mercoledì 20 febbraio 2013

Via D'Amelio vietata. Tutto il resto si può fare.

LA REPUBBLICA PALERMO
19 FEBBRAIO 2013 - PAG. I
Francesco Palazzo
 
Ma insomma, se una forza politica, in questo caso Futuro e Libertà, che domenica pomeriggio si è ritrovata in Via D'Amelio per una manifestazione, decide di fare un'iniziativa di questo tipo, si può sapere che male c'è? Subito sono scattati, come un sol uomo, i difensori non si capisce di che cosa. La motivazione della critica, che sembra nobile e invece non lo è affatto, è che siamo in piena campagna elettorale per le politiche. E allora? Non è forse in campagna elettorale che si devono lanciare messaggi forti e precisi all'elettorato? Cosa sono le campagne elettorali se non il momento in cui ciascuno si presenta con la propria identità, cercando il consenso, al cospetto del corpo elettorale. O è forse meglio i leader di partito comizino in luoghi neutri senza dire una sola volta la parola mafia e parlando di ponti sullo stretto e amenità varie? No. Le critiche, piuttosto a chi va in certi posti della memoria, vanno rivolte a chi si tiene lontano da certi contesti e preferisce uscirsene pulito pulito. Perché in realtà, il tema della criminalità organzzata, che intanto è tornata platealmente a sparare in un quartiere in cui niente accadde per caso, e potrebbe farlo ancora, è il grande assente in questo mese di surreale propaganda politica in Sicilia. Sullo sfondo primeggia la vittoria al Senato in terra sicula, che pare sia il viatico più importante per avere la maggioranza in quel ramo del parlamento oppure impedirla comunque ai vincitori. E siccome ogni voto può essere utile e decisivo nella battaglia campale, non si butta via niente. Ma proprio niente. Al tavolo si chiamano commensali d'ogni tipo. Presentabili o meno, non importa. Si arruolano, dall'una e dall'altra parte, capibastone con i loro nutriti e pasciuti battaglioni di consenso al seguito. Quanto stia costando, e costerà, tutto questo, proprio in termini di legalità e lotta alla mafia, lo sapremo molto presto. Non appena, dopo domenica e lunedì prossimi, si sarà depositata tutta la fitta nuvola di polvere di un confronto elettorale all'ultimo sangue. Sarebbe proprio questo il problema da porsi. Come si sta raccogliendo il consenso in Sicilia per arrivare vittoriosi alla conta del Senato? Quali e quanti patti a futura memoria si stanno facendo? E chi li pagherà? E quanto costeranno a tutti noi? Sono domandine, secondo me, di un certo rilievo. Ma pochissimi se le sono poste e ancora meno sono coloro che hanno risposto. Diciamolo. Proprio in terra di Sicilia stiamo assistendo a un brutto e indigeribile confronto elettorale. Non si parla non soltanto di mafia e dei suoi legami ancora vivi e vegeti con la politica, ma neppure di uno solo dei tanti gravi e drammatici problemi che sta vivendo l'isola. Se questo è lo scenario, davvero si può pensare di alzare la polemica al vetriolo sull'innocente e persino troppo ingenuo comizio di Gianfranco Fini in via D'Amelio? Almeno quella è stata un'iniziativa elettorale chiara e ben leggibile da tutti. Uno afferra il micorofono, dice delle cose e fa della lotta alla mafia la cifra del proprio impegno politico. E la cosa finisce lì. Almeno così potremo misurare parole e comportamenti futuri di quanti hanno parlato nel luogo dove morì Paolo Borsellino. Dovremmo preoccuparci, o almeno occuparci, invece, di quanto sta avvenendo, non nelle pubbliche piazze, in cui ciascuno può essere giudicato da tutti, ma nelle segrete stanze della politica siciliana in questi ultimi giorni che ci separano dall'ingresso nei seggi elettorali. Ma questa è una cosa più complicata e dunque su di essa si preferisce sorvolare.

domenica 10 febbraio 2013

La guerra contro i magistrati. Vivi.

LiveSicilia
10 Febbraio 2013
Su Falcone Ingroia non sbaglia

Francesco Palazzo

 
 
Ovviamente, chi dice che non va toccata la memoria dei morti di mafia ritiene, ciascuno per suo conto, perché ogni testa è tribunale, di avere una sorta di copyright, un diritto d'autore scolpito sulle dieci tavole della legge. Quanti nei comizi, in vista delle varie tornate elettorali, hanno usato i loro nomi per diffondere idee politiche di parte? Quanti hanno fatto parlare i morti di mafia in questi ultimi venti anni? Solo ogni tanto alcuni di loro, detentori di un passato che evidentemente custodiscono in cassaforte, alzano il ditino e dicono a qualcuno che no, quello proprio non può. Ora è il turno del processo inquisitorio contro Antonio Ingroia. Avrebbe sbagliato ad accostare le critiche, che lo stanno investendo in misura industriale, in quanto candidato premier di una coalizione, a quelle che un tempo ricevette Giovanni Falcone. Quando era a Palermo e veniva accusato di tenere le prove dei cassetti e quando andò a Roma e venne sfregiato con l'epiteto di venduto ai voleri del principe. Accusato da chi? Non mi dite che anche voi avete dimenticato. Ma accusato dagli stessi, per lo meno dalla maggior parte di questa squadra formatasi dopo il 23 maggio del 1992, che oggi ne conservano e ne difendono dagli usurpatori infedeli le sacre gesta.

E tutto questo per quella bomba esplosa in quel tratto di autostrada. Perché se i boia di Capaci non avessero azionato il timer, quel pomeriggio di ventuno anni addietro, Falcone lo avrebbero continuato a massacrare quasi tutti quelli che appartengono al fiume di amici che si è ritrovato ad avere da defunto. E che dicono pure quella frasetta quasi buona per i baci Perugina. La conoscete. L'antimafia appartiene a tutti, i morti di mafia appartengono a tutti. Che è un po' la lotta alla mafia a bagnomaria. Appartiene a tutti e quindi a nessuno. Ma state attenti al gioco di prestigio. Coloro che affermano che l'antimafia, e i suoi morti, sono patrimonio di tutti avrebbero bisogno di un traduttore simultaneo. Perché in realtà stanno dicendo che la vera antimafia appartiene solo a loro. Che rilasciano licenze e attestati di benemerenza.

Ma non eludiamo la domanda attuale. Ha sbagliato Antonio Ingroia a dire che le critiche da lui ricevute sono della stessa specie di quelle che coprirono Falcone da vivo? No, non ha sbagliato. Così come il magistrato vivente, perché se fosse già morto tutti ne difenderebbero la memoria dall'oblio, viene apostrofato di fare politica con ancora fresca la divisa di magistrato, così a Falcone si oppose la stessa critica, ossia che aveva venduto la sua casacca e la propria autonomia. Nel primo caso alla sinistra, nel secondo a Roma, ai socialisti, in ultima analisi diventando un amico del malaffare. Perché anche questo è stato detto. Non parliamo degli ostacoli che tanti misero gli misero in mezzo ogni qual volta doveva raggiungere qualche carica più che meritata. Non è il caso di fare nomi, ma qualche cognome lo si può fare. I riformisti del PD di oggi, che lanciano strali contro Ingroia in difesa del martire Falcone, potrebbero, ad esempio, spiegarci perché ieri, quando non si chiamavano più PCI ed erano diventati PDS, si opposero affinché Falcone diventasse capo della superprocura. E mancava poco al botto di Capaci. Perché dopo, è chiaro, Falcone diventò l'eroe di tutta la nazione.

Dottor Ingroia, io non la voterò alle elezioni. Il suo progetto elettorale, Rivoluzione Civile, non mi convince. Ciò per ragionamenti politici che richiederebbero molte parole e non è il caso di tediare i lettori. Ma questo è un altro discorso. Il problema delle querelle che la vede contrapposta ai difensori (quasi tutti postmortem, dunque a vanvera) di Falcone e Borsellino, è invece abbastanza semplice, in fin dei conti, da decifrare. Bastano, in questo caso, poche sillabe. Che mi permetterà di fare uscire fuori per come le penso. Lei è vivo, dunque colpevole. Se ne faccia una ragione.