La Repubblica Palermo
19 aprile 2018
Con i mafiosi o con i pastori, quel destino da cani
Francesco Palazzo
Quando la cultura e il linguaggio popolari erano di casa, sentire di una persona « è un cani i mànnara », nel senso di soggetto sinistro e violento, non era insolito. Offesa eguagliata da « è un cane di bancata », che si nutre, da parassita, di quanto cade dai banconi dei macellai. Soltanto che il primo, come scrive il trapanese Salvatore Mugno ne Il cane della mafia. I siciliani e i cani di mànnara (Catania, Algra, 2018), è collaborativo col padrone, benché aggressivo con gli altri, il secondo inutile. I “Cani di bancata” li troviamo in uno spettacolo sulla mafia di Emma Dante, ma anche in Nero su nero di Sciascia, citati da Mugno. La mànnara è la mandria, ma pure le greggi: i cani sono arruolati dai pastori per difendere, giorno e notte, altri animali. Il termine mànnara deriverebbe dall’arabo manzrah, ovile, gregge, mandria. Se questo cane ha una cattiva nomea, lo si deve, scrive l’autore, non a suoi difetti, ma all’uso cui è stato destinato. Mugno scrive: «Sembrano cani incapaci di altro se non di tenere lontani gli estranei. Sin da cuccioli vengono abituati al duro apprendistato del lavoro e al distacco dal mondo. Per loro sembra non esservi una fase di svezzamento, di gioco, di spensieratezza, di distrazione, nascono per lavorare». L’autore passa inizialmente in rassegna alcuni cani-personaggi della letteratura siciliana. Pirandello, Tomasi di Lampedusa (il celebre alano Bendicò de Il Gattopardo, una chiave di lettura del romanzo), Sciascia, Piccolo, Camilleri (Il cane di terracotta), Alajmo, e altri. In una novella di Pirandello, la cagnetta Mimì è abbandonata dalla padrona perché unitasi al bastardino Pallino. In Occhio di capra, di Sciascia, emerge la dignità del cane, che muore senza lamenti. Marcello Benfante, in Cinopolis, tratteggia una Palermo soffocata dall’immondizia (guarda un po’) e assediata dai cani. Roberto Alajmo, nel racconto La famosa rivolta dei cani di Sicilia, prende spunto da fatti di cronaca degli anni Novanta, in cui dei cani si resero malvagi protagonisti. Il “mastino siciliano” è presente in Luigi Natoli ne I Beati Paoli, dove i cani manifestano trasporto verso un bimbo, e in un racconto popolare raccolto dal Pitrè, Li latri e San Petru. Questo tipo cane, secondo ricerche riportate nel testo, è in via d’estinzione, un centinaio di capi, secondo alcuni anche meno. Esperti e università lo stanno studiando. Dal 2014 c’è il registro per la razza cane di mànnara. Ci sono stati dei raduni nel 2014, 2016 e 2017. Nel capitolo “Il cane dei pastori, dei campieri e dei mafiosi” si evidenzia il fatto che questi cani hanno anche vissuto, storicamente in contesti particolari. Come quello dei campieri, che sorvegliavano le terre del latifondo. L’autore cita un’operazione antimafia in cui gli indagati si danno appuntamento in unamànnara di pecore. A proposito del titolo del libro, Mugno scrive che: «Per certi aspetti, essi potrebbero forse perfino essere ritenuti i “cani della mafia”, cioè quelli che, per prossimità, temperamento e “formazione”, sarebbero i più vicini alla mentalità mafiosa». Nel capitolo “Affinità elettive tra l’uomo e la bestia” si indicano somiglianze tra il cane di mànnara e certi siciliani. L’indolenza, la vanità, l’esibizionismo. Poi la fierezza, l’andatura altezzosa, la silenziosità, la trasandatezza, l’essere sornioni ma dall’intelligenza pronta. Così come la rara tenerezza, relegata nel privato della proprietà del padrone. Come un certo tipo di siciliano, scrive Mugno: «Tenero, delicato e amorevole nel chiuso della propria casa e, in molti casi, ostile, spigoloso, ermetico e impermeabile rispetto all’ambiente esterno». Ci sono altri stimoli nelle 79 pagine. Dopo la lettura mi è capitato di stare in auto dietro una mandria e di osservare, con senso di solidarietà, i tre cani a protezione dei bovini. Cercando il lampo di bontà nei loro occhi di quando erano cuccioli, prima di essere costretti a una vita da guardiani.
Nessun commento:
Posta un commento