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Don Pino Puglisi e le parole che non dimenticheremo, 32 anni dopo
Francesco Palazzo
Il 15 settembre 1993 era un mercoledì. Caldo come molti giorni di settembre alle nostre latitudini. Don Pino Puglisi quel giorno compiva 56 anni, essendo nato il 15 settembre del 1937. Nelle ultime ore della sua vita era stato visto da occhi belluini mentre chiamava da una cabina telefonica nei pressi della chiesa di San Gaetano, nel quartiere Brancaccio di Palermo.
Proprio di fronte a quel Centro Padre Nostro da lui fondato, voluto di fronte la chiesa parrocchiale e inaugurato all’inizio del 1993, presente il cardinale Salvatore Pappalardo. Quel Centro, che don Pino volle legare indissolubilmente alla comunità parrocchiale e che tanta paura fece alla mafia pur non prendendo – non c’era ancora l’euro – una lira di finanziamento, è ancora lì, in via Brancaccio 461. Pietra angolare povera e viva di profezia.
Gli ultimi istanti
Non si sarebbe festeggiato quella sera. Don Pino, sapendo che ormai era entrato nel mirino di Cosa nostra, aveva detto agli amici e alle amiche di non fare nulla. Solo a una coppia aveva detto sì, ma non lo avrebbero trovato se non in ospedale. “Tutto è compiuto”, si legge nel Vangelo di Giovanni.
La scena si sposta sotto casa di don Pino. Chissà cosa è passato per la testa di 3P negli ultimi minuti della sua vita. Non sono i cento passi del celebre film su Peppino Impastato quelli che separano quella cabina telefonica, vicino la chiesa di San Gaetano, dalla casa di Puglisi a piazzale Anita Garibaldi dove ci sono i mafiosi ad attenderlo per chiudere, pensano loro, definitivamente i conti. Ma sono a pochi giri d’orologio i due luoghi, pochi minuti. Lo stesso tratto di strada, era il 1996, quasi trent’anni fa, che ho percorso con un gruppo di ragazzi e ragazze di Brancaccio, alcuni universitari e universitarie, per rappresentare una via Crucis che avevo composto per loro e che ancora viene utilizzata nella chiesa di San Gaetano.
“Me lo aspettavo”
Era arrivato davanti casa don Pino, aveva già infilato la chiave nel portone quando sente i passi di due soggetti avvicinarsi. “E’ una rapina”, gli dicono, sottraendogli il borsello. “Me lo sarei aspettato” o “Me lo aspettavo”, risponde don Pino. E magari, innamorato com’era dell’importanza del dialogo, della parola ascoltata per aiutare l’altro o l’altra a orientarsi, avrebbe potuto anche sperimentare un ultimo tentativo di soluzione umana. Insomma, ragazzi, qual è il problema. Venite su e ne parliamo. E se non l’ha detto magari, come ebbe a ipotizzare uno di quelli che gli è stato più vicino negli anni di Bancaccio, potrebbe averlo pensato.
Ma quella canna di arma da fuoco che portava morte, soprattutto per coloro che hanno spento una vita santa, non per chi quella morte l’ha subita, bloccò quel possibile pensiero che avrebbe potuto trasformarsi in salvezza. Non per chi stava per cadere, perchè mai è caduto, ma per coloro che stavano per spargere il sangue di un martire su quel marciapiede. E dunque “me lo aspettavo”. Dietro, intorno e dentro al quale c’è tutta una vita. Fatta di una profondità che i mafiosi non potevano capire. Perché se ne avessero compreso solo un frammento, mai sarebbero stati mafiosi.
La Chiesa e il mondo
È possibile che quel “me lo aspettavo” sarà stato detto pure con quel sorriso ironico che spesso guizzava negli occhi, prima ancora che nel verbo, del parroco dalle orecchie a sventola e dalle mani grandi. Ma è un’ironia, che è l’atteggiamento tipico di chi sa volare alto, che atterra in quella sera di fine estate con gli occhi e la mente già diretti verso quella canna fredda, che si posa sulla sua nuca facendolo in pochi secondi cadere rovinosamente a terra.
Ancora vivo, ma con tutto il suo corpo e il suo essere più profondo già al cospetto di quella dimensione di vita altra e alta che ben coniugò, a Brancaccio, a Godrano, come insegnante, nel mondo vocazionale, dappertutto sia stato, con quella del mondo.
Rapporto Chiesa-mondo, l’asse portante del Concilio Vaticano II. Ricordo, nelle settimane successive all’autunno del 1990, cioè del suo esordio presso la parrocchia di San Gaetano, una sua frase che mi faceva notare che, sulla scorta del Vaticano II, la parola, ossia il luogo da dove si proclamavano le letture, stava nell’altare sullo stesso piano della mensa, cioè del mistero di fede.
Parole indimenticabili
Ci sono frasi che, nel momento in cui le sentiamo, non sappiamo che non riusciremo più a dimenticarle. Senza neppure riuscire a spiegarci il perché. Così come quelle, ero consigliere di quartiere eletto nel 1990 come capolista di minoranza nelle liste di Insieme per Palermo, ascoltate da don Pino che cercava, con pochi risultati concreti, di farsi capire dal consiglio, allora di quartiere, Brancaccio-Ciaculli, ora di circoscrizione. Anche se nulla o poco è mutato nel decentramento attuato, e non semplicemente parlato, a Palermo.
Difficile per me pure scordare la sua riflessione in occasione della prima riunione con i giovani della parrocchia. Riprendendo il titolo di un brano molto famoso e cantato in quegli anni, “Questione di feeling”, diceva a noi ventenni che nella vita non poteva essere questione di sensazione, di sentimento momentaneo ma di impegno profondo, di decisioni importanti, definite se non definitive, soprattutto per noi giovani. Lo guardammo quasi scandalizzati. Ma aveva ragione lui.
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