giovedì 27 settembre 2007

Partito Democratico, candidato ma non troppo

LA REPUBBLICA PALERMO - GIOVEDÌ, 27 SETTEMBRE 2007
Pagina VIII
Metamorfosi di un elettore candidabile alle primarie
FRANCESCO PALAZZO




È inutile girarci intorno. Sono stato trombato agli albori della mia carriera politica all´interno del costituendo Partito democratico. Avevo deciso da qualche giorno di non andare a votare alle ennesime primarie senza sorprese possibili che, ecco, mi viene chiesta la disponibilità a entrare in lista per cercare di diventare uno dei 360 costituenti regionali del partito. A un mezzo no era seguito un sì. Avevo pensato: perché non andare a vedere le carte di un percorso politico che grida ai quattro venti di volersi aprire a esponenti esterni ai partiti? I parenti e gli amici, che avevano letto sul giornale il mio nome tra i papabili, già si erano informati a quale scranno di potere ero destinato. Cominciavano a guardarmi con occhi indagatori, per capire cosa ci avrei guadagnato. Dissolta con rassicuranti parole la diffidenza, avevo cominciato a spiegare, entrando nella parte e dimenticando le critiche che io stesso avevo pubblicamente formulato, l´importanza di un partito che fa votare i propri iscritti affinché eleggano i segretari politici nazionale e regionale. Certo, il solito nipote, un po´ arrogantello, che si sente chissà chi perché sfoglia qualche giornale, aveva obiettato che non era una grande prova di democrazia far votare la gente dopo aver imposto i candidati sicuri vincenti. Lo avevo licenziato su due piedi sottolineando la «complessità» della politica. Erano cose che non poteva capire alla sua tenera età. Incredibile, riflettevo durante il silenzio notturno che precede il sonno. Già era in atto la mia trasformazione in uomo di partito che tutto capisce, tutto sa e tutto giustifica sull´altare dei compromessi e degli accordi. Ma ormai il dato era tratto. Nel frattempo mi giungevano notizie di altre metamorfosi, simili o peggiori della mia. Erano altri uomini della cosiddetta società civile, contattati come me e ora anche loro «trombati». Potremmo costituire un club. Oppure formare una corrente di aspiranti democratici dentro il democratico partito. Ce ne sono già tante, una in più o in meno non scandalizzerebbe nessuno. Tranne un mio zio, che mi vuole un gran bene. Non riusciva a capire perché mai avrei accettato, contraddicendomi platealmente, di essere inserito in liste bloccate. Per intenderci le stesse della legge elettorale nazionale con la quale abbiamo votato nel 2006, turandoci il naso e tappandoci la bocca. Quella stessa che fa scegliere gli eletti ai partiti e poi chiama alle urne gli elettori e le elettrici. Ecco la critica che mi giungeva da sinistra, c´è sempre qualche saputello che pensa di scavalcarti e di fare il rivoluzionario. Sull´argomento, credetemi sulla parola, ho sfoderato tutto il mio estro riformista. Meglio fare piccoli passi, sentenziavo, mentre già si completava la mutazione genetica, che tentare invano di rovesciare il mondo da un giorno all´altro. Oggi vi facciamo votare per scherzo, domani vi faremo scegliere il colore dei gazebo, dopodomani anche quello delle schede. Poi, col tempo, si vedrà. Un passo dopo l´altro, senza premura. Ormai mi ero del tutto trasfigurato, la sera mi addormentavo tranquillo, senza più sensi di colpa. Poi, improvvisamente, il giorno successivo alla scadenza per la presentazione delle liste, mi viene comunicato che l´apertura alla società civile nel Partito democratico era prevista, per il genere maschile, solo nei giorni dispari. Per le donne anche in quelli pari, ma solo perché era un´imposizione. Malauguratamente, il giorno in cui si definivano le liste era il 22 settembre. Niente da fare. Per quel giorno i posti nelle prime file riservati agli uomini nella lista veltroniana erano stati prenotati da onorevoli nazionali e regionali, dai consiglieri comunali, dai dirigenti dei partiti e via elencando in una lista che non finiva più. È andata così. Però mi sono salvato. Da qualche giorno ricomincio ad avere sembianze umane. Ho contattato parenti e amici e ho spiegato che niente era cambiato. Non diventerò democratico. Così imparo, a 43 anni suonati, a credere ancora alle favole.

lunedì 24 settembre 2007

Commissione Antimafia Regionale, vorrei ma non posso

LA REPUBBLICA PALERMO - SABATO, 22 SETTEMBRE 2007
Pagina XII
Come rilanciare l´Antimafia regionale

FRANCESCO PALAZZO




L´Udc, è notizia di ieri, minaccia di non partecipare più ai lavori d´aula all´Assemblea regionale e di disertare pure le sedute delle commissioni, se non si costituirà la commissione Antimafia regionale. Stesse pressioni giungono da Alleanza nazionale. Il presidente dell´Ars vorrebbe una commissione riformata, con nuovi e più incisivi poteri. Che a oggi non ha mai avuto. E non solo perché non sono scritti sulla carta. L´antimafia seria la si fa anche con poco. Quando parliamo di gente come padre Puglisi o Giuseppe Impastato, per fare solo due esempi, ci rendiamo conto di come si possa incidere su tessuti sociali molto difficili, e il quartiere Brancaccio dei primi anni Novanta o la Cinisi degli anni Settanta lo erano senz´altro, con la forza della volontà accompagnata da una precisa scelta sociale, politica o religiosa. Puglisi e Impastato non hanno aspettato che una legge imponesse loro di fare antimafia. Allo stesso modo, spostandoci nel campo istituzionale e partitico, hanno agito Piersanti Mattarella da presidente della Regione e Pio La Torre da segretario regionale dell´allora Partito comunista.Non è insomma la carta che fa l´antimafioso, così come non è la Bibbia, faceva notare ieri Michele Serra su Repubblica a proposito di Provenzano, che fa il cristiano. L´Antimafia regionale, se davvero avesse voluto, avrebbe trovato, come succede quando le cose veramente interessano, i mezzi e le risorse per diventare il luogo istituzionale più importante nella regione per la lotta alla mafia, in particolare per ciò che concerne i rapporti mafia-politica-economia. Senza i quali Cosa nostra non sarebbe mai diventata un problema enorme, che da un secolo e mezzo è capace di evolversi passando dall´Italia liberale a quella fascista, viaggiando tra la Prima e la Seconda repubblica.Detto questo, ci rendiamo conto che una modifica legislativa può essere utile per aggiornare l´impianto dell´Antimafia regionale. È un´attività parlamentare, visto che siamo in Sicilia e non in Norvegia, che doveva iniziare sin dal primo giorno della legislatura, cominciata da quasi un anno e mezzo. Uno strumento sul quale si può lavorare c´è già. È stata infatti presentata da Rita Borsellino una proposta di legge (la numero 547 del 14 marzo scorso - leggibile per esteso dal sito dell´Ars). Non sappiamo che fine abbia fatto. Si propone di inserirsi in un testo che manterrebbe molte parti dell´attuale normativa.Il primo punto che introduce è che la commissione deve essere rinnovata a ogni inizio di legislatura entro novanta giorni dalla prima seduta del Parlamento regionale. La legge attualmente in vigore prescrive solo che può essere rinnovata, senza limiti di tempo. Limiti che l´attuale Assemblea regionale ha inteso sinora nel senso più largo e infruttuoso possibile. Viene aggiunto un comma che impedirebbe di essere eletti nella commissione a quei parlamentari sottoposti a procedimenti giudiziari per reati connessi all´associazione mafiosa e contro la pubblica amministrazione o che svolgano incarichi professionali per conto di soggetti indagati o con processi penali in corso per i medesimi reati.Poiché sinora non è stata mai presentata alcuna relazione al Parlamento regionale, tale proposta la rende obbligatoria entro il 31 marzo di ogni anno. In caso di inadempienza, trascorsi i trenta giorni, il presidente dell´Assemblea dichiarerebbe sciolta la commissione nominandone un´altra entro trenta giorni. Secondo la proposta della Borsellino, non può essere una relazione che parli d´aria. Deve comprendere un´attenta valutazione a livello regionale dello stato d´attuazione della legislazione nazionale e regionale sull´utilizzazione dei beni confiscati alla mafia, sulla lotta al racket e all´usura. Per ciò che riguarda le collaborazioni esterne, il disegno di legge prevede di stipulare convenzioni con centri studi, fondazioni e associazioni antimafia. È una novità anche in questo caso: la legge in vigore parla in maniera generica di collaborazioni esterne. Le quali, per quanto è a nostra conoscenza, non sono mai state attivate.Quindi, se si vuole davvero, si può iniziare a discutere anche da domani. Ricordandosi sempre che non è la norma che sorregge o crea l´antimafia nei singoli, quando questa non c´è o è carente

sabato 15 settembre 2007

Pino Puglisi a 14 anni dall'omicidio


LA REPUBBLICA PALERMO - SABATO, 15 SETTEMBRE 2007

Pagina I

L´ANALISI

Il metodo padre Puglisi una rivoluzione tradita
FRANCESCO PALAZZO





Molti palermitani che pure conoscono bene i fatti riguardanti la vita e la morte di padre Puglisi, si interrogano ancora sulle vere motivazioni dell´omicidio, del quale oggi ricorre il quattordicesimo anniversario. Le risposte, dopo la chiusura dei processi a carico di mandanti ed esecutori, possono apparire scontate. Il parroco di Brancaccio è morto perché faceva antimafia. Questo il primo, ovvio, responso. Se però si pensa che all´epoca dei fatti, nei primi anni Novanta, altri preti in maniera più eclatante svolgevano pubbliche azioni antimafiose, si può dedurre che la prima motivazione non spiega molto. Si può aggiungere che don Pino toglieva i bambini dalla strada. Ma, anche in questo caso, parliamo di un´attività che le parrocchie svolgono da sempre. La mafia ha poco da temerne, considerata la circostanza che moltissimi mafiosi sono frequentatori abituali di sacrestie. Un aspetto che invece apparirebbe più circostanziato è quello che porta al sospetto, infondato, che i mafiosi avrebbero avuto circa l´infiltrazione di investigatori nel Centro Padre Nostro, fondato dal sacerdote nel gennaio 1993 e già operante dal 1991. Tuttavia, visto che il potere mafioso riesce spesso a svelare questi movimenti, soprattutto in quartieri periferici dove tutti si conoscono, è davvero improbabile che Cosa nostra non sia venuta a capo dell´inesistente pericolo prima di premere il grilletto. Ma di padre Puglisi, certamente, la cosca mafiosa operante a Brancaccio aveva di che temere. Per come può leggerla uno come me, che è nato e vissuto nel rione, Puglisi mette in campo a Brancaccio, e porta sino in fondo, qualcosa che il quartiere aveva cominciato a conoscere attraverso l´esperienza di Rosario Giuè. Che lo aveva preceduto come parroco dal 1985 al 1989. Si tratta di un doppio percorso, pastorale e sociale. Un messaggio cristiano pulito, vissuto lontano dai palazzi del potere, frequentati casomai solo per chiedere diritti e non per officiare i riti dei potenti. Nei tre anni che Pino Puglisi sta a Brancaccio, dall´ottobre del 1990 al settembre 1993, il tratto che più colpisce è la povertà di mezzi. Non ci sono soldi eppure si mette su un centro d´accoglienza. E lo si fa non per dare i classici pacchi di pasta, che chissà quanto costano alle casse pubbliche, ma per dire a un quartiere intero che un´altra strada era possibile. Lontano dalla mafia e da coloro che politicamente e socialmente la coprono, anche se nelle ricorrenze si vestono strumentalmente d´antimafia. Ed era percorribile quella strada contando sull´apporto di alcune semplici suore poste alla guida del centro, che sposano subito la semplicità francescana e la gratuità che don Pino stava dando a tutta la sua esperienza. A cominciare da quella più prettamente presbiteriale e parrocchiale. Piena anch´essa di fede genuina, preparazione teologica, spessore cristiano. E non solo. Puglisi si avvicina al territorio politicamente. Non legandosi a cordate partitiche per fare carriera o trovare un posto al sole, ma valorizzando ciò che nel vivo del territorio nasceva, cioè il comitato intercondominiale Hazon. Formato da un gruppo di cittadini che chiedevano diritti elementari e non erano disposti a modificarli in favori, da ricevere su un piatto d´argento in cambio d´appoggi elettorali. Lo ricordo, da capogruppo dell´opposizione in quello che allora era il consiglio di quartiere, fermo e risoluto alla testa di quel gruppo di persone. Ecco la rivoluzione della normalità, della semplicità, della coerenza, della sobrietà, tentata in quel quartiere. Ecco gli ambiti da indagare se si vuole comprendere, al di là dei processi, perché don Pino è stato fatto fuori. Ciò serve più per affrontare l´oggi che per darsi ragione del passato. Di una chiesa di questo tipo sentiamo fortemente il bisogno. Di comunità cristiane siffatte necessitano sia le borgate periferiche sia le zone centrali. Il resto, tutto il resto, rischia di rivelarsi acqua fresca. A 14 anni dalla sua morte dobbiamo purtroppo rilevare che la dimensione, sociale e pastorale insieme, del piccolo prete di Brancaccio si è come sbiadita. Forse persa del tutto.

mercoledì 12 settembre 2007

Le donne e le piazze siciliane

LA REPUBBLICA PALERMO - MERCOLEDÌ, 12 SETTEMBRE 2007

Pagina VIII


L´assenza delle donne nelle piazze dei paesi siciliani

FRANCESCO PALAZZO






Nel periodo estivo, vuoi per qualche settimana di vacanza in Sicilia, vuoi per spostamenti prolungati nei luoghi di villeggiatura, capita spesso di attraversare molti paesi della nostra isola, dell´entroterra o costieri. Ogni paese, piccolissimo, medio o più grandicello che sia, dispone, almeno, di un corso principale e di una piazza centrale. Punti di riferimento quasi forzati della vita comunitaria, scenari sociali in cui si va per guardare e farsi vedere. Ebbene, passando di corsa o soffermandosi per una breve pausa, non importa la provincia, che tutte sono comprese, hai la sensazione che il tempo si fermi. Il fotogramma che passa nelle memorie di aggeggi elettronici o quello che rimane impresso nell´umano e personale ricordare, è sempre uguale a se stesso. Si tratta di un´immagine antica. Un copione tuttora invariato, che viene da lontano. Evidentemente condiviso sia dai protagonisti, tanto è rappresentato con naturalezza, sia dai casuali osservatori, i quali ormai lo considerano parte del paesaggio e probabilmente si sorprenderebbero se un bel giorno tutto mutasse. Il fatto è presto detto. Nelle piazze e nei viali principali, davanti ai bar e nei locali di svago, nei circoli e nei dopolavori troviamo uomini e solo uomini. A meno che non si tratti della passeggiata festiva domenicale nella via centrale o siano in corso i festeggiamenti per la ricorrenza del santo patrono. In questi casi il mondo torna a ricomporsi nelle sue naturali proporzioni di genere. Ma nelle mattine o nei pomeriggi dei giorni feriali, vale a dire nella normale vita quotidiana, nel palcoscenico pubblico la mela di genere torna a mostrarsi con una sola faccia, spaccata a metà come se fosse stata tranciata. Quindi solo maschi. Una volta erano solo con la coppola, assisi in quelle sedie dei circoli che potrebbero raccontare storia. Adesso di coppole se ne vedono meno, il bianco e nero di pantaloni, camicie, bretelle e copricapi resiste ancora. Trovano però sempre più spazio le magliette colorate e altre varianti, marchi del consumismo imperante. Sono, tuttavia, solo dettagli, niente di fondamentale si è trasformato. Per dirla tutta, anche in alcuni quartieri popolari di una grande città come Palermo si può assistere al fenomeno. Nei paesi la cosa è più eclatante. La scena di una piccola cittadina, al confine tra Messina e Catania, dove qualche settimana addietro si andava per prendere i giornali e per gustare superlative granite accompagnate da soffici e sproporzionate brioscine, era la seguente: uomini che giocavano a carte già alle nove del mattino sui tavolini disposti all´esterno del bar principale, di femmine neanche l´ombra. Solo alcune donne, a distanza di sicurezza, si occupavano di lavorare ai ferri, di schiacciare noci per preparare qualche dolce, di sovrintendere alla gestione del tabacchi edicola e di stare appresso ai pargoli. Ci diranno che oggi molte donne siciliane fanno carriera e che riescono a sfuggire a questi meccanismi. Osservazione vera quanto trascurabile, trattandosi di numeri davvero minimi. Resta il fatto che una larghissima percentuale di donne sicule sta dentro lo schema divisorio e fortemente discriminate prima accennato. Che non spiega tutto, è chiaro, ma che è un simbolo, una traccia, la punta di un iceberg del molto che c´è dietro. Il sintomo apparente di una malattia profonda. Leonardo Sciascia, se non ricordiamo male nel libro intervista "La Sicilia come metafora", rifletteva sul fatto che i figli dei contadini da un certo momento in poi cominciarono a farsi "vedere" con il vestito buono per le vie dei paesi alla pari dei figli dei benestanti. Lo scrittore di Racalmuto considerava tale cambiamento non una rivoluzione, ma, ancor di più, una fondamentale premessa perché cambiassero anche tanti altri aspetti della vita associata verso una sempre maggiore uguaglianza e giustizia. Anzi, diceva che forse proprio quella novità era il simbolo che tante cose stavano cambiando o erano già mutate. Che le donne, dunque, comincino nei vari paesi delle nostre contrade a comparire ai visitatori casuali e feriali, mescolandosi alle coppole nei bar, nei circoli, sedendosi sulle sedie disposte sui marciapiedi parallelamente alle strade, oppure inventandosi qualcos´altro, ma apparendo, potrebbe già essere un passo verso cambiamenti più profondi. O la spia, per dirla con Sciascia, che quelle trasformazioni sono già avvenute o stanno già verificandosi.

lunedì 10 settembre 2007

Partito Democratico Siciliano, candidati (non) cercasi



LA REPUBBLICA PALERMO - SABATO, 08 SETTEMBRE 2007

Pagina XII

Quali primarie per il Partito democratico


Non sappiamo se la candidatura di Giuseppe Lumia per la guida del Partito democratico siciliano andrà in porto. Vediamo che si sta comunque concretizzando attraverso una rete di contatti politici che la stanno caratterizzando in senso diffuso. Prima i ragionamenti e poi i nomi. Pare che siano questi i connotati della discesa in campo dell´esponente diessino. La cosa sta sparigliando le carte di quanti erano già in fase di decollo con un metodo diverso. Consistente nel fare prima il nome, uno solo e benedetto da Roma (che novità), per poi avviare una discussione che, per forza di cose e con queste premesse, si stava già muovendo su uno spartito da elettroencefalogramma quasi piatto. Verrebbe da chiedersi che senso ha tentare la costruzione di una nuova soggettività politica in tal modo. Peraltro in una regione in cui invece il centrosinistra ha bisogno di una forte scossa politica, che possa richiamare alla partecipazione masse di cittadini e cittadine che molto si attendono dal nuovo partito e tanto possono fare per esso e al suo interno. Pure non si comprende la logica che sta dietro all´elezione primaria, visto che poi si fa il tiro al bersaglio sui concorrenti che vogliono proporsi. Lo si sta facendo con Lumia, ci stanno provando con il primo ad avere ufficializzato la candidatura, cioè Ferdinando Latteri. È davvero uno strano modo di procedere. Elezioni sì, dunque, ma con un solo nome. I fautori della candidatura unica hanno il problema di non rompere il noto accordo ratificato in sede nazionale. Che attribuisce il segretario politico del Partito democratico nella nostra regione alla Margherita, anzi ad una parte di essa. Senza discussioni e senza confronti. Tanto che, appunto, ci si preoccupa vivamente che con due o tre candidature «si dia un segnale conflittuale e poco costruttivo». Parole lette con sgomento in un resoconto giornalistico e attribuite a un esponente siciliano di primo piano dei Ds. Insomma, le primarie siciliane del 14 ottobre non dovrebbero essere un vero e serio passaggio elettorale, ma una banale presa d´atto di un´investitura già ruminata e servita fredda nei gazebo elettorali. Niente di nuovo e sconvolgente, per carità. Questa terra è stata abituata, nei sei decenni dell´Italia repubblicana, a dover fare i conti con prassi e metodi pensati al di là dello Stretto e poi interpretati fedelmente dalle classi dirigenti locali come fatalità immodificabili. Senza contare che talvolta, o molto spesso, vi sono quelli che si rivelano più realisti del re. I quali riescono a mettere in scena rappresentazioni monocromatiche in cui non si lascia il minimo spazio alla creatività e alla fantasia, pur possibili anche in presenza d´indicazioni provenienti dall´alto. Allora occorre che scenda nell´agone la forza del singolo, preceduto e accompagnato da un progetto politico capace di motivare un elettorato siciliano di centrosinistra, stanco delle mezze misure, dei calcoli, della mancanza di coraggio. Di una politica che pare muoversi avendo costantemente sotto il sedere la rete protettiva del già sperimentato e consolidato. È inutile plaudire al coraggio antimafioso dei dirigenti siciliani di Confindustria se poi politicamente, come partiti, non si è in grado di perseguire strade che aprano nuovi orizzonti di senso e d´impegno. In grado di fare i conti con tutto il male e con tutto il bene che questa terra è in grado d´esprimere. Ci dicono che fare bene un partito è difficile, e noi ci crediamo. Abbiamo però la vaga impressione che farlo male sia, al contrario, abbastanza facile. La possibile candidatura di Lumia, e quella già avanzata dello stesso Latteri, se non renderanno semplice il difficile, sono quantomeno in grado di diradare, da subito, le false partenze. Queste ultime, sì, davvero evitabili.

Racket mafioso, tra imprese che si svegliano e politica assente


LA REPUBBLICA PALERMO - MARTEDÌ, 04 SETTEMBRE 2007
Pagina I
LA POLITICA IN RITARDO
FRANCESCO PALAZZO




La decisione di voler mettere fuori dall´associazione degli industriali chi paga il pizzo alla mafia è rivoluzionaria. La nostra regione è tornata a porsi in primo piano. Non per un omicidio, non per i lavavetri ai semafori e neanche per una classe produttiva che non vuole pagare le tasse. Non c´è tornata per merito di una lotta alla mafia rimessa in campo dai partiti e dalle istituzioni rappresentative. Queste due entità, grosso modo, dormono sonni tranquilli, tranne che per esternare solidarietà alle vittime e applaudire le forze dell´ordine quando concludono brillanti operazioni. Rimane in mezzo al guado l´Assemblea regionale siciliana. Che ancora, senza più scusanti, vergognosamente possiamo ben dire, tarda a formare una commissione parlamentare antimafia che non sia solo un dovere istituzionale, com´è stata sino alla passata legislatura, ma il primo presidio regionale della politica nella lotta alla mafia. Questa sarebbe la risposta da fornire agli imprenditori che vogliono scrollarsi di dosso il giogo mafioso. Il dibattito che si annuncia, in occasione della probabile seduta straordinaria dell´Ars sull´argomento racket, rischia soltanto di riversare su tutti noi fiumi d´inutile retorica, che serviranno soltanto a coprire formalmente il vuoto sostanziale che la politica siciliana mostra di avere sulla questione mafiosa. L´opposizione all´Assemblea regionale, se ricordiamo bene, dispone di una delegazione parlamentare che supera abbondantemente le trenta unità. Possibile che non riesca a pressare, anche ricorrendo a una simbolica occupazione dell´aula, al fine di giungere alla composizione della commissione? Non possiamo sottacere il messaggio rassicurante che la politica siciliana, la sua massima istituzione, in tal caso manda alla mafia e quello poco confortante che invia a tutti noi e alla classe dirigente imprenditoriale siciliana. Quest´ultima riconduce, come dicevamo, la Sicilia al centro del dibattito nazionale. Sicindustria non chiede agli imprenditori di fare gli eroi, ma prospetta un maturo cammino collettivo per uscire fuori dalle tenaglie del racket mafioso. È una mutazione di prospettiva e non ha importanza che in questo momento ci si limiti alle parole, perché s´introduce nel vivo del tessuto imprenditoriale siciliano una soluzione di continuità che seminerà parecchio e in profondità. A questo punto, però, va posta onestamente una questione molto delicata. Affermare che saranno messi alla porta dell´associazione degli industriali le imprese e i relativi imprenditori che versano il pizzo e non denunciano l´aggressione che subiscono, ma anzi talvolta la cercano per lavorare «sicuri», in un regione in cui più dell´80 per cento delle imprese paga tranquillamente, significa poi agire di conseguenza. La rivoluzione annunciata dagli industriali non deve restare dunque una affermazione di principio. Quando sarà accertato che un imprenditore ha pagato il pizzo alla mafia, Confindustria dovrà indicargli la porta d´uscita, nel rispetto di regole e garanzie che al momento sono ancora da definire. In caso contrario la «rivoluzione culturale» appena iniziata comincerebbe a ripiegarsi dolorosamente su se stessa, nel riflusso che tanti momenti d´emergenza di lotta alla mafia hanno a un certo punto fatalmente conosciuto. Speriamo che così non vada, ma il rischio, come i nostri lettori possono ben comprendere e come ben sanno i dirigenti attuali di Confindustria in Sicilia, non è campato in aria. Quello che vogliamo dire è che ci si trova di fronte a un primo passo. Adesso il difficile sarà camminare con coerenza nel quotidiano, non appena si saranno spente, e accadrà presto, le luci dei riflettori.