Repubblica Palermo
Sabato 12 Ottobre 2013
Pag. XII
Se portassimo in processione don Puglisi
Francesco Palazzo
Avere un
beato nuovo di zecca e portare in giro il simulacro del solito santo.
Ho pensato questo quando, recentemente, ho visto a Brancaccio la statua
di S. Gaetano. Sbucata dalla chiesa dove visse l'ultima parte della
sua vita don Puglisi. Magari, come testimoniano coloro che lo
hanno conosciuto, don Pino era allergico a processioni e reliquie. Adesso
pare che la curia palermitana stia facendo circolare tra le parrocchie
proprio una reliquia del novello beato. Eppure, non sono così sicuro
che un segno corporeo del martire antimafia che giri tra le famiglie
possa avere lo stesso effetto di quello rappresentante, con tutto il
rispetto, Padre Pio. Sino a quando sono San Gaetano, Santa Rita, Cosma
e Damiano, madonne piangenti, cristi morti e via elencando, a essere
condotti in processione, si tratta di storie e biografie così slegate
dalla contemporaneità, da essere commestibili per qualsiasi versione
del credo cattolico. Anche per quella dei mafiosi. Che infatti, ancora
oggi, come ci conferma una delle ultime operazioni di polizia in uno
storico quartiere palermitano, non disdegnano d'infilarsi nelle confraternite
per confermare il possesso del territorio pure in tali occasioni. Si
correrebbe lo stesso pericolo se fosse la statua di Padre Puglisi a
girare per le vie del quartiere dove è stato ucciso, per le strade
dei rioni palermitani e in altri contesti della nostra regione? La caratteristica
peculiare di 3P è stata quella di incarnare una chiesa dalla quale
la criminalità mafiosa si mantenne ben distante. Perché la comunità
cristiana, attraverso quel piccolo prete, mostrava un volto irriconoscibile
ai componenti del consorzio criminale. Sino a spingerli a farla finita
una volta per tutte. Molto si è detto e scritto sulla scomunica da
comminare a coloro che sono condannati per reati di mafia. Ma resta
il fatto che gli stessi mafiosi, siano o meno messi all'indice formalmente
o a parole, continuano a chiedere sacramenti e sentirsi a loro agio
dentro le mura ecclesiastiche. Sino a quando, però, qualcuno, e sinora
se ne contano pochi, non mette in campo un certo tipo di chiesa dalla
quale gli stessi mafiosi si tengono lontani. Se così è, non sono tanto
convinto che portare in giro la statua di Puglisi, o una sua reliquia,
ne depotenzi il messaggio profetico e lo riduca a innocuo santino, come
molti temono. Perché c'è devozionismo e devozionismo. E' possibile
immaginare le congregazioni che portassero avanti il culto del prete
ucciso per mano mafiosa il 15 settembre 1993, infestate dagli appartenenti
a cosa nostra? Perché una cosa è reggere sulle spalle, come succede
ad esempio a Catania, il fercolo di Sant'Agata (ma la stessa cosa si
potrebbe dire per Santa Rosalia a Palermo), cioè la rappresentazione
scultorea di una persona nata quasi mille e ottocento anni addietro,
che non interessa e non coinvolge più di tanto la vita delle persone,
tranne i giorni in cui si festeggia. Un'altra è fare camminare l'effige
di un contemporaneo santificato contro i meccanismi perversi e violenti
della mafia. Poi è così vero che Puglisi nutrisse antipatia verso
questa forma di religiosità che nasce dal basso? Voleva soltanto, e
ci provò sia a Godrano che a Brancaccio con la confraternita legata
al nome di San Gaetano, riempirla di autentici percorsi di fede e di
spiritualità. Per dirla tutta, più pernicioso del pericolo che Puglisi
venga ridotto a santino, scorgo quello che sia il santo di una piccola
minoranza che si restringerà sempre più con il passare del tempo.
Tanto che, parlando di don Puglisi a Catania o a Messina, ho appurato
che della sua vicenda si ha una conoscenza molto limitata già nella
stessa terra di Sicilia. Mentre, invece, anche celebrandolo all'interno
della religiosità popolare, con tutto quello che ha voluto dire la
sua vita e il modo come è morto, lo si farebbe entrare veramente nel
vivo della comunità cattolica siciliana.
Condivido le tue riflessioni.
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