domenica 6 dicembre 2020

Antimafia, la pizzeria di Francoforte e i gadget della Sicilia: la pagliuzza e la trave.

 La Repubblica Palermo – 6 dicembre 2020

Mafia, quella pizzeria tedesca gemella dei gadget col padrino

Francesco Palazzo

 Il fatto che Giovanni Falcone, secondo una sentenza di quel Paese, non meriti tutela in Germania, visto che una notissima immagine ritraente il giudice ucciso il 23 maggio del 1992 e Paolo Borsellino si trova affiancata in un ristorante-pizzeria di Francoforte a quella del celebre Padrino venuto fuori dal romanzo prima e dal film dopo, può indurci certamente all’indignazione e alla protesta. Come ogni volta che sentiamo scalfita, o toccata in malo modo, la memoria legata a uno dei periodi più bui della nostra storia repubblicana. Quando Cosa nostra decise, dopo un lungo periodo di quasi bilaterale non belligeranza, di fare la guerra a quella parte, molto minoritaria sia chiaro, dello Stato che la stava combattendo e pure bene. Se quella fetta largamente minoritaria e perciò facilmente eliminabile sia oggi, dopo quasi trent’anni dalla stagione stragista, diventata maggioritaria, sarebbe una bella domanda da porsi. Con una risposta che faremmo male a dare per scontata. Ma non è questo l’oggetto del nostro ragionamento. Dunque, i due giudici, il ristorante di Francoforte sul Meno che si chiama “Falcone e Borsellino”, i buchi sui muri, il famoso Padrino. Il male e il bene accanto. Un’ipotesi di lavoro. Che ci induce, con molte ragioni, a chiedere conto e ragione. Ne abbiamo diritto. Dovremmo tuttavia spiegare ai tedeschi, e spiegarci innanzitutto, come mai vendiamo tranquillamente in Sicilia, e nei luoghi di maggiore afflusso turistico, da Taormina a Erice, da Cefalù a Palermo, gadget di ogni tipo, di fatto inneggianti alla mafiosità. Per i quali, come sempre in questi casi, non credo funzionerebbe il proibizionismo, che anzi ne farebbe aumentare di molto il valore di mercato e dunque la richiesta. Anche se ovviamente è ben strano un popolo come quello siciliano il quale, pur avendo pagato un così alto prezzo nella lotta al sistema criminale mafioso, lo esponga come cosa quasi innocua in tanti punti vendita. Sarebbe un po’ come se in Germania vendessero a fiumi cavatappi, bicchieri, fazzoletti, calamite, grembiuli, mazze, e via elencando, con le immagini di un nazismo sdoganabile. Come affrontare perciò la questione interna, che è sempre propedeutica a qualsiasi fronte straniero? Potrebbe essere utile invadere il mercato dei gadget con i simboli, le facce, le parole dell’antimafia. Sarebbe peraltro un’occasione di lavoro per i giovani. Insomma, se noi permettiamo, senza affrontare la questione in alcun modo, che la memoria venga strapazzata a casa nostra, perché pretendiamo, al di là del pronunciamento di un giudice, coerenza dagli altri? I tedeschi che transitano da noi penseranno che sia normale. E dunque troveranno pure fisiologico che nel proprio Paese in un ristorante la mafia venga impressa vicina ai simboli antimafia. Almeno in quel luogo mettono insieme le due facce opposte della medaglia. E magari, senza volerlo, invitano a una riflessione. Noi nei nostri negozi di souvenir non facciamo neppure questo.

 

sabato 14 novembre 2020

La pandemia e le chiusure. Degli altri.

 

La Repubblica Palermo – 14 novembre 2020

“Chiusura sì, ma non a casa mia”. I veti corporativi che aiutano il virus

Francesco Palazzo

Quello che si sviluppa, in epoca di chiusure e divieti, è la difesa delle varie categorie. Andrebbe studiata a fondo. Intanto perché capovolge la famosa locuzione che farebbe vedere l’erba del vicino sempre più verde. Stavolta no, il giardino mio è pulito e tutto disinfettato, ci potete mangiare, quello degli altro no, lì vi beccate il virus. Allora abbiamo siti dove si dispensano cultura, arte, spettacoli, istruzione, supersicuri, sui luoghi di culto potete metterci tutte e due le mani sul fuoco, sulla ristorazione manco a dirlo. E l’elenco potrebbe proseguire, sia chiaro. Vogliamo per caso trascurare la sicurezza dei luoghi dove si fa sport? Possiamo mai dubitare dei mercati rionali? Appena provi a imbastire un discorso di buonsenso ti becchi la foto della spiaggia di Mondello o della passeggiata, indubbiamente di massa, lungo l’asse che a Palermo va da via Libertà a via Maqueda attraverso via Ruggero Settimo, ma la stessa cosa succede un po’ ovunque. Vogliamo del resto negare alcune vasche di passeggio nei fine settimana mentre impazza il coronavirus? Non sia mai. Magari i sindaci, sino a quando non saremo in acque meno perigliose, e per ora sono in tempesta, farebbero meglio a non concedere le isole pedonali. Perché sono dei catalizzatori di folla, stazionante o meno ha poca importanza, visto che si passeggia a stretto giro di gomito. Perché il punto è proprio questo. Inutile girarci attorno. Le persone vanno tenute il più possibile a casa. E non perché ci siano ambiti non sicuri, dove non vengano rispettate le procedure. Ma per il fatto che mettere il naso fuori dalle mura domestiche significa aumentare esponenzialmente la socialità. E non possiamo permettercelo. A meno che non vogliamo andare a finire dentro il baratro accusandoci a vicenda sulle altrui falle. La verità è che non abbiamo saputo, voluto, e non ci riusciamo ancora, rispettare delle minime regole, quasi da asilo nido, su mascherine, distanziamento e lavaggio delle mani. Non si può permettere una pur guardinga socialità a persone, non tutte ma una bella fetta di umanità, che non riescono a fare cose elementari. E allora hanno poco senso i corporativismi. Non hanno mai senso, per la verità, ma ora meno che mai. Non so se ricordate il detto: «Sono tutto casa e chiesa, è il tragitto che mi frega». Ecco, tra un capo all’altro delle nostre buone intenzioni, siamo tutti in teoria bravi e additiamo gli altri come brutti, sporchi e cattivi. In realtà forse dovremmo guardare meglio ciò che abbiamo davanti e quanto possiamo fare nel quotidiano per riprendere il filo di una matassa sin troppo ingarbugliata. Ricordandoci, soprattutto adesso che ci avviamo verso il periodo delle feste di fine anno, che la norma ci dice cosa non possiamo fare, l’intelligenza ciò che non dobbiamo nemmeno concepire. A meno che non pensiamo che ci sia qualche capro espiatorio, che magari si presta alla perfezione all’uso, nei confronti del quale puntare le nostre fiches di salvezza. Ma così facendo potremo forse portare a casa indenne il nostro precario circuito mentale. Ma poco faremo, come singole esistenze, al fine di contribuire a neutralizzare la pandemia.

mercoledì 21 ottobre 2020

Il metodo di Don Pino Puglisi viva in tutte le parrocchie.

 La Repubblica Palermo - 21 ottobre 2020

L’antimafia proclamata dalla Chiesa non sempre arriva nelle parrocchie

Francesco Palazzo

Quest’anno siamo a 27 anni dall’uccisione per mano mafiosa di don Pino Puglisi. Oggi viene festeggiato nel calendario liturgico della Chiesa cattolica. È la ricorrenza del suo battesimo, avvenuto nella chiesa di Santa Maria della Pietà alla Kalsa. Quel colpo di pistola alla nuca del 15 settembre 1993, che per gli uomini del disonore voleva significare la parola fine a una parabola umana e pastorale (le donne, anche trovandosi dentro meccanismi criminali, difficilmente ricorrerebbero all’eliminazione delle persone), ha invece dato l’avvio a sentieri di consapevolezza. Pieni di parole e sentimenti profondi, documenti pregnanti, momenti importantissimi, come la beatificazione del 2013 e la visita di papa Francesco del 2018. In questi giorni nel nome di "3P" l’arcidiocesi ha espresso vicinanza agli imprenditori che hanno denunciato le richieste di pizzo al Borgo Vecchio. La cornice di riferimento, al seguito del sacerdote ucciso da Cosa nostra, è dunque abbastanza delineata. Ma cosa c’è dentro? Abbiamo linee di riflessione e d’intervento comuni a tutte le parrocchie, non soltanto palermitane, che seguano le orme di Puglisi? Oppure tutto viene lasciato alle sensibilità di parroci e fedeli? C’è differenza tra una contrapposizione alla mafia che avvenga nei piani alti e rimanga intrappolata nei documenti e nelle omelie dei vescovi e un contrasto che invece si sposti sui singoli territori parrocchiali. Don Pino non muore perché si diletta sui massimi sistemi antimafia, sarebbe ancora vivo e vegeto. Ma in quanto svolge sino in fondo il proprio compito in quel fazzoletto di territorio nel quale era stato mandato, Brancaccio, ma probabilmente allo stesso drammatico epilogo si sarebbe giunti pure altrove. Il punto è che non basta dire che i boss sono scomunicati o che il messaggio evangelico è incompatibile con loro. Ciò, ammesso che si riesca nell’intento, prova a sbarrare le porte d’ingresso dei luoghi di culto agli esponenti del crimine. Ma non elimina il problema che permane nei territori in cui insistono gli ambiti parrocchiali. Ci vuole un metodo, da applicare in tutte le parrocchie, per provarci in maniera significativa ed efficace. Senza che dipenda dagli umori e dal coraggio dei singoli. Così come si fanno battesimi, prime comunioni, cresime e matrimoni, si dovrebbe mettere in campo un programma. Perché, lo abbiamo visto con Puglisi, non applicare in massa tale ragionamento, porta all’isolamento. Se nel 1993 tutte le parrocchie si fossero mosse come quella di don Pino, lui non sarebbe diventato un bersaglio. Siamo ancora a quella fase? Più o meno sì. Allora perché non provarci, davvero, a seguire Puglisi? Avanzo alcune proposte. Si può partire da un’analisi socio-economica di ogni singolo territorio parrocchiale. È ciò che ha fatto Puglisi. Poi si dovrebbero avere rapporti stabili con cittadini, organizzati o meno, che perseguano diritti e servizi per tutti. Don Pino ha dato fastidio per questa sua azione sociale e politica. Inoltre si dovrebbe promuovere la creazione di centri sociali legati strettamente alle parrocchie, che servano a creare promozione umana e cittadinanze mature e non a drenare risorse pubbliche limitandosi alla carità. Questo fu il nocciolo dei tre anni del parroco di San Gaetano. Si dovrebbero aggiungere approfondimenti sulle storie delle mafie e sui loro legami con le istituzioni, la politica, la società, borghese e popolare, attraverso incontri con esperti. Cercando di arrivare sin dentro le celebrazioni eucaristiche. Destinando, ad esempio, una volta al mese, il ricavato delle offerte alle vittime del racket delle estorsioni. Fonte considerevole delle entrate dei sodalizi mafiosi. Se non si fa questa operazione di riempimento della cornice di cui si parlava all’inizio, Puglisi sarà un santino e non uno che indica un cammino che si può e si deve percorrere, con un’agenda precisa, in tutte le comunità parrocchiali.

 


giovedì 10 settembre 2020

Cosimo Scordato: le scelte della chiesa, il ruolo delle comunità cristiane e un possibile vescovo.

                                                 La Repubblica Palermo – 9 settembre 2019

La proposta per non disperdere la lezione di Cosimo Scordato

Francesco Palazzo


Sul ritiro di Cosimo Scordato dalla guida profetica della Rettoria di San Francesco Saverio all’Albergheria, mi sento di avanzare una domanda sul passato, una considerazione sul presente e una doppia proposta sul futuro. Su quanto è stato va osservato che se più presbiteri acquisiscono sul territorio dei meriti particolari, sarebbe giusto che chi è preposto a tali nomine si ponesse la domanda di scegliere tra loro la guida della diocesi. Non sono uno storico della chiesa palermitana, ma non so a quale periodo bisogna risalire, ammesso che sia mai accaduto, ma dovrebbe essere la norma, per trovare un prete che formatosi e operante a Palermo sia diventato arcivescovo. Insomma, mi chiedo, è stato corretto, per quanto poteva dare a tutta la diocesi, avere tenuto per quasi un quarantennio un eccellente sacerdote e un teologo di rilievo come Scordato, in una posizione significativa ma non di primo piano? Per ciò che concerne il presente osserviamo reazioni solite in questi casi. Ci si augura che mandino uno simile come sostituto, poi ci sono quelli che lo seguiranno dovunque andrà. I più saggi sperano che vi siano in giro sempre più presbiteri di qualità come lui. Ma quella che, anche involontariamente, si dipinge in tal modo è una chiesa gerarchicocentrica, dove tutto dipende dalla cultura, dal carattere, dalle aperture, dallo spirito democratico dei parroci. Ma a San Francesco Saverio, certo anche per merito di Scordato, ma con l’apporto di tante donne e tanti uomini, come ricordato dallo stesso nell’intervista pubblicata su Repubblica il 6 settembre e durante l’ultima celebrazione, è accaduta una cosa diversa. Si è formata una comunità di fede matura, laica direi, dove per laicità si deve intendere un modo non rigido di affrontare i ragionamenti intorno a tematiche complesse. Allora quello che si deve auspicare è che questa comunità prosegua e rafforzi il cammino intrapreso e che l’arcidiocesi faccia in modo di replicare simili percorsi in tutte le parrocchie. Che non possono essere sacerdoti dipendenti, come quasi sempre capita. Se il presbitero continua ad essere il tutto e il capo, tanta strada è da fare. L’insegnamento di Cosimo, così semplicemente in tanti lo chiamano, è proprio questo. Essere diventato parte, non comandante, del luogo che gli è stato assegnato. E a questo punto, come proposta, inseriamo un doppio auspicio. E cioè che Don Scordato abbia, non per mero titolo ma perché potrebbe ancora dare molto, una posizione nella diocesi di ampia visibilità. Si potrebbe pensare alla doppia carica di vescovo ausiliare, non ha ancora 72 anni e potrebbe stare sino a 75, e di stimolatore nelle parrocchie di comunità di fedeli che abbiano lo stesso approccio, non gli stessi pensieri, di quello nato in questi decenni a San Francesco Saverio. Sarebbe un buon modo per non disperdere il suo apporto dentro la chiesa palermitana. E per affermare che i cattolici faranno molti passi in avanti se metteranno in campo non soltanto preti di spessore, ma soprattutto ottime comunità di credenti.

 

mercoledì 2 settembre 2020

I giovani che tornano a lavorare al nord dopo il lockdown trascorso al sud.

 La Repubblica Palermo – 1 settembre 2020

La politica dei sussidi che fa fuggire i nostri giovani

Francesco Palazzo


 Quasi tutte le famiglie, in questi mesi d’emergenza sanitaria, hanno fatto, e in parte continuano a fare, un’esperienza particolare. Che non era messa nel conto a inizio 2020. Convivere con i giovani tornati, temporaneamente, in terra sicula e più in generale nel meridione. Sia per completare gli studi in vista di una laurea magistrale, ma già pronti sulla rampa di lancio per tornarsene al nord o in giro per l’Europa. Sia per lavorare in smart working o per una pausa, pronti a continuare o ricominciare altrove ora che l’economia, in timida ripresa nelle regioni forti, sta consentendo loro di staccare l’ennesimo biglietto di sola andata. Del resto, solo da sistemi economici produttivi e solidi hanno continuato a ricevere in questi mesi offerte lavorative qualificate da aziende di alto livello pur in un periodo di forte crisi come quello che ci tocca vivere e che durerà non sappiamo ancora quanto. Qua al massimo, e mi riferisco a un fatto realmente accaduto, un ingegnere gestionale, che ha completato triennio e biennio magistrale, può vedersi proporre uno stratosferico porta a porta. Guardiamoli negli occhi, queste donne e questi uomini, perché tali ormai sono, finiamola di chiamarli ragazzi, che sono tornati per poco tempo a viverci accanto. Respiriamo la loro freschezza mentale e impariamo dalla loro voglia implicita di non voler più sentire parlare di sussidi. Sanno quanto valgono e vogliono dimostrarlo. Ma non riusciamo a fare loro strada. Fermi come siamo, purtroppo, ad ascoltare, ancora, nel 2020, sirene che inneggiano al solito schema di gioco che guarda all’assistenzialismo del socialmente utile. Con il quale si è sempre vinto facile a queste latitudini. Relegando queste terre ad un destino non bello e portandole fuori dalla strada dello sviluppo. Ma come ha detto Mario Draghi al recente Meeting di Rimini, c’è bisogno d’investire su di essi, facendo in modo che le varie forme di assistenza siano di breve periodo e non strutturali e di lunga durata. Anche perché, ha chiosato l’ex presidente della Banca Centrale Europea, abbiamo un obbligo morale verso di loro, visto che saranno quelli che dovranno onorare i debiti che stiamo necessariamente contraendo in questo momento drammatico. Confrontarsi con loro, con questi nostri figli, figlie e nipoti, in questi mesi, è stato ed è utile per chi ha i piedi piantati anagraficamente nel ‘900, ma la testa nel domani. Per coloro che ancora affondano in una società che ha prodotto a piene mani e produce ancora interventi paternalistici e caritatevoli, la via è sempre la stessa. Nel volume, pubblicato da Rubbettino, da poco in libreria, "Divario di cittadinanza - Un viaggio nella nuova questione meridionale", Antonio Fraschilla e Luca Bianchi, dopo un’analisi accurata anche di questa problematica, riportano la cifra che il sud ha perso negli ultimi 20 anni per questa fuoriuscita migratoria. Circa 30 miliardi. Come società siciliana dovremmo farci guidare da queste giovani colte generazioni. Convincerle con tutti i mezzi a riprovarci nella loro terra. Ma occorre mutare mentalità, cambiare scenari, capovolgere la clessidra. Lo capirebbero subito loro. Quando inizieremo a vederli alla guida della nostra società meridionale, in tutti gli ambiti, vorrà dire che gli avremo fatto veramente spazio. Se non lo sapremo fare i divari di cittadinanza, rispetto alla parte più ricca del paese saranno sempre più evidenti e marcati.

 

domenica 2 agosto 2020

Pietro Valdo Panascia che anticipa Addiopizzo e un manifesto di tutti i credenti oggi per un'antimafia senza retorica.

La Repubblica Palermo – 1 agosto 2020

Un manifesto davanti a tutte le chiese per rilanciare l’antimafia senza retorica

Francesco Palazzo


L’antimafia dev’essere ripensata? Sì, nel profondo. L’argomento non è nuovo. E riguarda una minoranza di soggetti e realtà associative. Ci sono tantissime persone le quali, pur non avendo nulla a che fare con le mafie e ad esse contrapponendosi, non vanno alle commemorazioni e non vivono la militanza. Sfuggendo ai vizi ad essa talvolta connessi, che vanno uniti ai meriti. Occorre circostanziare analisi e proposte, evitando di far coincidere una piccola parte col tutto. Dobbiamo tenerci il prezioso bambino della memoria, fatta di storie, luoghi, e verità ancora negate, continuando ad aggiungere studi aggiornati e azioni sempre più specifiche, ed eliminare l’acqua sporca di un’antimafia inzuppata di retorica, personalismi e mere celebrazioni. Anche perché ad alto rischio infiltrazioni. Le persone, e il coraggio che ci hanno messo, rimangono punti di riferimento. Dobbiamo fare in modo che resistano alle postume debolezze umane, senza però ritenere che si ricominci ogni volta da capo e senza porsi come quelli che hanno in mano le dieci tavole della legge. Tenendo presente che in moltissimi casi il dopo non conosce problematiche particolari. Come quello del pastore della Chiesa valdese Pietro Valdo Panascia. La circostanza che gli sia stato dedicato, il 5 luglio, a tredici anni dalla scomparsa, un tratto di via Isidoro La Lumia, a due passi dal bel tempio valdese, ci consente di riflettere su due versanti del suo operato. Durante il periodo in cui fu pastore, dal 1956 al 1970, rese la sua Chiesa autonoma, l’unica da Roma in giù in grado di eleggersi il pastore. Quello che in questo mese s’insedia in via dello Spezio è stato votato dai credenti. Nei primi secoli del cristianesimo i vescovi e i diaconi erano scelti dai fedeli. Non è una cosa slegata dalla lotta alla criminalità. Dove c’è condivisione e democrazia, il percorso di contrasto non bacato ha più possibilità di attecchire. L’altro aspetto che ha reso Panascia riconoscibile, in ambito non soltanto locale, visto che della vicenda si interessò Paolo VI, è il manifesto, apparso all’alba del 7 luglio 1963 (una copia si trova dentro il luogo di culto), contro la violenza mafiosa, firmato dalla comunità valdese. Condannava l’uccisione di nove uomini in due attentati commessi il 30 giugno, tra cui sette rappresentanti delle forze dell’ordine, caduti a Ciaculli nello scoppio di una Giulietta piena di tritolo. Rimandava all’importanza della vita, chiedeva provvedimenti, trasmetteva solidarietà alle vittime e faceva un forte richiamo a non uccidere. Era, 41 anni prima, anche per il bianco e il nero, un appello alla dignità di tutti che nel 2004 utilizzerà Addiopizzo. Attaccando in una notte di fine giugno degli adesivi per spingerci a lottare contro le estorsioni di Cosa nostra. L’ecatombe di Ciaculli costituì l’apice della prima guerra di mafia. Vi fu sdegno, lo Stato intervenne e la mafia entrò in crisi. Ma non vennero inflitte condanne significative, come quelle del maxiprocesso degli anni Ottanta contro gli esponenti della seconda guerra di mafia. Le cosche vissero da protagoniste gli anni Settanta e Ottanta sino al periodo stragista. La domanda è la seguente. Servirebbe, oggi, un manifesto, questa volta firmato da tutte le comunità dei credenti, contro la mafia? Sì, ci sono i documenti. Ma a quanti arrivano? Il fatto che quel foglio di 57 anni fa, e non i tanti scritti ecclesiali contro Cosa nostra, abbia avuto un’eco così duratura, sta a significare che il metodo è giusto. Con una mafia che ancora ha consensi trasversali in tutte le fasce sociali, un manifesto in pianta stabile all’ingresso di tutte le chiese, che indicasse pure comportamenti quotidiani, sarebbe di sicuro effetto. Nel nome di Panascia. Ma soprattutto avendo presente i nostri giorni. Nel discorso alla città per il non-Festino 2020, l’arcivescovo Lorefice ha lanciato un allarme a proposito di una mafia che potrebbe tornare protagonista. Insieme a Rosalia tutti i protettori e le protettrici delle nostre polis ci guardano beati. Il resto dipende da noi. Anche la continuazione della costruzione di una diffusa, popolare e non elitaria antimafia. Che costituisca sempre più un’altra forte gamba, autonoma e sana, in aggiunta a quella della magistratura e delle forze dell’ordine.

 


domenica 26 luglio 2020

La giustizia e le persone: facciamo molta attenzione ed evitiamo i tribunali dei social.


La Repubblica Palermo – 25 luglio 2020
La storia del ragazzo arrestato ma innocente ci insegna che il garantismo non è una malattia

Francesco Palazzo

Abbiamo letto ieri su questo giornale l’intervista al ragazzo che era ai domiciliari per la rissa avvenuta a Mondello. È riuscito a dimostrare, ricorrendo alla posizione del suo cellulare, e grazie a un bravo difensore, ma non è detto che ogni ragazzo sia nelle condizioni di trovare quello adeguato, che quella sera non era a Palermo. Adesso è libero. Vale la pena soffermarsi, al di là del fatto specifico, su alcuni aspetti legati a queste circostanze. Collaterali per gli osservatori esterni, molto meno per gli interessati, com'è facile intuire. Abbiamo letto nomi e cognomi dei maggiorenni tirati in ballo, visto il filmato che li ritrae, conosciuto le zone o vie di residenza. Tutto si sarà svolto nel pieno rispetto delle regole. Quella che espongo è una sensazione personale. Ogni volta che vedo i trasferimenti all'uscita dei luoghi di primo accesso degli indagati (ricordiamolo, indagati, non condannati ancora da nessuno), mi chiedo se tali sfilate aggiungano un senso più compiuto, più vero, più pregnante, alla parola giustizia. Guardiamoci negli occhi. Sappiamo molto bene che queste cose massaggiano la parte della nostra testa che ormai trova alimento nei social. Dove in cinque minuti si arriva sino in cassazione e qualche volta pure oltre. Ma dovremmo chiederci un po’ tutti, pure chi veicola informazione, se non si può fare diversamente. Magari fornendo le identità e i volti in una fase processuale più avanzata, un rinvio a giudizio o una condanna di primo grado. Tanto, quello che inizialmente c’importa sapere sono i fatti, come si sarebbero svolti in relazione a chi li avrebbe commessi, senza rivelare immediatamente tutti i dati personali, e i luoghi dove si sono appalesati. Questa è la fase di riscaldamento. Poi c’è la partita e occorrerà verificare le ipotesi accusatorie nei diversi gradi di giudizio. Che gli indagati abbiano immediatamente nomi e cognomi, determinate facce, soprattutto se si tratta di persone non note, non ci dice nulla in più di quanto in quel momento è necessario sapere. Anzi, come vediamo nel caso in questione, possiamo pure essere fuori strada. Sia chiaro, se prendiamo il grande e conclamato super latitante, è successo tante volte, la questione è diversa. Se il personaggio è una star scatteranno altri meccanismi. Anche perché probabilmente sarà lui stesso a esporsi. Capisco che parliamo di aspetti delicati e non voglio farla più facile di come in effetti è. Però ecco, dovremmo ricordarci come popolo, nel cui nome è celebrata la giustizia, che il garantismo non è una malattia. Si sostanzia nel chiedere vera giustizia e non altro. Anche perché poi capitano casi come quello di cui parliamo e allora uno pensa a quante possibilità abbiamo che a noi stessi o qualche nostro familiare possa accadere. Quando le cose diventano personali, si comprende molto meglio tutto. Allora forse è meglio porsi di fronte alla persona indagata come se fosse nostro fratello o un congiunto. Parola intorno alla quale in tempi di Covid abbiamo avuto modo di ragionare a lungo.


mercoledì 1 luglio 2020

Viale Regione Siciliana, un antico biglietto di presentazione sbiadito e pericoloso di Palermo

La Repubblica Palermo – 30 giugno 2020

Perché Viale Regione assomiglia a una roulette russa

Francesco Palazzo

La morte di un ragazzo in Viale della Regione Siciliana, investito mentre attraversava, pone ancora una volta sotto la luce dei riflettori le condizioni di agibilità di questa strada. Pensata un tempo per circumnavigare Palermo e che invece la taglia a metà come un’anguria. I pedoni dovrebbero trovare riparo nei sottopassi e sui ponti pedonali. Solo che i primi, costruiti tra gli anni ottanta e novanta, secondo una ricostruzione di fine 2019 non sono, tranne qualcuno, percorribili. I secondi sono presenti in un numero limitato per quella che è la lunghezza di questo asse viario. Un tempo si parlò dei ponti pedonali Perrault, poi si ebbero quelli che conosciamo, non proprio il massimo esteticamente. È evidente, considerato che in diversi punti il viale viene interrotto da attraversamenti pedonali, che le cose non sono messe come dovrebbero. All’altezza di Via Perpignano, dove è stata interrotta l’esistenza del giovane abitante nel quartiere Noce, è previsto un sottopasso per le auto, bloccato nel 2008, ripreso con un nuovo appalto ad inizio 2019 e ancora invisibile ai nostri occhi. Pare che per i fondi già stanziati si stiano chiedendo lumi a Roma. Chi vuole andare da una parte all’altra deve poterlo fare in assoluta sicurezza. Un normale spostamento da un marciapiede a quello opposto non può essere pericoloso alla stregua di una roulette russa. Così come va sistemata tutta l’arteria. Per un lungo periodo mancante o carente di segnaletica orizzontale, corsie d’emergenza comprese. Recente l’idea di disegnare tre corsie per senso di marcia. Vedremo l’effetto quando tutto sarà a regime. Ma si registrano pure interventi che lasciano dubbi. Per esempio la realizzazione, di fronte al carcere Pagliarelli, della fiera di Natale con annesso lunapark, che dura mesi. Le persone accedono a questa cittadella posteggiando pericolosamente ovunque, rallentando peraltro in maniera vistosa il traffico. E quindi appesantendo un punto già complicato per la presenza del Ponte Corleone. Per il quale si attende il raddoppio, che eliminerebbe tale tappo. Sembra che anche in questo caso sia stata attivata nella capitale la stessa ricerca dello stanziamento preesistente. In entrambi i casi, raddoppio del ponte di Corleone e svincolo di via Perpignano, le somme erano contenute nel patto per Palermo, firmato dal governo Renzi con il comune nel 2016. È molto meglio dare infrastrutture, locali, nazionali o internazionali che siano, piuttosto che distribuire assistenzialismo. Poi va detto che è fisiologico in Viale Regione superare, scansati i punti fissi di rilevazione, i limiti di velocità. Gli automobilisti evidentemente pensano che siccome congiunge due autostrade, è consentito mantenere alte andature, che raggiungono picchi altissimi in orari notturni. Tornando al nostro Viale, c’è la storia. Questi dodici chilometri sono stati pianificati negli anni 50 del secolo scorso. Se si trattasse di una persona, il serpentone di asfalto sarebbe già in pensione e invece ne parliamo, visto gli ampi margini di miglioramento che presenta, come se stesse emettendo i primi vagiti. Nel frattempo la grande storia ha macinato ben più di una dozzina di chilometri. È stato eretto ed abbattuto il muro di Berlino. È finita la guerra fredda. E noi non siamo stati capaci di dare un’identità precisa e sicura ad un semplice viale che porta il nome della nostra terra.

 


martedì 16 giugno 2020

La cultura e la pratica ciclabile popolare a Palermo tutte da costruire


La Repubblica Palermo – 16 giugno 2020
Passeggiando in bicicletta in mezzo alle magagne di Palermo
Francesco Palazzo

Sulle piste ciclabili a Palermo sono stati annunciati la settimana scorsa alcuni interventi da parte di chi amministra, che però ancora non affrontano la problematica attraverso un disegno strutturale. Ogni volta che se ne parla sentiamo affermare che siamo all'esordio di una rivoluzione. Tuttavia, le cose non cambiano solo perché noi manifestiamo la voglia di modificarle. La verità è che non riusciamo a dare a Palermo, città ideale per andare in sella, con tutta la buona volontà che si può mettere nelle intenzioni, un circuito ciclabile degno di questo nome. Che possa mettere in pista, in sicurezza, non soltanto gli amatori e quella piccola nicchia che già ama spostarsi con tale mezzo, ma potenzialmente tutti, lattanti a parte. Dai piccoli ai più grandi, anche chi non ha mai avuto una bicicletta e potrebbe scoprire il gusto di un impatto ecologico ottimale nel vivere gli spazi esterni. La cultura ciclabile o è popolare o è poca roba. Avendo visitato altri luoghi, sappiamo molto bene cosa ciò significhi. Quelle che pomposamente denominiamo piste ciclabili, sono tessere di un mosaico non soltanto largamente incompleto, ma quasi sempre non praticabile perché poco sicuro. Si dice che i tempi per fare bene quello che veramente ci vorrebbe sarebbero molto lunghi. Ma pure gli anni dal Dopoguerra a oggi, considerato che la bici non è esattamente un’invenzione recente, non sono stati pochi. Di decenni ne sono trascorsi. C’è stato tutto il tempo per adeguarsi e, perché no, superare, visto il nostro contesto climatico invidiabile, le migliori tradizioni italiane ed europee. Per Palermo la mobilità dolce diffusa, popolare, a portata di tutti, sarebbe un bel traguardo e si deve lavorare per raggiungerlo. Purché però si guardi a tutta la città, disseminando dappertutto corsie riservate a chi vuole spingere sui pedali. Certo, ci vogliono tempo e fondi per realizzare un simile progetto. Ma occorre partire nel verso giusto, cosa che ancora non si è fatta, aggiungendo via via pezzi a tale fondamentale infrastruttura. Per capire a che punto siamo basta guardare la realtà che abbiamo sotto gli occhi, non il racconto eccessivamente ottimista, ma senza fondamento effettuale, che possiamo farci di essa. Il dato è evidente. Si tratta di rispondere a una domanda. Quando ci spostiamo dal centro, dalle periferie, dalle zone residenziali, vediamo tanti palermitani che si muovono inforcando biciclette? La risposta è no. Ciò significa che sinora, le pur buone intenzioni, tendenti a generare nei cittadini un interesse verso questa forma di movimento, intelligente ed estremamente utile per l’ambiente, hanno fatto un buco nell'acqua. E così continuerà a essere se non si muterà approccio. Ci vuole una vera e propria rete cittadina che copra tutti gli angoli del territorio. Bisogna partire evitando di ricominciare ogni volta che cambia il colore politico dell’amministrazione che vince le elezioni. Non ci sono alternative. A meno che non si voglia dipingere un quadro senza pennelli e colori. Le città che funzionano condividono certe linee di intervento e di sviluppo. Nessuno si sognerebbe, a destra o a sinistra, di mettere in discussione la cultura ciclabile di città del Nord, in Italia e in Europa, che possiedono, pur con situazioni meteorologiche molto poco invitanti, solide tradizioni in tal senso. Solo che noi spesso i giri d’orologio li utilizziamo per parlare di improbabili cambiamenti prodigiosi e abbiamo la tendenza a rifare sempre tutto daccapo. Una specie di eterno ritorno. E siamo anche bravi a complimentarci con noi stessi pure se i risultati, in questo caso l’uso delle biciclette con una percentuale da prefisso telefonico, non ci premiano. Cerchiamo perciò di mettere in campo azioni che generino un robusto mosaico ciclabile, completo, duraturo e sicuro. Se ci metteremo con pazienza nella direzione giusta, i risultati non tarderanno ad arrivare. Se rimarremo, come abbiamo fatto sinora, nella dimensione di un’evanescente maglia ciclabile non protetta, molto limitata, frammentata, con più buchi che certezze, spenderemo energie, tempo e denari pedalando a vuoto o quasi.


sabato 30 maggio 2020

Il ponte sullo stretto di Messina e l'eterno, ed imbattibile, virus del prima ci vuole altro.


La Repubblica Palermo – 29 maggio 2020
Facciamo cadere gli ultimi alibi di chi non vuole il ponte sullo stretto
Francesco Palazzo
Dunque l’alta velocità, con "Italo" e "Frecciarossa", si fermerà a Reggio Calabria. Non potrà avere accesso all’Isola perché non c’è un collegamento stabile tra Scilla e Cariddi che lo permette. Conosciamo a memoria, e sino alla noia per la verità, le motivazioni dei noponte. Per la verità ne è rimasta in piedi soltanto una. Prima si diceva che quest’opera non si potesse realizzare da un punto di vista tecnico. Come se cinquanta e più anni fa non fossimo andati persino sulla luna e come se nel frattempo non fossimo stati travolti positivamente dall’innovazione digitale, che ci è alleata in periodo di lavoro agile. Poi si aggiungeva che siamo carenti di altre cose. Questo è un classico. Più de I Promessi sposi. Prima queste e poi il ponte, si afferma a tutt’oggi. Come se il collegamento stabile tra Messina e Reggio Calabria rendesse impossibile tutto il resto. Cosa palesemente fuori contesto logico. Visto che pur non essendoci il ponte non c’è neppure il resto. Ma ai no ponte a prescindere, come direbbe Totò, non importa la razionalità. Che invece farebbe arrivare al pensiero opposto. E cioè che la messa in cantiere di un manufatto così importante e imponente, unico al mondo per le caratteristiche che presenterebbe, si porterebbe dietro per forza di cose, ci vuole davvero molto poco a capirlo, tutto il resto. Ma è difficile farlo intendere ai no ponte per partito preso. Forse occorrerebbe uno di quei disegnini, non so se avete presente, è un classico della Settimana Enigmistica, che si ottengono facilmente collegando i puntini numerati. Tra l’altro, visto lo scenario di forte crisi economica mondiale, determinata dalla pandemia in corso, della quale abbiamo iniziato a vedere soltanto la punta dell’iceberg, e che farà soffrire di più le zone economiche già deboli prima del coronavirus, e la Sicilia e la Calabria sono tra queste, un’infrastruttura di questo tipo metterebbe al centro del mondo il nostro paese e in primo luogo il meridione. Con tutti i vantaggi che possiamo immaginare da un punto di vista dell’attrattività turistica. Che farebbe da portentoso volano per tutti gli altri assi sociali ed economici. Nei momenti di forte crisi, e quello che abbiamo solo iniziato a vedere lo è senza dubbio alcuno, occorre essere in grado di volare alto. Solo così si può spostare l’attenzione verso uno scenario positivo invece di accontentarsi di navigare nello stretto, ora ci vuole, necessario per sopravvivere ai colpi della gelata che il virus ha messo sopra a tutte le economie, ed a quelle malconce in particolare. Ai nostalgici della traversata potremmo promettere, facendo ricorso al solenne giuramento dei boy scout, di lasciare comunque alcuni collegamenti romantici e teneri con i ferryboats. Noi, col loro permesso, e considerando soprattutto che il ponte non sarebbe soltanto il semplice ma già fondamentale collegamento tra due sponde, ma si iscriverebbe in una strategia fondamentale di collegamenti internazionali, vorremmo andare avanti.


martedì 26 maggio 2020

Il virus mafioso che non dobbiamo più nutrire nella vita quotidiana.


La Repubblica Palermo – 26 maggio 2020
I gesti quotidiani che servono a battere la mafia
Francesco Palazzo
Quest’anno il 23 maggio è stato diverso. Palermo ha chiamato l’Italia al balcone. Non tantissimi i lenzuoli nei prospetti palermitani, nonostante i ripetuti appelli sui social di personaggi noti, molto pochi in Sicilia oltre il capoluogo e nel resto d’Italia. E qualcosa vorrà pur dire. Stanchezza, disincanto, sottovalutazione, timore? La giornata è stata dedicata, oltre a chi ha lottato contro i sistemi criminali mafiosi, pure a chi durante l’emergenza Covid si sta spendendo per senso del dovere e spirito di servizio. Che fu la risposta data da Falcone a chi gli chiedeva chi glielo facesse fare. Lenzuoli a parte, siamo sempre chiamati a ragionare intorno all’ordinario senso del dovere che ciascuno mette in campo nel contrastare le mafie. Non ci sono scorciatoie. Questa è l’unica strada. Si può supporre che in diversi contesti, sia popolari che borghesi, il quotidiano consenso, tacito o esplicito, verso la criminalità organizzata sia ancora in agenda? Dovrà in qualche modo essere così se la mafia ce la troviamo spalmata nell’arco di tre secoli, sofferente ma viva e destinataria di un certo gradimento. Come ci mostrano le operazioni antimafia, sino all’ultima. Estorsioni a tappeto senza denunce, imposizioni di materie prime agli esercenti, in qualche caso addirittura obblighi sugli orari di apertura e su cosa vendere. E ciò accade pure nei quartieri residenziali. Per consistenti strati di borghesia, il pizzo, praticato sotto diverse forme, è ancora un costo sostenibile. Il contagio zero, a 28 anni dalle stragi del 1992, a 40 anni dall’uccisione di un presidente di Regione, a quasi 27 anni dall’eliminazione di un prete, e potremmo proseguire in questa via crucis, è ancora distante. Molto vicina a noi è invece la gara febbrile tra chi ce l’ha più blasonato, il medagliere, nel campo dell’antimafia militante. Professionistica, dilettante o mistificatoria che sia. Non abbiamo più bisogno di paladini ma della consapevolezza sempre più matura di un intero popolo. C’è dunque questo trinomio, mafia, popolo e antimafia. Due a uno, partita vinta di poco, ma sempre i tre punti portati a casa. Così sarebbe stato da tempo se oltre la mafia, che fa la mafia, ci fossero stati in campo un popolo che in ogni sua propaggine avesse fatto il proprio dovere e un’antimafia che non si fosse spesso distratta. Col coronavirus stiamo facendo il possibile, in pochi mesi, per fargli il vuoto attorno. Mentre di tempo, soprattutto nel mezzogiorno, ne è trascorso parecchio senza riuscire a recidere questo legame perverso con le cosche. Cosa nostra non ha bisogno della crisi sanitaria per operare, l’habitat dove vive le consente di essere pervasiva con o senza pandemia. Questa colpevole sudditanza, che spesso non diminuisce con i titoli di studio posseduti, ce la porteremo appresso ancora per chissà quanto. E non basterà nessun 23 maggio, 19 luglio, 15 settembre o 6 gennaio, date insieme alle altre in cui ci si batte il petto per commemorare persone che hanno dato la vita per liberarci dal pizzo eretto a sistema di vita da un consistente numero di cittadini, carnefici della loro stessa libertà, per venirne fuori. A meno che non si decida finalmente, emulando proprio le persone che contro il coronavirus stanno dando tutto, ad affrontare Cosa nostra, e le altre mafie, come se fossero, e in effetti lo sono, una grande e strutturale patologia endemica criminale, politica, sociale, economica, esistenziale e culturale. Che non viene però da posti lontani questa volta. Ma che abbiamo creato nella nostra terra e che continuiamo a nutrire. La mafia c’è oltre le ricorrenze, dentro le quali, oltre la genuinità di tanti, cresce forte la foresta della retorica. La vigilia del 23 maggio la RAI ha ritrasmesso il film sulla mamma di Peppino Impastato. Occorre avere, nel quotidiano, giorno per giorno, la tenacia, la forza, il coraggio, la lucidità, gli argomenti, in qualsiasi ambito ci troviamo, di Felicia Bartolotta e di coloro che l’aiutarono nella ricerca della verità. Di tanti veri impegni come il suo è fatta la strada che può portarci alla fine della pandemia mafiosa.


mercoledì 13 maggio 2020

Dopo il Covid 19 cercheremo il passato o andremo avanti?


La Repubblica Palermo – 12 maggio 2020
Come sfruttare la tecnologia quando finirà l’emergenza
Francesco Palazzo
Tutti sentiamo la necessità di una vita con ritmi diversi e nuove consapevolezze. Non possiamo proseguire come se la pandemia non ci stesse interpellando nel profondo. La tecnologia, in questo passaggio storico, è una fondamentale alleata. Sarebbe, ad esempio, non comprensibile se ritornassimo alla vita lavorativa con i vecchi arnesi. Stiamo scoprendo, ma in fondo lo sapevamo già, che si può lavorare dalle nostre dimore. Per le pubbliche amministrazioni questo vorrebbe dire, pensando al dopo, se ben gestito, un aumento della qualità del lavoro e un risparmio di risorse. I bilanci sono ingessati da spese correnti, legate anche al funzionamento delle strutture. Lo smart working consentirebbe di avere notevoli abbattimenti in termini di possesso e mantenimento di tali luoghi. Rendendoli più snelli e liberando fondi da destinare allo sviluppo. Si dovrebbe procedere a una riorganizzazione del lavoro. Siamo in emergenza, ma successivamente si potrà pianificare meglio il lavoro agile, sfruttando a pieno regime reti, piattaforme, software e processori, al fine di rendere più agevoli e veloci servizi ai cittadini. Anche l’aspetto spirituale ha mutato forma. Grazie a dispositivi sempre più sofisticati, che ormai pure i nostri anziani maneggiano bene, abbiamo visto che la religiosità può essere vissuta pur nel distanziamento fisico. Prendiamo atto che la Chiesa cattolica, la quale con le chiese vuote è riuscita a parlare al mondo meglio di prima, anche a coloro che non le frequentano, si sta mettendo al sicuro tornando il 18 maggio alle celebrazioni, legittime e necessarie per i credenti, sia chiaro, nei templi con i fedeli. In un momento, però, in cui nessuna assemblea pubblica è autorizzata e non attendendo dunque che tutto il popolo fuori dalle sagrestie sia nelle stesse condizioni di agibilità. A parte la forma, c’è sostanza sulla quale riflettere. Tornare a chiudersi nelle chiese è uno schema vincente? Sarebbe più conducente aggiungere altre dimensioni più orizzontali nel rapporto Chiesa-mondo, tema centrale del Concilio Vaticano II. Un sacerdote, in questi mesi, ha mandato messaggi segnalando le letture domenicali da meditare nello stesso momento e poi commentare condividendo i pensieri. È un modo, tra i tanti, per rendere la vita delle comunità cattoliche sempre meno legata alle gerarchie clericali. Un altro settore toccato dall’impossibilità di stare insieme è quello della scuola. Limitandoci alle superiori e alle università, perché per i più piccoli il ragionamento sarebbe complesso, si è visto che l’insegnamento e l’apprendimento possono essere validati senza l’interazione fisica. Che non va eliminata, ma tarata secondo criteri che non siano "io parlo e voi ascoltate", perché si può fare pure da casa. Risparmiando, pure in questo caso, soldi pubblici, da investire sempre nella scuola, per utilizzare al meglio le tecnologie e consentirne a tutti l’accesso. Chiedevo l’altro giorno a mio nipote se i video delle lezioni rimangono memorizzati per approfondire meglio in seguito. No, la cosa finisce, da quello che ho capito, col bello della diretta. Il dopo-coronavirus dovrà farci ricalibrare pure le istituzioni scolastiche, la didattica, i modi con i quali viene proposta e probabilmente molti suoi contenuti. Il tutto va riconsiderato più a misura di chi apprende, pensando che può farlo in tanti modi e che i banchi e le cattedre sono soltanto un approccio. Lavoro, spiritualità e scuola sono tre aspetti. Altri ne potremmo introdurre, sempre parlando del dopo, su ambiti non meno importanti, come salute e cultura rispetto alle conquiste tecnologiche che permettono accessi dalle proprie abitazioni, per citare altri due soli settori. Accanto a questi percorsi da remoto, occorre poi costruire in tutti gli ambiti rinnovati momenti di contatto fisico, sviluppando più la qualità che la quantità. Il Covid ci ha fatto mettere il piede sull’acceleratore dell’innovazione. Sarebbe non saggio, quando tutto sarà finito, che scendessimo dall’auto ripercorrendo a piedi all’indietro le nostre passate orme.


mercoledì 15 aprile 2020

Tutti cittadini che capiscono, non insegnanti e mischini.


La Repubblica Palermo – 15 aprile 2020
Il vizio del giustificazionismo, dalla mafia alle arrustute
Francesco Palazzo

Nella vicenda delle arrostute fuori ordinanza nei quartieri popolari, Sperone, Zen o altri luoghi (ma ci sono state pure le silenziose riunioni familiari sotto i tetti o in ville esclusive di famiglie borghesi), registriamo il giustificazionismo avanzato da più parti. Storia vecchia, che ci ritroviamo servita pure in tempo di pandemia, tra una fetta di cassata, un pezzo di salsiccia e un bicchiere di vino. Insomma, ci risiamo. La gente dei quartieri periferici e/o popolari, mischina, lo fa sempre per necessità. Gli strati popolari sono innocenti per definizione. E invece, visto il momento di frontiera che stiamo vivendo, occorre ragionare. Sine ira et studio, senza simpatia e pregiudizio, come dicevano i latini. Capiamoci. Il filone è stato ampiamente visitato pure su una tematica più decisiva di alcune semplici, ma potenzialmente contagiose, grigliate di gruppo. Ad esempio, nei confronti degli atteggiamenti che si tengono verso Cosa nostra. Da una parte abbiamo la colpevole borghesia mafiosa, la sua parte connivente e complice dei mafiosi, che secondo lo schema in uso non ha attenuanti. Dall’altra il popolo dei quartieri che appoggia, parliamo sempre di una parte, le cosche perché minacciato e povero di poderosi strumenti culturali ed economici per tentare una contrapposizione. Scuserete una divagazione personale. I miei nonni sono nati a Brancaccio e hanno sempre lavorato spaccandosi la schiena. E tanti della zona come loro. Mio padre, che non era professore universitario, ma lavorava la terra e commerciava in frutta e verdura, nato e vissuto a Brancaccio, si alzava alle 4 e tornava dal lavoro alle 21. E tanti come lui. Io sono nato a Brancaccio, come tanti di diverse generazioni. Non ci siamo mai sentiti giustificati di nulla. Nessuno nasce giustificato. Se cominciassimo a fare mente locale su questo, anche in un momento d’emergenza, forse ci troveremmo tra le mani una chiave di lettura diversa di Palermo, per costruire il dopo coronavirus. Magari abbattendo gli angusti e obsoleti steccati tra centro e periferie, dirigendoci verso una moderna città multicentrica. E chissà quando sul decentramento amministrativo si passerà dalle parole ai fatti. Il giustificazionismo è secondo me fondato su una questione. Negare che i comportamenti delle persone, allo Sperone o in altri posti, siano coscienti. Non ritenere che le persone possano essere in grado di capire ciò che fanno è per me davvero guardare gli altri dall’alto in basso. Forse si tende a considerare alcuni strati sociali non in grado di autodeterminarsi perché così si può reiterare all’infinito "l’aiuto" compassionevole. Occorre ammettere che, in Via Libertà, allo Sperone, dove abita tanta gente perbene, colta e onesta, o in qualsiasi altro posto a Palermo, si possono mettere in campo, attraverso modalità palesi o discrete, giusti o errati comportamenti deliberati e consapevoli. Va detto, infine, che occorre evitare l’altra faccia del giustificazionismo, che è il colpevolismo ad ogni costo. L’approccio deve essere diverso. A tutti i cittadini e le cittadine di Palermo devono essere riconosciute le capacità di contribuire a modellare una città sempre migliore. Cercando di abbandonare i pulpiti dai quali si pretende d’insegnare, fornendo magari alibi perniciosi che diventano montagne, a esseri umani che capiscono molto bene.

venerdì 3 aprile 2020

Cambieremo dopo il virus? Proviamoci.


La Repubblica Palermo – 3 aprile 2020
Cosa insegna la quarantena a noi e a chi amministra
Francesco Palazzo
Molto interessante la riflessione sulle città post epidemia di Maurizio Carta, pubblicata su queste pagine. In queste settimane vedo un frammento di Palermo da una finestra che guarda una grande piazza, in genere è caotica, disordinata, piena di smog. Adesso è lineare, silenziosa, pulita, percorsa dai mezzi che hanno davvero necessità di essere su strada. La stessa cosa, penso, si possa dire di altre parti del capoluogo e della Sicilia. Ci sono le foto che impazzano sui social a dimostrarlo. E allora ti fai due domande. Ci voleva un impercettibile virus per farci vivere in maniera più ecologica, rispettosa del territorio, di noi stessi e degli altri? La risposta al primo quesito è semplice e dolorosa. Più creativa può essere la reazione alla seconda domanda. Cosa possiamo fare come palermitani (ma simili riflessioni si possono avanzare per ogni parte del pianeta tenendo conto delle specifiche differenze), per non tornare a come eravamo prima, portandoci appresso le, poche, virtù, e lasciando per strada i, tanti, vizi? Ci sono due dimensioni che si intrecciano. Una legata alla vita personale, familiare, sociale e l’altra alle dinamiche che possono innescare le amministrazioni cittadine, centrale e circoscrizionali. Ecco, una prima cosa che si potrebbe mettere in campo da parte del consiglio comunale è quella di portare finalmente a compimento il decentramento. Che significa municipalità e capacità più attente e tempestive di intervento sui territori. Perché dobbiamo ricordarci che una città, a maggior ragione una metropoli, è fatta di tante realtà, tutte bisognose di cure e interventi differenti. Un altro aspetto che ci possiamo portare nel bagaglio amaro, drammatico, di queste settimane, che forse saranno mesi, è che c’è bisogno di più controllo del territorio. Se è possibile metterlo in campo in un periodo d’emergenza, si può continuare a farlo pure dopo. Un altro punto che l’amministrazione di questa città deve continuare a curare, come si fa in questo periodo attraverso i video, è il dialogo costante con le persone, i cittadini. Anche attraverso, quando recupereremo la socialità, assemblee pubbliche nelle varie zone della città. Per raccontarsi questo brutto frangente e capire come ripartire. Insieme e meglio. Dicevamo che c’è pure una dimensione personale, familiare, sociale che il virus ci impone di rivedere non soltanto adesso. Innanzitutto l’uso scriteriato dei mezzi privati. Dopo tutto questo dovremmo imparare a chiederci se tutti i nostri spostamenti inquinanti sono sempre necessari. Ma anche nell’uso del territorio, nel quale ciascuno fa ciò che vuole, dovremmo portarci appresso qualche fermo immagine delle strade come sono ora. Senza seconde o terze file, senza mezzi davanti agli scivoli o sulle strisce pedonali. Comportamenti che a Palermo sono la norma. Un terzo ambito, tra i tanti sia chiaro, ciascuno faccia la sua analisi, su cui sostare bene dopo, a prescindere dai divieti, è il concetto di divertimento. Che non può essere selvaggio, predatore e non rispettoso delle altrui esigenze di vita. Proviamo dopo a mettere in campo una movida gentile e non selvaggia. Una vita relazionale, anche diurna, improntata all’empatia, alla comprensione che non siamo da soli e non possiamo salvarci da soli ma attraverso un’ordinata vita comunitaria. Dovremmo curare l’esterno come facciamo con le nostre case. Anche collaborando a segnalare sia ciò che non va che i comportamenti sbagliati. Come facciamo adesso. Non è fare le spie. E’ costruire civiltà. Ma prima di fare tutto ciò, di vedere la speranza in fondo al tunnel, di uscire fuori da esso e respirare a pieni polmoni, dobbiamo fare in modo, altrimenti chissà quando rivedremo la luce, di mettere in sicurezza, per tutto il tempo che occorre, chi ci sta aiutando, ossia il personale sanitario. Se cadono coloro che ci vengono in soccorso, che non sono eroi, ma professionisti che devono essere messi in condizione di svolgere al meglio il loro lavoro, avremo molte difficoltà a riveder le stelle, come scrive il sommo poeta alla fine dell’inferno. E di conseguenza a immaginare e vivere un futuro migliore del tempo che ha anticipato la venuta del coronavirus.


venerdì 28 febbraio 2020

Le tante vasate di troppo che il coronavirus ci aiuta a non dare.

La Repubblica Palermo – 28 febbraio 2020
Se il "vasa vasa" cede al virus potrebbe non essere un male 
Francesco Palazzo
Saranno stati gli Arabi o gli Spagnoli? Certamente non i Normanni o i Savoia. Oppure, chissà, l’origine potrebbe sorprenderci. Prima o poi si dovrà scrivere, se già non c’è, o aggiornarla, se c’è, al tempo del coronavirus, la storia della vasata siciliana. Servirebbe a rispondere alla seguente domanda: quando c’è stata la vasata zero? Ci farebbe capire quando abbiamo iniziato a sentire il bisogno di strusciare le nostre guance, talvolta allungando pure furtivi baci, su quelle di parenti, amici, colleghi, semplici conoscenti o estranei. Perché capita pure questo. Dopo aver parlato, durante una cena di gruppo o una serata in compagnia, con una persona, sino a quel momento sconosciuta, si sente l’irrefrenabile trasporto, quando si passa ai saluti finali, di lasciarsi reciprocamente il bollo sulle guance. Pure nelle funzioni religiose abbiamo trasportato la vasata, arricchendo di siciliano affetto il segno della pace. Ma cosa fu tutto questo baciare? Diciamo fu, visto che in tempi di coronavirus (che dobbiamo però affrontare con le giuste contromisure senza farci prendere dal panico e tornando a fare una vita normale), sembra che la pratica venga messa da parte. La stessa chiesa, è accaduto durante una celebrazione eucaristica a Sciacca, raccomanda di surrogare la stretta di mano del segno della pace con uno, seppur partecipato, sguardo. La Conferenza episcopale siciliana ha emanato una direttiva che sospende il segno di pace o invita a sostituirlo con un inchino che odora di cultura giapponese. Forse sentiremo la mancanza esteriore di questo gesto. Ma nella sostanza? Torniamo alla nostra domanda, allora. Cosa c’è dietro questo vasa vasa generalizzato che ci segue come un’ombra sin dalla nascita e che ora viene messo in discussione? Forse non molto in termini di condivisione esistenziale e di capacità empatica verso l’evangelico o laico prossimo. Probabilmente c’è tanto di una grossolana percezione degli universi familiari, amicali o di colleganza. Come fanno ad altre latitudini, si può allo stesso modo partecipare la presenza bilaterale scambiandosi sguardi, sorrisi, saluti, senza passare all’approccio fisico. Magari comportandosi così non soltanto nelle proprie cerchie, che spesso somigliano a piccole tribù, ma estendendo a tutti i nostri incontri un approccio cordiale non vasativo. Sì, certo, ci sono baci, pardon, vasate, dati con vero trasporto e sentimento. Questa categoria non può essere messa in discussione da nessuno. Possiamo invece, in questo frangente nel quale ci accorgiamo che abbiamo un corpo oltre la rete e i social, procedere a una verifica virtuosa della vasatina sicula sparsa dappertutto. Insomma, che l’industria del vasa vasa possa avere un momento di crisi non è affatto detto che sia un male. Anche senza le vasate verremo fuori presto da questo periodo, in cui non sta accadendo nulla di così grave, con molta più umanità. Basta vedere come ci guardiamo nelle ultime settimane. Da quando abbiamo scoperto che gli altri non sono soltanto like, commenti, post o messaggi. Ma esseri viventi. Proprio come noi.

domenica 16 febbraio 2020

Baby gang, quartieri da leggere bene e i ritardi e gli errori della politica.



La Repubblica Palermo – 15 febbraio 2020
Baby gang e non solo, le occasioni perdute nei quartieri di periferia
Francesco Palazzo


Sulla vicenda del ragazzo senegalese fatto oggetto di violenza a sfondo razziale, abbiamo letto di baby gang provenienti dai quartieri Sperone e Brancaccio. Il rischio della generalizzazione è altissimo, dobbiamo cercare di tenerlo lontano. Non ci fa capire il problema e non ci consente di apportare i necessari rimedi. Una premessa. Si dice che Palermo è una pacificata città multietnica. Forse su questo versante faremmo bene a togliere qualcuno dei tanti punti esclamativi di soddisfazione, sostituendolo con qualche domanda. C’è in questo momento, e Palermo non è un’isola felice, un odio sociale e social che va ben al di là delle baby gang. Sulle quali è corretto ragionare. Dunque, i quartieri Sperone e Brancaccio. Allo Sperone diversi decenni fa si è proceduto ad una massiccia installazione di edilizia popolare, con pochi servizi, in un posto che aveva una sua storia. Il risultato di queste scelte è scontato. La stessa cosa sarebbe accaduta se tale insediamento fosse stato impiantato nel quartiere Libertà. Ricordando però che allo Sperone ci sono tantissime famiglie che mandano regolarmente i figli a scuola. Su Brancaccio l’analisi va fatta chiedendoci, innanzitutto, cosa ne è dell’operato di don Pino Puglisi a 27 anni dall’omicidio. Egli cade perché impegnato a risollevare socialmente un centinaio di famiglie che erano state deportate in alcuni stabili, che da residenziali diventarono in parte popolari. Contemporaneamente 3P lavora con gli adulti residenti in quella zona proprietari di appartamenti, i quali avevano dato vita al Comitato Intercondominiale Hazon. Persone che avevano iniziato un percorso di protagonismo civile che dava fastidio alle cosche e alla malapolitica. Il restante tessuto sociale, dal punto di vista della scolarità, complessivamente non era e non è molto differente dai quartieri centrali di Palermo. Basti pensare che, oltre l’ottimo lavoro pastorale svolto da alcuni parroci con i giovani, don Puglisi trova pure un luogo di cultura in parrocchia. Tanti ragazzi e ragazze del luogo, nel 1989, avevano dato vita, con un atto costitutivo e turni di apertura, alla biblioteca Claudio Domino, con oltre tremila volumi presi dalle case degli abitanti di Brancaccio e in parte regalati dalla Facoltà Teologica, che fornì gli scaffali espositivi. Ora, a 27 anni dalla scomparsa di Puglisi, la situazione è più o meno questa. Nella zona di Via Hazon il contesto si è ancora di più deteriorato e non c’è più traccia di un movimento di adulti che si occupi di politica territoriale. Inoltre, si è ghettizzata un’altra parte storica del quartiere mettendo un muro al posto di un passaggio a livello. Va detto che Puglisi viene fatto fuori non perché lavora anche con i bambini, ma per la circostanza che si muove all’unisono con degli adulti che chiedevano diritti a schiena dritta e non favori attraverso le clientele politiche. Cosa che per la verità era iniziata prima di don Pino. Nella seconda metà degli anni ottanta, piena primavera politica, vi furono diverse riunioni della giunta comunale a Brancaccio. Gli abitanti del quartiere non avevano alcuna paura a schierarsi con chi faceva apertamente antimafia, prima che divenisse uno sport sin troppo facile. Ne uscì fuori un opuscoletto, Ricostruire Brancaccio, dove si elencavano le opere programmate nel quartiere e le nuove proposte. Perché, capite, tutti i nostri ragionamenti atterrano sempre nella pista della - buona o cattiva politica. E allora, perché a Palermo, finalmente, non si manda un segnale verso i rioni, soprattutto periferici, dando vita e compimento al decentramento dopo 40 anni? Delle piccole municipalità, lavorando con le realtà locali, potrebbero occuparsi meglio dei territori e della qualità della vita che in essi si svolge. Intervenendo, se dotate di poteri e soldi, tempestivamente e preventivamente. Le baby gang pongono a tutti domande, non sono un palcoscenico per facili risposte. Ciascuno, soprattutto i livelli istituzionali, risponda al meglio delle sue possibilità e delle proprie prerogative.

martedì 11 febbraio 2020

Il maxiprocesso, il dopo stragi e la mafia ancora tra noi.

La Repubblica Palermo – 11 febbraio 2020
Il maxiprocesso 34 anni dopo, ma la mafia non ha ancora perso
Francesco Palazzo


34 anni fa, 10 febbraio 1986, iniziava a Palermo il maxiprocesso alla mafia nell'aula bunker costruita in brevissimo tempo. Durò quasi 6 anni, sino alla pronuncia della cassazione nel gennaio 1992. Gli uomini d’onore alla sbarra, condannati sino all'ultima sentenza, anche se speravano, viste le collusioni e le contiguità, di farla franca ancora una volta. Due rappresentanti della magistratura, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che lo Stato, tutti noi, non abbiamo saputo proteggere, si misero in evidenza per i loro meriti e non per un’antimafia caricata a salve, o di cartone, che negli ultimi anni abbiamo avuto la sventura di conoscere. Sembrò mutare tutto in quel momento storico. Il verde di quell'aula, somigliante a un’astronave calata sulla Sicilia, pareva annunciare una mafia quasi all'ultimo miglio. Ma non fu così. O era un miraggio quel traguardo oppure da qualche parte si alzò il piede dall'acceleratore. Ci attendevano anni tremendi, due stragi, l’uccisione di un prete e gli attentati stragisti in continente. Segno, come abbiamo veduto, di una mafia con le tende ben piantate oltre lo stretto. Dopo la stagione delle bombe, sulla quale non si è fatta piena luce nei suoi aspetti più oscuri ed inquietanti, e ciò è veramente incredibile, abbiamo avuto una fase di sommersione dei mafiosi. Che non ha voluto dire fare meno affari durante la reazione di alcuni apparati statali. Alcuni pezzi, perché quando diciamo Stato, e considerato che Cosa nostra ha attraversato tre secoli, non ci è difficile immaginare che non tutti i vari settori delle istituzioni, così come non tutti noi, anzi una minima parte di società, abbiamo combattuto questa battaglia di libertà e di civiltà. Poi, sino ad oggi, un ingresso sempre più largo nell'economia legale e finanziaria da parte delle cosche, non lasciando da parte, come ci dice l’ultima relazione della DIA, il classico traffico di droga, che va di pari passo nei quartieri con il ritorno della vendita, alla luce del sole, controllando così meglio i territori, delle sigarette di contrabbando. Inoltre, c’è la persistente suddivisione in mandamenti e il ritorno del baricentro a Palermo, vecchie coppole storte, come prima dell’ultima guerra di mafia. Che continua a comandare nei territori, soprattutto nei quartieri popolari, incassando ancora un discreto consenso. Allora, a 34 anni da quel febbraio del 1986, quando vivevamo gli ultimi anni della prima Repubblica, la situazione potrebbe essere la seguente. È come se si vedesse in campo una mafia che viene braccata solo militarmente da indagini, arresti, sequestri e confische (beni che però lo Stato non sempre ma spesso porta al fallimento gestendoli malamente). È un grande passo in avanti, che però traccia un orizzonte limitato e destinato a spostarsi continuamente. Si è forse, rispetto a quando sembrava possibile, sia ai tempi del maxiprocesso che dopo le stragi, rinunciato di fatto a eliminarla completamente dalla scena sociale, politica ed economica, la mafia e i suoi compari?