martedì 18 agosto 2009

Fuga di cervelli dalla Sicilia: il silenzio dell'omertà e quello del dolore

CENTONOVE
Settimanale di Politica, Cultura, Economia
N. 30 del 31/7/2009
LE MORTI BIANCHE DEI GIOVANI IN FUGA
Francesco Palazzo

"Due righe dall'aldilà”. Così iniziava una lettera di un siciliano apparsa ad inizio luglio su La Repubblica - Edizione di Palermo. Proveniva da Milano e la imbucava Alessandro De Lisi. Me la sono ricordata l’altro ieri quando ho avuto una testimonianza diretta dall’aldiquà che mi ha fatto rileggere un’altra lettera sullo stesso argomento, letta recentemente. De Lisi raccontava, in fondo, una storia d’ordinaria amministrazione. Una fra le tante. Perché sono tantissime, basta fare un rapido giro d’orizzonte tra amici e parenti, le biografie che hanno bisogno di staccarsi dalla Sicilia per trovare compimento. Per avere un minimo di gratificazione personale e professionale, in contesti che non sono certo il paradiso, ma che almeno permettono un certo riconoscimento dei meriti e dei saperi. L’amara lettera di De Lisi, morto professionalmente a Palermo e rinato nel capoluogo lombardo, si può associare all’altra che citavo. Era di un ragazzo, che avendo tanti titoli, si chiedeva se vale la pena di andare fuori a cercare fortuna o se non è il caso di restare nell’isola. Giacché, rilevava, migliaia di persone, senza arte né parte, sono arruolate nei corsi formativi, alimentati rigorosamente da fondi pubblici, arrivando a prendere sino a ottocento euro mensili. Oppure, aggiungiamo noi, potrebbe attendere e vedere se gli è possibile entrare nell’ampio bacino del precariato, che ha gonfiato a dismisura gli organici pubblici. De Lisi sosteneva di non avere mandanti da svelare per questa continua emorragia d’intelligenze e questo incessante ingrossamento dello stagno Sicilia. Dove si alimentano clientelismi e la percezione che le casse pubbliche siano soltanto un bancomat dove prelevare, talvolta facendo poco, lo stipendio a fine mese. Ma noi, e certo anche lui, sappiamo chi sono i responsabili. Almeno quelli più diretti. Perché una chiamata più estesa di correità dovrebbe riguardare tutta la società siciliana. E', tuttavia, lampante che coloro i quali sono chiamati a reggere le pubbliche istituzioni, i partiti che vi entrano, avrebbero le chiavi per contenere queste morti civili. Che dopo una lunga e non dignitosa agonia nella terra che li ha visti nascere, poi resuscitano in altri luoghi meno impregnati di malapolitica e sperperi d’ogni tipo, che invece caratterizzano la nostra regione. Che il fenomeno abbia dimensioni enormi, lo si può registrare molto facilmente. L’altro giorno, una testimonianza in diretta dall’aldiquà, come scrivevo, mi ha fatto ripensare alle due lettere. Un ragazzo vivace di un paese della provincia di Palermo, con una recente laurea nel campo ingegneristico delle telecomunicazioni, conseguita presso l’ateneo del capoluogo, metteva fuori, con un sorriso rassegnato tra le labbra, la sua amarezza per non riuscire a trovare sbocchi lavorativi. Per ora fa l’agricoltore nei terreni di famiglia, è impegnato in svariate attività, la maggior parte svolte a titolo gratuito. Riesce a mettere insieme poche centinaia di euro al mese. E’ consapevole che l’aspetta, quando troverà il coraggio, un bel volo verso chissà quale destinazione. Ciò che ancora lo trattiene, si vedeva dalla passione con cui raccontava le cose che fa, è l’attaccamento verso il suo paese. Le tante attività turistiche e artistiche che organizza con i suoi coetanei per rendere più vivibile un pezzo di territorio della provincia. Come definire la sorte e il destino di questi giovani? A me appaiono alla stregua di un’infinità di morti bianche senza funerali. Un triste andare via in silenzio, che ognuno vive da solo, con la famiglia e gli amici più cari. E nel frattempo la politica che fa? Continua a gonfiare i propri ranghi e quelli delle pubbliche amministrazioni di clienti, figli, nipoti e amici degli amici. Gente che, sovente, va avanti senza titoli di studio, nel più scandaloso silenzio. Proprio come quello delle morti bianche di prima, ma di segno diverso. Un silenzio omertoso in questo caso. E poiché dobbiamo saper fare i conti sino in fondo anche con noi stessi, dobbiamo chiederci se pure noi, con le nostre parole che non sanno andare oltre l’indignazione, non facciamo per caso parte di quelli che De Lisi definiva “professionisti della morale”.

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