giovedì 27 ottobre 2016

I ristoranti spagnoli che non digeriamo e i nostri souvenir di mafia.

La Repubblica Palermo 
26 ottobre 2016
I souvenir col marchio mafia venduti sotto casa
Francesco Palazzo

La notizia è che in Spagna più di quaranta ristoranti con il logo mafia dovranno cambiare, su forte richiesta dell’Italia e su decisione dell’Europa, marchio. Non si può lucrare, questo era il senso della richiesta italiana, che è stata corredata dalle immagini delle stragi del 1992 e da quelle dell’assassinio di Piersanti Mattarella, su una cosa terribile come Cosa nostra. Ora però, visto che ci siamo, dovremmo spiegare all’Europa, e agli spagnoli, perché mai in Sicilia, terra che ha fondato la casa madre di mafia spa, ci sono migliaia di negozi, anche cinesi, che smerciano souvenir inneggianti alla mafia. Che, ovviamente, poiché è molto improbabile che un siciliano possa comprarne uno, visto che ha l’originale sotto casa, sono rivolti al mercato dei turisti. Che non so se li acquistano, ho chiesto più volte ai commercianti e ho avuto risposte evasive, ma intanto se li trovano un po’ dappertutto. Da Taormina a Cefalù, da Erice e a Palermo, da Catania a Modica. Anche nell’isoletta più sperduta trovi un negozietto che ti vende il mafioso e la mafiosa, le tre scimmiette che non sentono, non vedono e non parlano, tazzine, magliette con la foto del protagonista de il Padrino, statuine con lupare a tracolla, apribottiglie, magliette. Insomma, un po’ di tutto. Molto probabile che gli spagnoli, visitando la nostra isola, si siano portati dietro questi souvenir collocandoli nelle loro case. E poi magari siano andati in questi ristoranti spagnoli. Vivendo il souvenir siciliano e il menù legato alla strage americana di San Valentino del 1929 con sagome di mafiosi annesse, come un’unica esperienza folcloristica. Come la mettiamo allora? Come spieghiamo cioè all’Europa che non digeriamo, visto che si tratta di cibo, i ristoranti con il marchio mafia e poi lo vendiamo in migliaia di esercizi commerciali sparsi per tutta la Sicilia? Dovremmo impedire forse la produzione e la vendita di questa oggettistica? E a chi dovremmo avanzare istanza, nel caso ci decidessimo, all’Europa? Non sarebbe bizzarro? Ci potrebbero rispondere come mai, prima di chiedere la sanzione per i ristoranti spagnoli, non abbiamo guardato dentro casa nostra e dentro la cosa nostra che vendiamo ai flussi turistici italiani e internazionali. Ma forse la domanda che dobbiamo farci è un’altra. È possibile intervenire, o quanto meno ha senso farlo, perché visto il caso dei ristoranti spagnoli è possibile, sul mercato per fermare le sue espressioni più o meno eccentriche e certamente criticabili? Cioè, la critica deve coincidere con la censura. Si potrebbe rispondere di sì, se con l’attività censoria si potessero combattere le mafie. Ma sappiamo che così non è. E, anzi, quando un tempo, da ragazzino a Brancaccio, mi si diceva sottovoce di non parlare di mafia non significava certo che la stessa non esisteva solo perché mi proponevano di eliminarla dal mio pensiero e dal mio lessico. Allora, più che inseguire questo o quel particolare uso della mafia a fini commerciali, e quello dei ristoranti iberici è l’ennesimo caso e certamente non l’ultimo, potrebbero giovare percorsi alternativi. Ad esempio, mi trovavo ad Erice e, in un negozio accanto a quello che vendeva questi orribili souvenir pro mafia, ce n’era un altro dove si proponeva l’opuscoletto, edito dall’editore trapanese Di Girolamo, “La mafia spiegata ai turisti” (autore Augusto Cavadi), che già conosce una miriade di traduzioni in diverse lingue, pure in cinese e giapponese. Siccome è un testo che mi risulta essere molto venduto, e che viene proposto in diversi siti turistici in Sicilia, è possibile che tanti viaggiatori spagnoli lo abbiano comprato, sistemato nelle loro librerie e leggendolo si siano tenuti lontani dai ristoranti “La mafia se sienta a la mesa (La mafia si siede a tavola). Magari in questo modo, rispetto al proibire e basta, ci stiamo un po’ di più a creare una coscienza e, soprattutto, una conoscenza antimafia. Ma andremo molto più lontano.

giovedì 13 ottobre 2016

Ponte sullo stretto. La coperta di Linus dei siciliani.

La Repubblica Palermo - Pag. I
13 ottobre 2016
Se il ponte è un alibi
Francesco Palazzo

Il dibattito riguardante il ponte sullo stretto celebra sempre la sua penultima puntata. Ora le acque si stanno calmando dopo l’ultima presa di posizione favorevole del presidente del consiglio Matteo Renzi. Ma state certi che il battaglione dei siciliani, che sanno dalla a alla z di cosa è priva la nostra regione, sparerà sempre come un sol uomo. Le risposte negative dei siciliani sulla questione sembrano essere due. Ma la sentenza è sempre la stessa. Al fondo, come cercheremo di argomentare, c’è una ragione consistente quanto una balla di zucchero filato. Ci sono i siculi che esordiscono: premetto che sono d'accordo. Ed è come quando il tuo interlocutore inizia con l'excusatio non petita di avere un sacco di amici gay, che tu ti allarmi subito e fai bene. Dopo la premessa ti sciorinano una serie interminabile di cose che mancano nella nostra regione e che andrebbero fatte prima. Tanto che non capisci più cosa voglia dire quel sì. Poi ci sono i no da cui ottieni ragioni tecniche e ambientaliste, che sono però soltanto un preambolo per dipingere, che ve lo dico a fare, la solita lista della spesa di ciò che non c'è in Sicilia. Non vogliamo accennare ai risvolti tecnici e ambientalisti della grande opera. È un ginepraio dal quale è difficile uscire in buona salute. Basta dire che altri ponti simili, o più sfidanti dal punto di vista delle condizioni ingegneristiche o ambientali, sono stati innalzati in altre parti del mondo senza mettere in tavola tragedie da cavalleria rusticana. Per fare un solo esempio, ma potrebbero essere diversi, potremmo riferirci alla grande opera che collega la Svezia alla Danimarca. Realizzata con l'ingegno italiano e che un'amica ci descriveva entusiasta di ritorno da un viaggio. Chiedendosi perché in altri posti sì e da noi no. Altrove le cose semplicemente si fanno o non si fanno, qui ci ubriachiamo da tempo immemore di parole, chiacchiere e distintivi. Che se ci fanno il ponte test in qualche posto di blocco ci ritirano macchine, patenti e salvagenti. Ma il punto su cui vogliamo riflettere è un altro. Ed ha la forma della consueta litania, prima descritta, che si alza alta in cielo ogni volta che qualcuno pronuncia la parola ponte. Ma come, in Sicilia manca tanto e voi ci volete costruire il ponte sulla testa? Scherzate o dite vero? Il punto è capire perché quello di cui siamo sprovvisti non si è fatto nei 70 anni di autonomia speciale. Chi lo ha impedito? Probabilmente la dea bendata, o il destino cinico e baro, hanno reso vani gli sforzi. Eppure sono passati e passano sotto il nostro naso miliardi provenienti dallo stato e dall'Unione Europea. In altri posti hanno utilizzato questi fondi per progredire e tenersi i giovani che da noi fuggono, come riportato da questo giornale citando dati recenti della Fondazione Migrantes. In realtà, e lo sappiamo bene, questo contrapporre quello che non c'è all'idea del Ponte è solo una grande ipocrisia. Diciamolo chiaramente, allora. I soldi per fare altro in Sicilia in questi sette decenni repubblicani sono arrivati a fiumi e ne continuano ad arrivare. Se non si sono fatte le cose che ci servirebbero, ma anche qui si potrebbe discutere, perché non tutto in Sicilia è con il segno negativo, l'innocente ponte non c'entra assolutamente nulla. La questione del ponte richiama dunque non le colpe di Roma su quanto non ci ha concesso, ma le responsabilità di tutti noi abitanti di questa regione. Quello che siamo o non siamo, che abbiamo o che non abbiamo rappresenta la biografia di un intero popolo. Una decina di anni addietro venni invitato da un'associazione di sinistra a discutere di alcuni argomenti. Tra questi il ponte. Dissi, di fronte ad un uditorio che si aspettava parole diverse, che quel no al ponte era una battaglia ideologica di retroguardia e che avremmo fatto bene a guardare le nostre eventuali disattenzioni su tutto il resto. Fui redarguito e si guardarono bene dall'invitarmi una seconda volta. Molti siciliani da quella posizione di retroguardia non si sono più mossi invecchiando insieme ad essa.

Buco Amat non paganti. Non bastano gli agenti.


La Repubblica Palermo
5 ottobre 2016
Le inutili misure antiportoghesi
Francesco Palazzo

Potremmo iniziare così. Volete tenervi il servizio di trasporto locale pubblico finché morte non vi separi? Sì, lo vogliamo. Basta che copra tutta la città, soprattutto le periferie, con un numero adeguato di vetture, che non costi un botto e che la fruizione dei mezzi venga fatta pagare a tutti. Lasciamo al lettore il giudizio su come siano servite le periferie dai mezzi Amat, su quanti bus vi siano in giro e soffermiamoci sui costi, ovvero sulle perdite. Il servizio di trasporto deve gravare, anche, sulla fiscalità generale. Che non sono soldi vinti al superenalotto. L’amministrazione di un ente pubblico, prima di ricorrere ai contribuenti, deve fare l’impossibile per prendere il dovuto dal servizio che eroga. Altrimenti un cittadino corretto paga due volte. La prima rispettando le regole, la seconda quando una parte delle sue tasse vanno a foraggiare lo stesso servizio anche per colpa di chi non paga. Rovesciando la medaglia, c’è la possibilità che coloro i quali fanno i furbi, siano poi gli stessi che si distraggono quando c’è da pagare le imposte. Non pagando due volte. Ma quanti sono, e quanto ci costano, quelli che viaggiano gratis? Facciamo due calcoli partendo da un articolo di Sara Scarafia (Repubblica del 21 settembre). Nello stesso la dirigenza Amat dichiara che nei bus non paga uno su due. Ma anche nei tram, sempre a sentire la dirigenza, siamo a quote alte di evasione. Tra bus e tram ogni anno vi sono circa 26 milioni e 400 mila utenti. Stando alle percentuali condivise dall’azienda, 11 milioni e 880 mila non pagano. Visto che il prezzo del biglietto è un euro e quaranta, la perdita annuale di Amat, ossia della collettività, è più di 16 milioni e mezzo di euro. Con la quale si potrebbero coprire i costi annuali del tram, che arrivano a 15 milioni. Dalla vecchia ZTL si presumeva di ricavare 30 milioni da destinare al trasporto pubblico. Ipotesi che molto difficilmente avrebbe trovato riscontro nella realtà. Mentre con la nuova e piccola ZTL, partita male in quanto a ricavi, non sappiamo quanto ci prenderà il Comune. Ma, pure contenuto, l’incasso potrebbe potenziare il servizio dei bus, a patto che però si facciano pagare i quasi dodici milioni all’anno che viaggiano senza scucire un centesimo. Cosa metterà in campo Amat per combattere questo fenomeno? Da ottobre utilizzerà i vigilantes sulle due linee di tram e bus più affollate. Ci sembra una misura quattro volte inefficace. Sarà limitata nel tempo, sia come durata della convenzione che come presenza nelle ore della giornata, visto che saranno coperte solo le ore di punta. Riguarderà soltanto due tratte di tram e bus. Non si metterà in atto nessuna modifica organizzativa, tipo fare entrare dalla bussola davanti. Regola introdotta sulla carta ma rimasta lettera morta. Infine, questa vigilanza armata avrà un costo, mentre si potrebbe utilizzare parte del personale che già c’è in azienda e altro da prendere nelle sacche di precariato creato ad arte (ex PIP?) per fornire tutte le vetture di bigliettai. Allo stato c’è sotto il naso, senza che si riesca ad afferrarla, una montagna di denaro e, contemporaneamente, con un’improbabile ZTL, si tenta di far pagare i palermitani. Ma come, non gli fai pagare un servizio che eroghi e attendi il babbo natale della ZTL? Si può sostenere la gestione pubblica dei trasporti a fronte di un quadro simile? Visto che non si tratta di scuola o sanità, è un’eresia il ricorso al privato? Già avviene con i trasporti regionali su gomma, sinora non è morto nessuno, la gente si sposta tranquillamente da una parte all’altra della Sicilia, in orario e su mezzi discreti. Nessuno sale a bordo senza ticket. Il privato non può permettersi queste licenze poetiche. A maggior ragione non dovrebbe concedersele il pubblico. Sabato e domenica abbiamo preso quattro volte il 101. Quasi tutti non hanno pagato senza che dovessero rendere conto a nessuno. Ragazzotti che ti sbeffeggiavano e adulti che pontificavano sui massimi sistemi senza avere in tasca nessun titolo di viaggio. Per affrontare tale far west occorrono non quattro agenti. Ma una dirigenza che sappia affrontare alla radice, sistematicamente e definitivamente il problema.