La Repubblica Palermo
26 ottobre 2016
I souvenir col marchio mafia venduti sotto casa
Francesco Palazzo
La notizia è che in Spagna più di quaranta ristoranti con il logo mafia dovranno cambiare, su forte richiesta dell’Italia e su decisione dell’Europa, marchio. Non si può lucrare, questo era il senso della richiesta italiana, che è stata corredata dalle immagini delle stragi del 1992 e da quelle dell’assassinio di Piersanti Mattarella, su una cosa terribile come Cosa nostra. Ora però, visto che ci siamo, dovremmo spiegare all’Europa, e agli spagnoli, perché mai in Sicilia, terra che ha fondato la casa madre di mafia spa, ci sono migliaia di negozi, anche cinesi, che smerciano souvenir inneggianti alla mafia. Che, ovviamente, poiché è molto improbabile che un siciliano possa comprarne uno, visto che ha l’originale sotto casa, sono rivolti al mercato dei turisti. Che non so se li acquistano, ho chiesto più volte ai commercianti e ho avuto risposte evasive, ma intanto se li trovano un po’ dappertutto. Da Taormina a Cefalù, da Erice e a Palermo, da Catania a Modica. Anche nell’isoletta più sperduta trovi un negozietto che ti vende il mafioso e la mafiosa, le tre scimmiette che non sentono, non vedono e non parlano, tazzine, magliette con la foto del protagonista de il Padrino, statuine con lupare a tracolla, apribottiglie, magliette. Insomma, un po’ di tutto. Molto probabile che gli spagnoli, visitando la nostra isola, si siano portati dietro questi souvenir collocandoli nelle loro case. E poi magari siano andati in questi ristoranti spagnoli. Vivendo il souvenir siciliano e il menù legato alla strage americana di San Valentino del 1929 con sagome di mafiosi annesse, come un’unica esperienza folcloristica. Come la mettiamo allora? Come spieghiamo cioè all’Europa che non digeriamo, visto che si tratta di cibo, i ristoranti con il marchio mafia e poi lo vendiamo in migliaia di esercizi commerciali sparsi per tutta la Sicilia? Dovremmo impedire forse la produzione e la vendita di questa oggettistica? E a chi dovremmo avanzare istanza, nel caso ci decidessimo, all’Europa? Non sarebbe bizzarro? Ci potrebbero rispondere come mai, prima di chiedere la sanzione per i ristoranti spagnoli, non abbiamo guardato dentro casa nostra e dentro la cosa nostra che vendiamo ai flussi turistici italiani e internazionali. Ma forse la domanda che dobbiamo farci è un’altra. È possibile intervenire, o quanto meno ha senso farlo, perché visto il caso dei ristoranti spagnoli è possibile, sul mercato per fermare le sue espressioni più o meno eccentriche e certamente criticabili? Cioè, la critica deve coincidere con la censura. Si potrebbe rispondere di sì, se con l’attività censoria si potessero combattere le mafie. Ma sappiamo che così non è. E, anzi, quando un tempo, da ragazzino a Brancaccio, mi si diceva sottovoce di non parlare di mafia non significava certo che la stessa non esisteva solo perché mi proponevano di eliminarla dal mio pensiero e dal mio lessico. Allora, più che inseguire questo o quel particolare uso della mafia a fini commerciali, e quello dei ristoranti iberici è l’ennesimo caso e certamente non l’ultimo, potrebbero giovare percorsi alternativi. Ad esempio, mi trovavo ad Erice e, in un negozio accanto a quello che vendeva questi orribili souvenir pro mafia, ce n’era un altro dove si proponeva l’opuscoletto, edito dall’editore trapanese Di Girolamo, “La mafia spiegata ai turisti” (autore Augusto Cavadi), che già conosce una miriade di traduzioni in diverse lingue, pure in cinese e giapponese. Siccome è un testo che mi risulta essere molto venduto, e che viene proposto in diversi siti turistici in Sicilia, è possibile che tanti viaggiatori spagnoli lo abbiano comprato, sistemato nelle loro librerie e leggendolo si siano tenuti lontani dai ristoranti “La mafia se sienta a la mesa (La mafia si siede a tavola). Magari in questo modo, rispetto al proibire e basta, ci stiamo un po’ di più a creare una coscienza e, soprattutto, una conoscenza antimafia. Ma andremo molto più lontano.