LA REPUBBLICA PALERMO – DOMENICA 18 SETTEMBRE 2011
Pagina XII
LE PAGINE BUIE DELL´ANTIMAFIA
Francesco Palazzo
Dalla mafia che spara abbiamo imparato negli ultimi decenni a difenderci. Dalla politica che la fa ingrassare, attraverso voti richiesti in cambio di favori e appalti pubblici, grazie al lavoro delle forze dell'ordine e della magistratura, quasi mai dei partiti, possiamo prendere le distanze con il voto e comunque siamo in grado di capire personaggi e comportamenti. Anche quando non c´è un pronunciamento dei giudici. Ma come si fa a cautelarsi di fronte agli sviamenti provenienti dagli stessi apparati statali che dovrebbero indagare, sanzionare e valutare per tutti noi? Quando si fa educazione alla legalità nelle scuole, e si dice ai ragazzi che devono combattere i mafiosi nella quotidianità e non possono svendere il loro voto, una volta adulti, si dovrebbe aggiungere un altro capitolo. Dicendo loro di non fidarsi troppo, almeno non sempre, delle azioni di chi la mafia è preposto a combatterla con investigazioni e sentenze. Di quanto sta avvenendo, da tempo, intorno alla strage di via D´Amelio è difficile trovare una definizione che possa descrivere lo sconforto. Si dirà che non è la prima volta che accade. Per citare solo due casi, distanti tra loro nel tempo, avvenne qualcosa di simile per la strage di Portella della Ginestra e per l´omicidio a Cinisi di Peppino Impastato. Ma la cosa più scoraggiante è che mai al pozzo della verità si viene condotti dagli uomini delle istituzioni che si fossero resi colpevoli e che poi maturino un ripensamento pubblico sul loro operato. Prendete, appunto, la strage in cui morirono il giudice Borsellino e la sua scorta. Undici processi, sentenze passate in giudicato e sette persone in carcere. La Procura di Caltanissetta lo definisce, pare con carte molto robuste alla mano, un colossale depistaggio e chiede la revisione dei procedimenti. Vedremo il seguito della vicenda. Il punto è che a farci da guida, novello Virgilio, non sono gli apparati istituzionali, ma un collaboratore di giustizia. Forse che ci sia più moralità in un mafioso che torna sui suoi passi criminali, prendendo un´altra strada, che in soggetti che teoricamente, vestendo gli abiti della democrazia repubblicana, dovrebbero essere più inclini ai sensi di colpa che ai tombali ed eterni silenzi? E qui le cose si fanno ancora, se è possibile, più oscure e sconcertanti. È lecito chiedersi, infatti, se depistaggi di questo tipo, beninteso, ci furono, se si possano essere fermati soltanto a livello operativo, locale, e non abbiano avuto coperture politiche ad alto livello? Un punto di domanda che riguarda tanti capitoli dolorosi e che forse non conoscerà mai la luce del sole. Troppi «non ricordo», memorie che riaffiorano dopo decenni, mezze frasi, ambiguità da parte di soggetti che hanno rivestito (ancora rivestono?) ruoli importanti nello scacchiere politico del nostro Paese. Quest´oblio istituzionale della memoria riguarda, soprattutto, la famosa trattativa, o le trattative, tra Cosa nostra e pezzi dello Stato. Questi accordi inconfessabili, proprio per la reticenza del secondo soggetto, lo Stato, a collaborare, mentre i mafiosi, se cambiano vita, lo fanno, difficilmente potranno essere dimostrati una volta per tutte. Possono esserci alcuni indizi, tuttavia. Ad esempio: se per caso fosse vero che su via D´Amelio vi fu ammoina, e il garantismo ci impone di aspettare i nuovi eventuali gradi di giudizio, sarebbe sbagliato ipotizzare che ci troveremmo di fronte a una tessera, non secondaria, dell'entente cordiale tra cosche e Stato? È un dettaglio rispondere al quesito? Pensiamo di no. Ulteriori risposte, su altre pagine buie, dobbiamo darle alle giovani generazioni. Altrimenti, con questi pesanti scheletri nell'armadio, sarà meglio che per un po' non parliamo loro di antimafia.
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