è vista non come un fatto strutturale e di lunga durata della storia siciliana, tale perciò da meritare una commissione permanente e di primo livello nel luogo istituzionalmente più importante della politica siciliana, ma come un fenomeno anch´esso evidentemente speciale, quasi un accidente della storia siciliana. Del quale ogni cinque anni va riverificata l´esistenza in vita, per capire se merita ancora la sgangherata commissione che sinora abbiamo conosciuto. Cambieranno le cose a partire dalla legislatura appena iniziata? Vedremo. Vorremmo sperare che la nuova commissione senta subito l´esigenza di mettere in calendario una serie di audizioni che coinvolgano partiti, associazioni, singoli studiosi, centri studi, chiese, scuole e quant´altro si muove, o dovrebbe muoversi, nell´ambito dell´antimafia. Che allacci, insomma, contatti non episodici con la società siciliana. Il mandato dell´organismo, apprendiamo dal sito dell´Ars - che dedica uno spazio striminzito all´antimafia, che meriterebbe almeno un sito a parte - con il poco storico che c´è consultabile da tutti, è quello di «vigilare e indagare sulle attività dell´amministrazione regionale e degli enti sottoposti al suo controllo, sulla destinazione dei finanziamenti erogati e sugli appalti e di assumere ogni altra iniziativa di indagine e proposta per il migliore esercizio delle potestà regionali in ordine al fenomeno mafioso in Sicilia». Come si vede, un compito sterminato. Che attende solo chi ha voglia di mettersi al lavoro, con la volontà di trasformare, se sono veri i proclami antimafia del mondo partitico siciliano, una cenerentola istituzionale in una postazione di prima grandezza della politica siciliana.

venerdì 4 luglio 2008

SICILIA: L'OPPOSIZIONE DISPERSA CHE SI ACCONTENTA

CENTONOVE
4 LUGLIO 2008
Pag. 55
CENTROSINISTRA E BALLOTTAGGI
di Francesco Palazzo

C’è una sorta di ciclicità, quasi un eterno ritorno direbbe il filosofo, nelle dinamiche del centrosinistra siciliano quando si tratta di reagire alle batoste elettorali. Lo schema è pressappoco il seguente: si perde alle amministrative e si spera nel secondo turno attendendosi chissà quale metamorfosi. Nei ballottaggi, com’è facile che capiti poiché spesso ci si trova di fronte ad alleanze locali anomale, che politicamente valgono poco a livello regionale, si vince in alcuni comuni. Come sabato e domenica scorsi. Ed ecco che subito si parla, da parte di esponenti di punta del Partito Democratico, di “segnali di ripresa” e di “orientamento che fa ben sperare”. Se andate a guardarvi le cronache giornalistiche delle elezioni passate, troverete lo stesso canovaccio. Cambiano gli interpreti, c’è qualche variazione nelle parole, ma nella sostanza il copione non cambia. Ma come si fa a parlare di ripresa in una regione che presenta un’opposizione ridotta ai minimi termini? Avremmo capito qualche sussulto speranzoso se il Partito Democratico e le formazioni politiche dell’ex Sinistra Arcobaleno avessero approntato una reazione, immediata nei proponimenti e a medio/lungo termine negli aspetti operativi, in qualche maniera visibile, palpabile. Ci saremmo accontentati, vista l’aria che tira, anche di un timido sussulto. Invece niente o quasi. Dei pezzi siciliani che hanno costituito la fallimentare e ormai chiusa esperienza della Sinistra Arcobaleno, non giungono notizie apprezzabili e in qualche modo commentabili. Del Partito Democratico abbiamo appreso, per la verità con più di qualche sorpresa, che per la sconfitta di metà giugno, otto province su otto e tre comuni capoluogo al centrodestra con percentuali umilianti, la colpa è di nessuno. Nel senso che, a partire dalla provincia più grande e finendo al più piccolo comune, nessuno ha sentito il bisogno di rimettere il mandato e di mettersi in discussione. Potevano essere piccoli segnali, certo non risolutivi, tuttavia indicativi di una qualche risposta in un momento davvero cupo. Al contrario, si tengono tenacemente tutte le posizioni personali. Se è il caso litigando senza ritegno. Come avvenuto al comune di Palermo la settimana scorsa attorno alla nomina del nuovo capogruppo. Si attende, pare, un chiarimento in ambito regionale che però è già stato rimandato. Mentre c’è chi ha pure parlato di un possibile commissariamento romano del partito siciliano. Che, da parte sua, sempre attraverso esponenti di punta, rimanda sostanzialmente la pratica al mittente. La colpa del tracollo sarebbe di Roma, perché in occasione delle politiche ha infarcito le due liste regionali per la camera di eletti provenienti da fuori regione. Motivazione che non riusciamo a comprendere. Si pensa davvero che con qualche eletto siciliano in più alla camera, si poteva evitare o contenere la scoppola delle amministrative? Semmai, se proprio vogliamo dirla tutta su quelle liste, ci sarebbe molto da obiettare su alcuni nomi siciliani piazzati in pole position. Ma quando si perde nel modo in cui è accaduto al centrosinistra siciliano, la cosa peggiore che si può fare è quella di accampare scusanti improbabili. Le motivazioni del tracollo sono molto più profonde. Bisogna vedere se si vuole capirle o se s’intende vivacchiare, amministrandolo da postazioni personalistiche, con quel venticinque per cento che è al momento la cifra elettorale dell’opposizione siciliana. Sembra, da quel che ne capiamo, che la strada sia quest’ultima. Che si unisce a un’evidente difficoltà di spiegarsi ciò che succede quando ci si conta alle urne. A tal proposito, basta registrare, a dimostrazione che il cliché post elettorale, come dicevamo all’inizio, è sempre il solito, la ben conosciuta analisi ripetuta dopo le sparute vittorie al secondo turno in alcuni comuni siciliani. Si afferma, ancora una volta, che nei ballottaggi “dove non c’è l’effetto di trascinamento delle liste, il voto è più libero da ogni condizionamento”. Il punto è che la robustezza di uno schieramento si misura proprio dalla forza di trascinamento delle liste. Che dicono tutto, o moltissimo, sul radicamento territoriale delle formazioni politiche. Recuperare quel consenso, invece che snobbarlo, ritenendolo voto non libero, è proprio il compito arduo, la montagna, che il centrosinistra in Sicilia ha davanti.

mercoledì 2 luglio 2008

Legge 180: dai manicomi al silenzio

LA REPUBBLICA PALERMO - MERCOLEDÌ 02 LUGLIO 2008

Pagina XIV
Sicilia senza strutture per i pazienti psichiatrici
FRANCESCO PALAZZO



Per alcuni operatori sanitari palermitani, quando svolgono il servizio di guardia, pare che l´unico strumento davvero indispensabile sia l´elenco telefonico. E ciò per l´insufficienza di posti letto per pazienti psichiatrici negli ospedali. L´elenco telefonico serve a capire rapidamente dove potere inviare il malato in crisi acuta. Può essere un altro ospedale siciliano, ma sino all´altro giorno qualcuno stava per finire a Reggio Calabria. Ciò significa anche spostamento delle famiglie, con disagi per le stesse. E nelle altre province siciliane non va molto meglio. I posti letto per acuti psichiatrici, previsti dalla legge 180 del 1978, quella che chiuse i manicomi, a Palermo dovevano essere settantacinque. Oggi, ascoltando chi lavora nel campo, ne rimangono poco più della metà. Ma non è solo una questione di posti letto. Sembra anche che i medici siano sotto organico, così come gli infermieri e gli assistenti sociali. Nei manicomi c´era personale in abbondanza. Prima c´erano gli sprechi, ora problemi di sicurezza. «Ma come si fa – sottolinea un addetto – ad affrontare persone in stato di agitazione con quel poco personale, che neanche fisicamente riesce a reggere e controllare pazienti che li sovrastano fisicamente?». Il tutto sovente si trasforma in un´emergenza di ordine pubblico, ci si trova cioè costretti a chiamare le forze dell´ordine. Peraltro, le strutture pubbliche sono le uniche, per legge, in cui si possono applicare i trattamenti sanitari obbligatori. Non va meglio per le Cta, le comunità terapeutiche assistite. Sono strutture residenziali extraospedaliere, in cui si svolge il programma terapeutico riabilitativo e socio-riabilitativo per gli utenti psichiatrici. A Palermo ci sono cinque moduli, già al di sotto della bisogna secondo gli addetti. In più, come denunciano i sindacati, è possibile una riduzione di posti letto, con l´accorpamento preventivato dei moduli 3 e 4. Pure le case famiglia, comunità di tipo familiare con sedi nelle civili abitazioni, presentano delle criticità. Queste realtà soffrono cronicamente di problemi legati ai finanziamenti che ritardano o che diminuiscono. Nei manicomi, affermano gli operatori, paradossalmente il malato poteva trovare un letto sicuro, il cibo e personale più che sufficiente a disposizione. In definitiva, un ambiente accettabile. Adesso, a trent´anni dalla 180, si registra quasi ovunque - poiché la situazione palermitana e siciliana riguarda anche il resto d´Italia, tranne poche isole felici, come ad esempio le province di Arezzo e Trieste - una difficile applicabilità di una legge che doveva umanizzare il rapporto della società con il paziente psichiatrico. Il cambiamento, culturale prima che sanitario, introdotto dalla norma fu accolto, tre decenni addietro, in maniera molto positiva. Da allora, riferiscono gli operatori, c´è stato un lento e incessante allontanamento dagli ospedali. Forse perché, pensano alcuni, il paziente psichiatrico non è un fiore all´occhiello, non permette di fare bella figura. La patologia psichiatrica, che era stata messa al pari delle altre malattie trattate nelle strutture pubbliche, adesso rischia, secondo coloro che lavorano nel settore, la marginalizzazione. Spesso, ribadiscono, non rimane che la famiglia. Quando c´è. In ultima analisi, il rischio che temono gli operatori è quello di una progressiva privatizzazione dell´assistenza. Ciò mentre l´Organizzazione mondiale della sanità prospetta che nel 2020 la sofferenza psichiatrica, in particolare la depressione, diventerà la seconda causa di disabilità fra tutte le condizioni morbose, seconda soltanto alle malattie cardiovascolari. Nel frattempo i medici che operano nel pubblico continueranno a essere fermati nei viali degli ospedali dai pazienti psichiatrici soggiornanti nelle panchine. La richiesta è sempre la stessa: «Dottore, quando si libera un posto?».