LiveSicilia - Lunedì 04 Giugno 2012
Francesco Palazzo
Frequento poco le chiese cattoliche, sono cresciuto in una comunità parrocchiale di periferia, quella dove Padre Puglisi svolse gli ultimi anni di presbiterato. Poi le strade con quel mondo si sono divise. Capita a tanti. Ho bei ricordi. Tranne qualche volta nelle festività più sentite, adesso mi capita di assistere alla messa solo in occasioni che riguardano affetti e amicizie. Battesimi, matrimoni, cresime, funerali e prime comunioni. Il minimo sindacale. Il mio osservatorio è, perciò, abbastanza limitato e sporadico, per quanto segua con attenzione i dibattiti che agitano il mondo cattolico. Passiamo ai fatti. Qualche giorno addietro, durante la cerimonia di prima comunione di una ventina di bambini e bambine, ho avuto un'altra conferma, magari errata, se ne può discutere, del perché i giovani, non appena assolti gli “obblighi” di leva legati ai sacramenti che imprimono nella vita personale e familiare un certo status sociale, non ne vogliono più sapere della fede. Ed è una grande lacuna che si crea nelle loro vite, perché spesso ignorano questa importante dimensione senza aver avuto la possibilità di approfondirla. Il giovane parroco, in un quartiere di Palermo ad alta densità mafiosa, come dicono gli esperti, pronuncia un'omelia che non sfiora minimamente la vita di questi piccoli. Santissima trinità con annessi e connessi e neanche l'ombra di un sorriso. Ma questo è solo l'inizio. Ad un certo punto si lancia in una sorta di reprimenda contro chi farebbe meglio ad andarsene a Mondello visto come è vestito. Perché spesso è dai vestiti, aggiunge, che si vede la persona. Parla da padrone. Sa che nessuno si alzerà per dire qualcosa che possa mettere in discussione ciò che esce dalla sua bocca. Quasi sempre si è sudditi, pure in chiesa, soprattutto lì, non fedeli del dio che fa meraviglie, come recita il salmo. Chissà cosa ne pensano i bambini. Nel vangelo, durante gli anni di catechismo, avranno forse letto quel passo di Matteo in cui è scritto di non preoccuparsi di quello che si indossa, essendo la vita molto più importante del vestito. Messa così, se chi predica si ricordasse ciò di cui è testimone, e non desse fiato alla proprie paure e carenze psicologiche, probabilmente i ragazzi converrebbero che vale la pena di andare a vedere cosa è questo cristianesimo a cui all'inizio sono costretti. Ma se prima devono scrutare l'abito e non le persone, già trovano in altri luoghi tali insegnamenti. Tuttavia, questo, per il nostro parroco, è solo il prologo. Non quello dell'evangelista Giovanni, a cui segue il passo che il verbo si fece carne. Prima della comunione, intima, con fare ieratico e solenne, che quanti vivono in condizione di peccato non possono comunicarsi e che ci si può depurare soltanto confessandosi con un sacerdote, vincendo il peccato imperdonabile di chiarirsi con se stessi e con simili i propri percorsi di vita. E questo è solo il carico. Perché dopo cala l'asso di briscola, o, se volete, mette sul tavolo la scala reale. Non si permetta, chiunque si trovasse in condizioni di convivenza e divorzio, di prendere l'ostia consacrata, commetterebbe un gravissimo sacrilegio. C'è, mi chiedo, tra i bambini comunicandi qualcuno che vive situazioni di questo tipo in famiglia? E che importanza ha. Lui va dritto col caterpillar ed entra a gamba tesa stritolando sentimenti e sofferenze. Proprio mentre a Milano, il pur ultra conservatore pastore tedesco Ratzinger, sta balbettando qualche parola distensiva sull'argomento. E i mafiosi della zona che magari portano i figli all'altare per la prima comunione, e possibilmente ce n'è qualcuno in chiesa? Per loro non c'è problema. E qui ci viene in aiuto Leonardo Sciascia. Il quale, nel romanzo a “Ciascuno il suo”, fa dire all'oculista Roscio: “Dico cattolici per modo di dire, mai conosciuto in vita mia, qui, un cattolico vero, e sto per compiere novantadue anni. C'è gente che in vita sua ha mangiato magari una mezza salma di grano maiorchino fatto ad ostie, ed è sempre pronta a mettere la mano nella tasca degli altri, a tirare un calcio alla faccia di un moribondo e un colpo di lupara alla reni di uno in buona salute”. Ma forse è troppo presto per parlare di Sciascia a un bambino di nove anni e troppo tardi per farlo col giovane, vecchio, vecchissimo, parroco.
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