sabato 7 febbraio 2009

Per un'antimafia matura, senza paure e senza censure


CENTONOVE

6 2 2009 - Pag. 46


Nel nome del padre


Francesco Palazzo



Ogni volta che un congiunto di un condannato per mafia si concede ai mezzi d’informazione, così come ha fatto la figlia di Riina, si registrano le repliche dei familiari di vittime della violenza mafiosa. Reazioni comprensibili e condivisibili, non stiamo qui a discutere, dovute e legittime. Ma che, secondo me, non colgono il senso dell’operazione che il giornalismo tenta, di volta in volta, di porre in essere. Chi prova a raccogliere notizie, deve solo farle parlare nella maniera più semplice e diretta. Non ci si deve aspettare che un cronista costringa con la forza uno stretto familiare di un capomafia, sulla cui testa gravano ormai più ergastoli, sanciti dai tre gradi di giudizio, e che non ha mai mostrato segni di ravvedimento, a pronunciare parole di condanna verso il congiunto. Il compito del giornalismo, in casi come questo, non è quello di imporre i propri schemi ideologici o morali, realizzando servizi addomesticati. Non è, il giornalista, il vendicatore di nessuno. Non è neppure il portavoce della rabbia che cova nella società contro l’arroganza sanguinaria e finanziaria delle mafie. Si pongono domande e si ottengono risposte, silenzi, mezze verità, bugie. Questo è tutto. Quello che esce fuori da questa interazione si mostra al pubblico, che poi si farà un’opinione sulla realtà presentata. In particolare, nel caso specifico, sarebbe stato opportuno che non ci si fosse limitato a leggere soltanto l’intervista sulla carta stampata. Contemporaneamente è stato realizzato un video. Che è possibile facilmente reperire e visionare su internet, e che qualitativamente, a mio avviso, supera qualsiasi parola impressa sulla carta di un quotidiano. Ebbene, in quelle riprese, oltre le frasi pronunciate dalla Riina, contano molto di più, e dicono molto di più, i ripetuti primi piani sul viso, sulle mani, sulla figura dell’intervistata. Sono dei segnali non verbali estremamente interessanti. Che ci provengono da un universo quasi sconosciuto. Ma prescindiamo dal caso in questione, del quale ciascuno ha potuto trarre giudizio leggendo e guardando. In generale, l’opinione pubblica non ha niente da perdere e molto da guadagnare nel sentir parlare i familiari dei mafiosi. Non perché ci dispensano teorie sociologiche o criminologiche, che siamo ben in grado di formulare da soli, né in quanto pronunciano riprovazioni pubbliche nei confronti dei loro familiari e della vita che hanno vissuto. Ovviamente, se ci sono ripensamenti esistenziali, che ben vengano. A noi interessa la testimonianza diretta di questi soggetti, la loro vita, non quello che pensano i giornalisti. Ciò aumenta il nostro bagaglio conoscitivo. Invece di sbarrare le porte a tali eventi, facendosi vincere da una prima, e ripetiamo giustificata, reazione a pelle, si accolga, quando accade, la loro volontà di raccontarsi. Senza pretendere che dicano esplicitamente ciò che noi vorremmo. Niente viene rimesso in discussione di quanto già acquisito. Le certezze storiche e processuali, sia chiaro, rimangono tali. Per ieri, per oggi e per domani. Qualcuno potrà, e con parecchie ragioni, ritenere che certe aperture alla stampa e alle televisioni siano funzionali e strumentali a qualcos’altro. Che concorrano, cioè, al fine di portare acqua al mulino di chi si espone e al contesto che, di fatto, rappresenta o condivide. Può essere. Non sarebbe, del resto, la prima volta. Tuttavia, un’antimafia matura, non emotiva, deve essere in grado di capire quando ciò accade. E lo può fare, compiutamente, ascoltando in presa diretta, senza i filtri interpretativi degli esperti di turno, chi decide di aprire, certo a modo suo, con schemi mentali propri, una finestra sul mondo, tra molte virgolette, normale. Perché una società come quella siciliana, che da 150 anni produce, nutre e fa crescere, sia nella sua parte borghese che in quella popolare, il sistema mafioso, di normale ha ben poco. Bisognerà vedere e valutare caso per caso. Lucidamente e senza eccessive paure. In ogni caso, il silenzio e la censura, comunque la si pensi sui singoli episodi, fanno più bene alla mafia che all’antimafia.

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