La Repubblica Palermo
20 settembre 2017*
La retorica su Don Puglisi
Francesco Palazzo
L’antimafia dei riti e quella della concretezza, quella dei cambiamenti veri e l’altra a portata di telecamera, quella illuminata per l’occasione e quell’altra feriale che non conosce luce. Voi vi chiederete, a proposito di luce, come erano a ventiquattro anni dalla sua scomparsa le strade dove Don Pino Puglisi esercitò il suo mandato di presbitero sino a trovare una pistola che puntava alla sua nuca il 15 settembre 1993. Cioè le vie adiacenti la chiesa di San Gaetano, quelle vicine la statua bianca del santo. Le cui dita spezzate, mi è stato detto recentemente, sarebbero state rotte, ovviamente è solo una leggenda metropolitana, perché indicavano la casa dei boss. Ci vuole poco, del resto, a inventarsi, immaginarsi, storie. Lo stesso cardinale che ha presieduto la veglia in ricordo di Don Puglisi la sera del 15 a Piazzale Anita Garibaldi, presidente della CEI, la conferenza episcopale italiana, non l’ultimo arrivato, ha esordito chiedendo agli intervenuti e allo stesso arcivescovo, asciutti di risposte, se per caso Brancaccio non provenisse dalla parola branco. Capito che non era così ha affermato che comunque da branco, dopo Puglisi, quella che aveva davanti era diventata una comunità. Bastava interrogare per pochi secondi wikipedia per sapere che il quartiere prende il nome dal governatore di Monreale, il napoletano Antonio Brancaccio, che nel 1747 fece erigere la chiesa oggi conosciuta come San Gaetano. Ma tutto deve tenersi nell’immaginario collettivo. Del resto, cosa può pensare uno che viene catapultato sul luogo dove Puglisi trovò la morte per mano mafiosa se le testimonianze offerte durante la veglia non sono quelle dei tanti giovani laureati del quartiere, dei professionisti, medici, ingegneri, musicisti, professori, anche universitari, dei tanti onesti lavoratori originari del rione e tuttora residenti o di un gruppo artistico che produce musical e che si è esibito in tutta Italia, formato da 150 abitanti di Brancaccio. Lo schema che viene proiettato, a quasi 25 anni da quel colpo alla nuca che fece fuori un grande prete, ma altri ve n’erano stati prima, ad esempio Rosario Giuè, ma questo non viene detto al presidente della CEI, è classico. Quello di gente senza futuro che ha bisogno della mano caritatevole del volontariato per rialzare pietosamente in qualche modo la testa. Quello di un quartiere dove don Pino levava i bambini e gli adolescenti dalla strada per portarli a scuola. Omettendo di dire che i ragazzi e le ragazze originari del quartiere che Puglisi trova al suo insediamento a Brancaccio, andavano regolarmente a scuola e tantissimi hanno conseguito lauree e diplomi, con un tasso probabilmente non dissimile a quello della parte residenziale della città. E che, invece, Don Pino i problemi li incontrò, oltre che con la mafia ovviamente, soprattutto con un’enclave di centinaia di famiglie indigenti che all’inizio degli anni ottanta vennero paracadutate nel quartiere da una politica miope. Ebbene, quel problema a Brancaccio è ancora presente e in questi ultimi decenni si è aggravato. Si è parlato molto dei tremila volumi che don Puglisi aveva, ma occorre anche dire che i giovani di Brancaccio gliene fecero trovare altrettanti nel salone della chiesa, sistemati a formare un’attiva biblioteca formalmente costituita che aveva il nome di Claudio Domino, il bambino ucciso dalla mafia a metà degli anni ottanta. Ma vi ho lasciato con una domanda senza risposta. Come erano le strade di don Puglisi la sera del 15 settembre? Erano al buio. Pesto. Al buio la Via Brancaccio, la Via Conte Federico, la Via S. Ciro, la Via Hazon, la Via Panzera, la Via Giafar. Strade che fanno da corona alla parrocchia dove 3P visse i suoi ultimi tre anni di vita e di sacerdozio. Magari un giorno sconfiggeremo la mafia. Ma lo faremo solo e soltanto se ci sapremo raccontare le storie nella giusta maniera e se sapremo curare bene questi territori. Altrimenti rischiamo di essere, per usare le parole del cardinale, un banco che brancola nel buio. E la stessa chiesa di Palermo, che ancora afferma che don Pino non era un prete antimafia, lo era eccome, e che ad oggi non ha mai messo in campo una pastorale specifica contro le cosche, rischia anch’essa di girare nel vuoto della retorica.
*versione integrale, due piccole parti segnate in grassetto sono saltate per motivi di spazio.
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