CENTONOVE
Settimanale regionale di politica, cultura ed economia
7 novembre 2008
Mafia e politica, binomio in crisi
Francesco Palazzo
Bisogna capirlo una volta per tutte. Oppure processo dopo processo. Come vi torna più semplice. Il rapporto che lega la mafia alla politica si risolve e si affronta esclusivamente nei tribunali. Quando si è assolti, vince la politica, quando si è condannati, hanno la meglio le toghe. Che poi le sentenze contengano verità tecniche, ossia che si muovano in una sfera del tutto diversa da quella della politica, nel cui ambito conta più la sostanza che la forma, passa in secondo piano. Quando c’è il bollo della giustizia, non c’è spazio per nessun’altra riflessione, che non sia la beatificazione dell’assolto o la discesa agli inferi del condannato. Ma non sempre, in quest’ultimo caso. Perché si può sempre gridare al complotto giudiziario pur dopo pesantissime condanne. O leggere le sentenze, anche dopo l’ultima parola della cassazione, secondo quanto conviene alla politica. Stando così le cose, non ci rimane che leggere e registrare passivamente, da parte della politica, le calorose dichiarazioni di plauso, che non mancano mai, dopo ogni operazione di polizia contro le cosche. Oppure la solidarietà, anche questa sempre presente, nei confronti di coloro che subiscono minacce. Ultimo, il caso Saviano. Poi la vita prosegue, come sempre. Con la politica, e con essa, non dimentichiamolo, tutta una società, borghese e popolare insieme, che ne elegge i rappresentanti, più attente a non incappare nelle grinfie, nel mirino, della macchina giudiziaria che a sciogliere veramente e autonomamente il nodo, importante, fondamentale, decisivo, che lega le mafie alla politica. Ogni tanto qualcuno, soprattutto se si avvicinano le elezioni e di entrambi le coalizioni che si fronteggiano, tira fuori l’amuleto del codice di autoregolamentazione. Mai usanza fu più inutile, ipocrita e retorica. Perché i codici, cui i partiti dicono sorridendo di aderire, ma solo per non fare brutta figura con il mondo intero, sono come le preghiere di penitenza che il nostro buon parroco una volta, non so se ancora è così, perché è da molto che sono fuori esercizio, ci appioppava dopo la confessione come espiazione dei nostri piccoli e grandi peccati. Con il tacito accordo, tra peccatore appena perdonato e sacerdote assolvente, che all’uscita della chiesa si azzerava il contatore e tutti peccatori come prima. E così è per buona parte dei partiti e per quasi tutto il corpo elettore. Una cosa sono le roboanti parole, delle quali ormai l’antimafia teorica del giorno dopo è satura sino alla nausea. Un’altra è l’antimafia praticata del giorno prima, quella quotidiana, fatta di frequentazioni non sospette, limpide azioni amministrative, cittadinanze responsabili, sulla quale dovrebbero esercitarsi, ma non lo fanno quasi mai, la politica e la società che la esprime. Poiché bisogna pragmaticamente fare i conti con ciò che si ha davanti e non con il migliore dei mondi possibili, che alberga nei nostri migliori sogni notturni, prendiamo atto che ormai il legame mafia politica non esiste più, se non, appunto, nelle aule giudiziarie, ma con le conseguenze aberranti che assegnano paradisi eterni agli assolti e inferni temporanei, e sempre riducibili, ai condannati. Non c’è molto altro. Uno dei due termini della relazione mafia-politica, il secondo, è sparito come in un gioco di prestigio. Riappare unicamente durante le udienze, stringendo in mano qualche portafortuna per scongiurare pronunciamenti ostili da parte delle toghe. Le quali, supponiamo, da rosse diventano bianche quando liberano la gioia degli imputati. Ci rimane in mano, sola e sconsolata, l’altra parte del binomio, la mafia, Cosa nostra. Che per l’opinione pubblica si riduce a mera criminalità organizzata, quella che piace tanto a tanta parte di società politica, cui tutti apparteniamo, di ogni tempo, risma e colore. I cattivi, ladri, assassini, estorsori che, prima o dopo, cadranno nella rete della repressione. Tirati fuori, magari, da covi situati in quartieri degradati, in modo che il quadretto sia completo. Il resto, ossia tornare a far vedere e sanzionare quella parte di società politica che sostiene le cosche al di là delle vuote parole, è nelle mani degli elettori. Le lancette del rinnovamento della politica passano dal tribunale del consenso. Che sinora, in Sicilia, sembra emettere sempre la stessa sentenza. Senza, al momento e chissà per quanto ancora, possibilità di alternanza tra i due schieramenti in campo.
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