venerdì 3 maggio 2013

Soprattutto nei piccoli comuni si gioca il futuro della Sicilia.

 CENTONOVE
Settimanale di Politica, Economia, Cultura
3 maggio 2013
Pag. 38
UN ESERCITO DI SINDACI E MAESTRI
Francesco Palazzo

"Cosa nostra continua a influenzare e condizionare pesantemente le strutture politiche locali verso le quali ha un interesse spiccato". Questo il commento sintetico del procuratore capo della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, uomo di poche ma significative parole, in occasione dell'ultima operazione antimafia in provincia. Una fotografia che, pur con tutte le lotte antimafia fatte negli ultimi decenni, ci trasferisce un'istantanea che fa capire quanti passi in avanti in effetti abbiamo fatto su uno spaccato fondamentale del problema. Ossia i rapporti tra mondo criminale e ceto politico. E non parliamo degli enti maggiormente in vista, quali i grandi comuni o la stessa regione, dove è forse più semplice mettere in atto azioni di contrasto. Ma a quanti dei trecentonovanta comuni di cui è composta la nostra regione si può applicare l'amara constatazione del dottor Francesco Messineo? Tolte, appunto, le più grandi municipalità e alcune comunità di media grandezza, nelle quali magari ci sono interessi concreti delle cosche, ma questi non assumono le caratteristiche belluine e predatorie che invece contraddistinguono i comuni minori, possiamo ipotizzare che c'è un tessuto molto esteso di democrazia siciliana che è gravemente malato all'origine. Non possiamo sperare di debellare il rapporto mafia politica se trascuriamo questo aspetto fondamentale della vita istituzionale della nostra regione. Ciò deve far riflettere sul metodo, diciamo così deduttivo, sinora applicato. Viene, infatti, facile pensare che immettendo dei semi legalitari nelle macrostrutture istituzionali poi questi debbano attecchire, quasi come un implicito e assodato automatismo, nella realtà piccole e piccolissime. Non funziona così se è vera, come è vera, la riflessione, basata su dati di fatto e non su astratti sociologismi, sui quali spesso ci attardiamo, del procuratore capo del capoluogo. Lo scrittore Gesualdo Bufalino diceva che per liberarsi dalla mafia basterebbe un esercito di maestri. A lungo termine, suggerire di lavorare sui bambini, sulle nuove generazioni, può essere un giusto e ineliminabile approccio. Ma se a questo versante educativo dei piccoli non si associa un cambiamento nelle teste e nelle azioni degli adulti, a breve e a medio termine, non si va molto lontano. E allora, oltre che un esercito di maestri e maestre, occorre un altro esercito, che in parte è già in campo, nutrito e coraggioso, di amministratori locali, sindaci, assessori, consiglieri comunali, funzionari che facciano procedere correttamente la cosa pubblica nei luoghi dove non arrivano i riflettori dell'opinione pubblica. A meno che non vengano accesi a giorno, per poi spegnersi subito dopo, da indagine e arresti. Ma a quel punto non rimane che prendere mestamente atto che il danno è stato fatto. E' questo, d'altra parte, il lavoro delle forze dell'ordine e della magistratura. Il resto tocca, o toccherebbe, alla politica e alla società che contribuisce a formarla con il consenso elettorale. Quasi sempre siamo interessati dai macrosistemi. Chi doveva essere eletto alla presidenza della Repubblica? E per Palazzo Chigi, quale sarebbe stata la scelta migliore? Chi vincerà a Catania? E a Palermo che accade? Sulle amministrazioni regionali che si succedono, poi, il dibattito non conosce sosta. Tutto giusto, per carità. Ma quello che si perde di vista, interessandosi per grandi linee e per massimi sistemi al destino dei pubblici poteri, è che la robustezza del tessuto democratico, e quindi il vero contrasto alle consorterie criminali, si decide in massima parte, giorno per giorno, direi ora per ora, su un'altra dimensione. Quella che vive all'ombra dei gonfaloni di centinaia di piccoli comuni siciliani. Che piaccia o no, è lì che si gioca tutto, o quasi tutto.

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