La Repubblica Palermo – 10 agosto 2019
Il PD si guarda l’ombelico e non vede l’esodo
dei giovani
Francesco Palazzo
Il Partito democratico in Sicilia,
dalla sua nascita, non si è mai fatto mancare nulla, tranne che un momento
d’unità d’intenti. Si dirà che neppure nella casa madre, a Roma, scherzano. In
dodici anni hanno fatto fuori leader e segretari di partito. Eletti, questo è
il bello, in pompa magna con le primarie, chiamando a raccolta iscritti e non
iscritti. Che pure ci credono sempre, soprattutto questi ultimi. Ma almeno a
livello nazionale in certi frangenti qualche traccia di come deve essere una
comunità politica si è vista. In Sicilia invece, paradossalmente nella regione
ruota non di prima classe del consenso democratico, dove la coesione dovrebbe
essere più che in altri luoghi un imperativo categorico, si fa sempre la prova
generale della guerra guerreggiata senza sbagliare un solo colpo contro se
stessi. I siciliani non si accorgono di nulla, ma dentro il partito e nei
social, con una manciata di iscritti che se le danno di santa ragione,
evidentemente la pratica fa divertire molto. L’ultima puntata, ma noi sappiamo
che è soltanto la penultima, è l’individuazione del segretario regionale. Ci
avevano proposto le primarie. Tutto l’elettorato di riferimento era pronto per
contarsi ai gazebo, che sono sempre, ogni volta che vengono aperti, momenti di
festa e di partecipazione. Ma durante le tappe di avvicinamento si è capito che
non si sarebbero svolte. E così è stato a poche ore dalla loro celebrazione.
Ora il Pd, nel mezzo di una situazione politica davvero complicata, ha trovato
il tempo per sfiduciare il segretario regionale, Davide Faraone, l’unico
rimasto in lizza per la conta ai gazebo. Che stava almeno tentando di riportare
il partito sui problemi, sul territorio. Si è invece deciso, a Palermo e a
Roma, di tornare sul lettino di questa sfibrante e interminabile autoanalisi
collettiva che è la vicenda dei democratici siciliani. Con diverse squadre in
campo, ciascuna con un suo schema, il suo pallone e il proprio campo da gioco.
Quando l’unica mossa da fare, se non si vuole provocare solo disinteresse nei
siciliani, è mettere in campo il partito con una propria riconoscibile
identità. Uscendo dall’asfittico retrobottega della politica politicante di
corto respiro, giocata sempre dalle stesse poche persone. Il Pd avrebbe, ha, in
Sicilia grandi praterie dove trovare senso. Ma preferisce, piuttosto che
confrontarsi direttamente con le domande e le opportunità dei siciliani,
rimanere nel piccolo laboratorio, con pochi posti a sedere e l’uscio sprangato.
Si disegna con i vecchi colori riscaldando sempre la stessa minestra e non si
prova a immaginare e vivere nuovi approcci al cospetto dell’elettorato e
dell’opinione pubblica dell’Isola. Eppure di tante energie e intelligenze
dispone questo partito, anche nella nostra regione. E altre potrebbe trovarne
se decidesse di aprire porte e finestre. Ma sceglie l’immobilità facendo
prevalere la lotta interna. Come sempre. In un frangente storico, peraltro, in
cui, come ci ha detto nei giorni scorsi il rapporto Svimez 2018 e come
sottolineava qualche mese fa l’Istat, c’è una fuga progressiva dall’Isola di
giovani cervelli con alta scolarizzazione. Che manco si accorgono di un
partito, che dovrebbe essere riformista, impantanato attorno al proprio
ombelico. I democratici, se non fossero, oggi come ieri, oggi più di ieri,
persi in un inestricabile labirinto mentale e politico, dovrebbero provare a
dare risposte a questa amara e desolante emigrazione con tablet e valigie
firmate. Cercando, perché no?, anche tra queste persone una classe dirigente
moderna. Per un partito che guardi al presente e al futuro e non si contempli
continuamente nello specchio dei propri incomprensibili contorcimenti. Davanti
a una Sicilia che ha bisogno di aiuto.
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