Domenica 21 novembre 2010
Il club degli amici delle vittime
Francesco Palazzo
Pareva, negli anni novanta, dopo le stragi, che tutto quel sangue versato fosse almeno servito per raggiungere una consapevolezza condivisa, una soglia del dolore comune. Che l’asticella di quanto è possibile tollerare, non soltanto dentro le aule dei tribunali, ma in primo luogo nelle strade della nostra vita quotidiana, pubblica e privata, fosse stata posta molto in alto. Non è così, ci siamo sbagliati ancora una volta. Quella della politica la si può varcare a piacimento. Ci puoi passare sia sopra che sotto. Oppure di lato. A giorni alterni. Quando conviene. Basta poi pronunciare la frasetta magica che risolve tutto. Blaterata a pieni polmoni. Con voce roboante e arrogante quanto basta. Sulla questione morale non deve darci lezioni proprio nessuno. Quante migliaia di volte abbiamo sentito queste parole? Abbiamo i padiglioni auricolari sanguinanti. Noi, e sottolineo noi, così finisce la litania, siamo il partito di questo e quell’altro. Come se bastasse, per affrontare con coerenza e dignità il presente e il futuro, uscire dal taschino azzimato i santini sanguinanti di chi non può più alzare il dito e dire la sua. Utilizzandoli, i santini, come lasciapassare per se stessi e alla stregua di tanti cartellini rossi. Che espellono dal campo del dibattito chiunque voglia discutere, nel merito, oltre la propaganda, su fatti e persone. Sono sempre buoni i santini. Si possono utilizzare in ogni occasione. Non sempre per lo stesso verso. Una volta per il dritto, l’altra per il rovescio. Chi se ne importa. Chi ha l’alibi morale incorporato come l’airbag nelle auto, può fare questo e altro. Del resto, si tratta di un giochetto facile facile, basta mettere diligentemente una parola dietro l’altra. E che si pagano le parole? Servono ai vivi per chiamare i morti. Per convincere, e convincersi, di essere sulla giusta strada. Si dimentica che i morti ci parlano forte e chiaro già attraverso le loro storie, non hanno certo bisogno di essere piegati alle piccole, a volte ambigue e di basso conio, esigenze di bottega. Quello che si fa, quando si hanno responsabilità pubbliche, se davvero merita, dovrebbe brillare di luce propria. Se si prova a illuminarlo di luce riflessa, quella di chi ha pagato il prezzo della vita per non chinare la testa, vuol dire che si hanno in mano false monete. E poi, appropriarsi di talune biografie, è più che sospetto. Se provassimo a portare per un attimo indietro gli orologi della storia e della cronaca, potremmo accertare come in molti casi la macchina del fango, quando i morti erano vivi pure loro, non li risparmiò affatto. E, talvolta, sorpresa delle sorprese, gli amici di oggi sono i nemici giurati di ieri. In Sicilia, i morti per mano mafiosa hanno tanti affettuosi e teneri compagni di viaggio. E’ semplice essere amico di un morto. Basta, ogni tanto, portare un fiore, anche appassito o di plastica, sulla tomba sempre affollata della retorica. E non c’è nessun settore dello scibile umano più pieno di retorica della politica. Non se ne può più. Almeno in questo mettiamoci un punto. Siamo tutti maggiorenni e vaccinati. Dunque, in grado di capire, da soli, senza l’aiuto di improbabili maestri di vita, che spesso alla dura pratica preferiscono la spumeggiante teoria, cosa hanno fatto i morti. E, soprattutto, cosa fanno, oggi, i vivi. Ai quali non servirà a nulla nascondersi dietro la memoria dei giganti. Tanto, se uno è nano, si vede lo stesso.