giovedì 31 marzo 2016

Fenomenologia dei marciapiedi palermitani.

La Repubblica Palermo
30 marzo 2016
Come è difficile andare a piedi
Francesco Palazzo

Com’è andare a piedi a Palermo? Bello. Ogni volta vedi una città diversa, anche se passi dagli stessi luoghi. E sì, Palermo è bella, talmente bella che, pur essendo stata trattata male, riesce ancora a esprimere fascino a residenti e turisti. Basta che non vi soffermiate a guardare il terreno in cui poggiate le suole delle scarpe. Sì, si fa a tutto l’abitudine. Però c’è un momento in cui cominci a guardare e ti chiedi: ma è possibile? Io ho iniziato a metà di Via Sciuti, la vigilia di Pasqua, da un tratto di marciapiede dissestato. L’ho fotografato. Torno alla strada che avevo finora fatto, da Via Empedocle Restivo, e mi viene il dubbio che questa scena l’ho già vista. Comincio a fotografare tutti le imperfezioni, chiamiamole così, dei marciapiedi che sto percorrendo. Ben presto devo arrendermi. Finisco via Sciuti, percorro via Terrasanta e poi giro a sinistra per via La Farina. Ho ripreso solo un dieci per cento delle cose che non vanno e sono a una ventina di foto. Smetto di riprendere e continuo a vedere. Devo arrivare sino allo stadio. Non cambia la situazione, difficile fare più di pochi metri e non vedere buche, fessure, manti divelti, rattoppi più brutti di quello che dovevano coprire, un campionario di tutto rispetto. Se avessi continuato a fotografare, mi si sarebbe esaurita la memoria del cellulare. Stiamo parlando di un lungo tratto che sta al centro della città. Mi convinco, però, di avere sbagliato percorso. L’indomani pomeriggio, giorno di Pasqua, provo a farne uno diverso e più lungo. Viale Croce Rossa, Via Libertà, Via Ruggero Settimo, Via Maqueda sino alla stazione e poi ritorno da via Roma. Tranne qualche eccezione, la situazione dei marciapiedi, in cui camminano non solo coloro che possono stare attenti a non finire con la faccia a terra, ma anche tanti anziani, bambini e portatori di handicap, è pessima. Stessa cosa nel giorno di Pasquetta. Dopo pranzo decido di percorrere Viale del Fante, Via Imperatore Federico, costeggio la fiera, poi Via Autonomia Siciliana e risalgo verso il punto di partenza. Non cambia la situazione di una virgola. Ma coloro che devono curare questo aspetto non secondario della città, che riguarda non solo la sicurezza, ma anche il decoro, la bellezza, hanno mai passeggiato a piedi sui marciapiedi della zona centrale di Palermo? Non parlo delle periferie perché apriremmo, più che un capitolo, un baratro. L’hanno mai fatto gli amministratori e i consiglieri comunali? E se si, hanno visto qualcosa di diverso e di più decente rispetto a quanto descritto? Si può porre rimedio a tutto ciò? Ha la stessa importanza del Parco della Favorita? Certo, è più complicato, ma è anche più urgente. Ed è incomprensibile come quest’amministrazione, che già è a fine legislatura, non abbia messo mano a rendere sicuri e decenti, ai palermitani e ai turisti, gli spostamenti a piedi. Adesso, con l’istituzione delle ZTL, si chiede a tutti di servirsi dei mezzi pubblici e delle gambe per spostarsi nel cuore della città. Si cominci, allora, dal perimetro che costeggia l’ampio tratto delle due zone a traffico limitato e si prosegua poi andando verso l’interno. Si potrebbe utilizzare personale precario. Armato di macchine fotografiche, dovrebbe immortalare tutto ciò che non va e girarlo all’amministrazione. Che, utilizzando le maestranze a stipendio, potrebbe provvedere a sistemare tutto. Da qui alle elezioni manca più di un anno, almeno per la zona centrale ce la dovremmo fare. Potrebbe poi nascere, a supporto della prossima campagna elettorale, una mostra sui marciapiedi di una parte consistente del capoluogo. Com’erano e come sono diventati dopo la cura. Non sappiamo se davvero la Favorita, per la quale manca comunque anche un generico programma di come potrebbe diventare, sia il nuovo Teatro Massimo. Al momento non pare. In fondo, tenere pulito dovrebbe essere la norma. Lascerei, pertanto, perdere gli acuti, per utilizzare un termine lirico, e mi concentrerei sulla normalità. Cominciando da dove tutti ogni giorno mettiamo i piedi (La parte in neretto non è stata pubblicata per motivi di spazio).  

mercoledì 16 marzo 2016

Il parroco, le confraternite, il vescovo, i vivi e i morti.

La Repubblica Palermo
16 marzo 2016
I "torti" del sacerdote di Augusta e i peccati impuniti della chiesa siciliana
(alcune parti non sono state pubblicate)
Francesco Palazzo

In Sicilia pare che ci siano più di mille e settecento parrocchie, quindi ci saranno, più o meno, altrettanti parroci. Nella provincia di Siracusa le chiese parrocchiali sono 120. In questa provincia ricade la città di Augusta, dove svolge il presbiterato don Palmiro Prisutto. Al quale il vescovo aveva dato cinque giorni per dimettersi da parroco della chiesa madre. Ora la cosa è rientrata. Ma a noi pare nel modo peggiore. Quale sarebbe stata la colpa di questo prelato? Non avrebbe buoni rapporti con alcune confraternite. E questo, considerato che tali sodalizi sono spesso portatori di un cristianesimo fatto di devozionismo esteriore, potrebbe essere un titolo di merito. E, casomai, dovrebbero essere attenzionati tutti quei parroci che invece con le confraternite fanno pappa e ciccia, visto che talvolta vi si annidano presenze non proprio specchiate. Va ricordato che Don Puglisi, appena arrivato a Brancaccio, con la confraternita ebbe il suo primo contrasto. Tentò di rifondarla, ma fu lasciato solo anche in questo. In un’intervista a Repubblica, don Prisutto afferma, sulle confraternite, che “non ho tempo da perdere con un’idea di religiosità che, peraltro, non condivido affatto. Ho cose ben più importanti da fare”. Le cose più importanti da fare sono quelle che queste confraternite, che evidentemente hanno molto potere tanto da convincere un vescovo ad intervenire duramente, rimproverano al prelato. Dicono che pensa più ai morti che ai vivi. L’arciprete legge in chiesa la lista di quanti sono morti per patologie tumorali in quelle zone. Non solo Augusta, ma anche Melilli, Priolo e parte della stessa Siracusa. Quasi 180 mila persone. In questo distretto, dal 1949 a oggi, si è impiantato di tutto. Parliamo di quello che è stato il polo petrolchimico più grande d’Europa. Uno studio presentato nel 2013, e non è il primo, ci consegna dei dati. Alcune tipologie tumorali sono risultate in eccesso nella zona. Dunque un problemino un po’ più serio del portare in giro per le vie dei simulacri. Ci pare un pensare ai morti che si occupa di preservare quelli che sono ancora vivi. E pare che anche lo stesso vescovo e altri parroci condividano queste problematiche. Solo che don Palmiro non si è limitato a generiche esortazioni, ma ne ha fatto un tratto fondamentale del suo impegno. Come Don Puglisi. Quanti predicavano contro la mafia dopo le stragi del 92-93? Ma soltanto don Pino prese sul serio, portandola sino in fondo, la sua vocazione. Disturbando, come adesso il parroco di Augusta, come egli stesso sospetta, interessi forti. Ora don Palmiro intende portare tale pratica di leggere i nomi dei morti per cancro nella piazze. Per il vescovo, il quale afferma che le ultime parole concilianti pronunziate da don Palmiro durante una messa “sono il chiaro segno della sua volontà di comunione alla quale da tempo con paterna fermezza lo esortavo”, la vicenda è chiusa. Dal suo punto di vista nel migliore dei modi. Ma non dal nostro punto di osservazione. Ci sembra come la parabola del figliol prodigo che è tornato alla casa del padre. Ma quale sarebbe questo smarrimento della comunione da parte del sacerdote? Forse i mugugni delle confraternite? Possibile che il vescovo abbia parole cosi nette sul “ravvedimento” del suo confratello e non dica nulla a queste confraternite? Hanno tanto potere da zittire pure un principe della chiesa. E perché? La vicenda lascia l’amaro in bocca. E allora diciamola tutta. Possibile che tra tutte le incoerenze che possono essere addebitate al clero siciliano, non tutto è ovvio, ci sono tanti buoni parroci, proprio si deve colpire un prete come questo facendo di fatto vincere il potere di una religiosità molto discutibile? Ma non ce ne sono preti attaccati al denaro, che fanno finta di non vedere i mafiosi nelle confraternite, che vanno a passeggio con la politica diventandone clienti per ottenere finanziamenti, che diffondono dai pulpiti messaggi che fanno a pugni con il rinnovamento propugnato da papa Francesco? Perché questi vengono lasciati in pace? Ho appena visto il film Il caso Spotlight, sui casi di pedofilia nella chiesa. Un prodotto cinematografico che andrebbe proiettato in tutte le chiese. Ecco un campo dove la chiesa siciliana, invece di puntare un uomo di fede che svolge bene il proprio compito, potrebbe esercitarsi per vedere quanto e se è ampio nella nostra isola questo gravissimo problema.

domenica 13 marzo 2016

I bus e il Caravaggio. Ecco perché non pagherò la ZTL.



La Repubblica Palermo
12 marzo 2016 – Pag. I
I bus scomparsi come il Caravaggio
Francesco Palazzo

Può darsi che corrisponda al vero il rimprovero di chi amministra questa città circa l’abitudine dei palermitani che non vogliono staccarsi dalle proprie automobili per andare in centro. Se la decisione di lasciare a casa l’auto è più facile da prendere quando non si devono rispettare orari, nel momento in cui si ha un impegno, è più difficile rischiare. Anche se abiti non in periferia, ma a due passi dallo stadio. Ma tant’è. Domenica pomeriggio, per recarci a vedere l’ottimo spettacolo sul Caravaggio rubato, decidiamo di metterci alla fermata del 101, inizio di Viale Croce Rossa, alle 16 e 45. Lo spettacolo inizia alle 17 e 30, e anche se la vettura non passa ogni tre minuti, come in teoria dovrebbe accadere nei giorni feriali, contiamo sul fatto che in dieci minuti dovremmo essere a bordo e arrivare dunque in orario a Piazza Verdi. Dopo avere atteso il primo quarto d’ora, sono già le 17, cominciamo a fremere. Andiamo a prendere l’auto? No, attendiamo. Chiediamo a uno dei tanti che attendono. Aspetta da mezz’ora, dunque dalle 16 e 30. Ci rassegniamo. L’autobus transita dopo dieci minuti, alle 17 e 10, dopo venticinque minuti di attesa. Appena a bordo chiedo all’autista ogni quanto passa il 101, visto che l’amministrazione comunale aveva sbandierato che proprio questa linea era stata potenziata. Il conduttore risponde: «Il bus passa ogni quanto ce n’è». Come scusi? Scioglie il senso dell’arcana frase spiegandoci che mancano alla conta quattro vetture, forse guaste le vetture, forse assenti gli autisti, non l’abbiamo capito. Il bus, dopo tanta attesa, inutile dirlo, è pieno sino all’inverosimile, sembra più un carnaio che un mezzo di trasporto. In tutto il tragitto salgono almeno 150 persone, solo una piccola parte, una ventina in tutto, timbra il biglietto. Il resto viaggia gratis e sa di rischiare non più di tanto. Dei controllori neppure l’ombra. Eppure siamo in un orario di punta, con tanta gente che si reca al centro a passeggiare. Ma anche quando salgono, lo abbiamo visto altre volte, invece di sanzionare chi è senza tagliando, annunciano prima di salire a bordo la loro presenza, così chi è senza biglietto, ossia la stragrande maggioranza, ha il tempo di abbandonare il luogo del delitto. Insomma, per chi viaggia a sbafo, il massimo di disagio è rimettersi sul marciapiede e attendere il prossimo mezzo. Sperando che “gli sceriffi”, come li chiamano i nostri concittadini abituati a fare i portoghesi, non si rifacciano vivi. Intanto, dal finestrino, in mezzo a tutto questo casino, vediamo una stazione del bike sharing. Non abbiamo il pane e ci offrono il caviale e lo champagne. E il Caravaggio che ci attende? Può aspettare. Sono già le 17 e 30, lo spettacolo sta per iniziare e siamo ancora a Piazza Castelnuovo. A quel punto, visto che il bus deve fare ancora fare il giro della piazza, percorrere Via Amari, immettersi in Via Roma e percorrerne un bel tratto e che comunque non appena a terra ci attende il tratto alto di Via Cavour a piedi, decidiamo di scendere e di incamminarci a passo super svelto e col cuore in gola verso il Teatro Massimo. Entriamo trafelati nel nostro palco alle 17 e 45, perdendoci la parte iniziale della rappresentazione e dopo un’ora esatta da quando c’eravamo messi alla fermata. Questi i fatti, mentre sono ancora in ballo le ZTL, che si sostanziano nel pagare per inquinare o non pagare e affidarsi ai mezzi pubblici. Che, come vediamo, muovendoti in zona centrale, perché delle periferie è meglio non parlare, riescono a farti fare pochi chilometri in non meno di un’ora, con l’ultimo miglio fatto a passo da centometrista. Per quel che mi riguarda, ho già deciso. Non scucirò un solo euro per andare al centro con la quattro ruote. Perché lo vivrei come un ricatto, visto che i mezzi pubblici funzionano in tal modo. E i quattro bus desaparecidos? Chissà se sono ricomparsi. O forse è più facile ritrovare il Caravaggio?

giovedì 3 marzo 2016

Brancaccio: la mafia a fumetti e l'altro che si può dire del quartiere.

La Repubblica Palermo
3 marzo 2016 - Pag. IX
Mafia a Fumetti
Francesco Palazzo



Claudio Stassi (38 anni) e Giovanni Di Gregorio (42) sono due palermitani, il primo disegnatore, il secondo sceneggiatore. Stanno in Spagna da diversi anni. Claudio, che è originario di Brancaccio, dice che Barcellona è una Palermo che funziona. Entrambi sono dovuti andare fuori per vedere riconosciuti i loro talenti. Giovanni è chimico, comincia a lavorare con la Sergio Bonelli editore, scrivendo storie di Dampyr e Dylan Dog. Anche Claudio è nello staff di Dampyr come disegnatore. Ha al suo attivo anche il fumetto tratto dal libro Per questo mi chiamo Giovanni, che si rifà alla storia di Giovanni Falcone. Il loro ultimo lavoro, da poco nelle librerie e nei negozi specializzati, èBrancaccio. Storie di mafia quotidiana, edito dalla casa editrice milanese Bao Publising(14 euro). La prefazione è affidata a Rita Borsellino. Che ricorda quando, a un mese dalla morte di don Puglisi, un corteo a Brancaccio venne preso a colpi di pietre provenienti da un garage. Il racconto si snoda attraverso le strade di Brancaccio e le storie parallele di tre personaggi, Nino, Pietro e Angelina. Siamo nel settembre del 1994, a un anno dall’uccisione di don Puglisi, fatto fuori il 15 settembre del 1993. Nino va a scuola, frequenta il doposcuola nella chiesa di San Gaetano, quella dove operò Don Pino, deve confrontarsi con i coetanei che gravitano nel giro della malavita. Poi prende un motorino di un amico, ma in realtà sogna di imbarcarsi in un treno per andare via e lo scrive a don Pino. Ci riuscirà? Pietro è un venditore ambulante di pane e panelle, onesto ma legato alla cosca locale. A un certo punto lo convoca il medico capofamiglia, lo costringe a portare da mangiare a un latitante, che gli consegna un pizzino di ritorno. Ma sulla strada verso il quartiere l’imprevisto è in agguato. Angelina è una casalinga, la sua vita scorre tra la casa, la ricerca di una raccomandazione per un conoscente, le prescrizioni dal medico-boss, che le dice pure per chi votare. Poi va a sbattere in una Tac di un ospedale pubblico che non funziona perché gestito in maniera clientelare-mafiosa. Belli i disegni e coinvolgenti i dialoghi di questo lavoro. Ovviamente, Brancaccio non è solo quella descritta nel fumetto. C’è molto altro. Tanti laureati e diplomati, diversi professionisti, qualche professore universitario, famiglie che mandano i figli regolarmente a scuola, un reddito procapite medio non da terzo mondo, qualche associazione che svolge bene il proprio compito da molti anni. Ma, a 22 anni dal 1994, si avverte ancora la presenza asfissiante della mafia, così come la si sentì durante la seconda guerra di mafia con i morti a ogni angolo di strada. Coesistono, insieme alla parte più sana, che rappresenta la stragrande maggioranza, due sacche evidenti di disagio e marginalità. La prima creata ad arte trasferendo, all’inizio degli anni Ottanta, gli sfrattati del centro storico. Che oggi stanno condizionando negativamente una parte consistente del quartiere. La seconda parte complicata è quella storica, i cosiddetti Stati Uniti. Una realtà complessa il quartiere Brancaccio, che va letta a diversi livelli, così come tutti i quartieri che si definiscono difficili. Chi scrive ci è nato e lì ha vissuto sin quasi ai 30 anni, andando regolarmente a scuola e socializzando in ambienti sani. Come me tantissimi altri della mia generazione, ma anche di quelle precedenti e successive. Anche se è realtà accertata, da quello che ci dicono le indagini e i processi in corso, che il quartiere è stato l’epicentro della stagione stragista dell’inizio degli anni Novanta. Il fumetto, molto abilmente, mette in luce alcuni spaccati sicuramente presenti del rione, sia nell’immediato dopo Puglisi che oggi. E l’oggi spagnolo lo descrivono Stassi e Di Gregorio nell’ultima storia del fumetto, quella a colori. È il loro oggi di professionisti affermati che vivono nella vivace Barcellona non scordandosi delle loro radici. Vedono il mare e riflettono sul fatto che c’è pure a Palermo, ma non si vede. Rimpiangono solo il buon caffè palermitano. Ma in fondo, nello scegliere il nome a una bambina che deve nascere, quasi vorrebbero darle quello di una ragazza siciliana della giovinezza. Dalla quale sono stati traditi. Il suo nome, dice l’ultima vignetta del fumetto, è Palermo.