CENTONOVE
28 Marzo 2008
PALERMO, CONCERTI CON IL PIZZO
Francesco Palazzo
Ebbene sì, anch’io sono un pagatore di pizzo. Non mi riferisco a quello che, “normalmente”, i posteggiatori abusivi ti chiedono per le vie della città a qualsiasi ora del giorno. E, in prossimità dei locali alla moda, anche della notte. Dove da certi macchinoni vedi uscire mani ben curate che consegnano l’obolo. Su queste vessazioni, dopo anni di esercizio, sono riuscito ad averla vinta. Dove ancora non ho mietuto successi apprezzabili, anzi possiamo parlare di completo fallimento, è in occasione dei concerti palermitani al palasport. Nell’ultimo anno, tra Guccini, Max Pezzali e, quindici giorni fa, Venditti, mi è capitato di recarmi lì almeno tre volte. Ed è stata sempre la stessa storia. Giovanotti aitanti, o adolescenti quasi bambini, coprono i chilometri di marciapiede a destra e a sinistra della struttura. Non c’è verso di sfuggirgli. Si avvicinano e chiedono se vuoi dare un contributo per il caffè (che è un argomento come un altro, equivale a domandare la quota mensile ai commercianti per i poveri carcerati). In questo caso, a differenza dei ristoranti, dei cinema o di altri locali pubblici, la tempistica è diversa. Se in quelle circostanze la convenzione è che si paga dopo, e all’inizio c’è solo il riconoscimento ufficiale dell’uomo col berretto e fischietto, per cui alla fine puoi simulare un’amnesia, un’ubriacatura, o semplicemente ignorare la cosa, per i concerti al palasport i soldi devono essere anche pochi (e qui devi quartiarti), maledetti (per chi li sgancia) e subito. Perché poi, all’uscita, non trovi più nessuno. Questo tipo di pizzo non riesco ancora a sopraffarlo. L’ultima volta, appunto due settimane addietro, pur provando sempre fastidio, avevo già preparato, prima di scendere dall’amata quattro ruote, i due pezzi da cinquanta centesimi in una tasca del jeans dedicata, per l’occasione, solo a questa funzione. In modo da evitare che dal buio serale uscisse fuori inavvertitamente un pezzo da due euro e i caffè diventassero quasi tre. La qual cosa avrebbe fatto ancora più male al mio fegato, pur non avendone bevuto neanche uno. Dunque, confesso, pago e, appena inizia il concerto, non ci penso più. E quel che scrivo appresso non serve a giustificarmi. Nel tragitto che dal posteggiatore mi porta al tempio palermitano della musica moderna, ci rimugino sopra. Allora cerco di puntare i rappresentanti delle forze dell’ordine per comunicare timidamente, sentendomi colpevole e senza alibi per aver sborsato l’euro, che lì fuori è tappezzato di gentili soggetti che pretendono il pagamento forzato. Facendoti capire, platealmente, con sottili doti di comunicatori non verbali, che tu vai, ma la tua auto rimane lì. Più in particolare ho cercato, sinora vanamente, di comprendere che bisogno c’è, invece di presidiare soprattutto il territorio esterno al luogo del concerto ingaggiando la battaglia con i posteggiatori, di militarizzare abbondantemente solo le immediate adiacenze di un posto frequentato, in larga parte, da quaranta-cinquantenni e da ragazzi. I quali, come impellenza irrinunciabile e imperativa, spentesi le voglie rivoluzionarie per grandi e piccoli, possono avere quella di andare in bagno. Se la prostata protesta o se il pargolo fa la cacca. Oppure di mandare messaggini innocui e costosi in continuazione. Tutte attività che difficilmente possono ricadere sotto le attenzioni dell’ordine pubblico. L’ultima volta, un omone in borghese e con un medaglione, forse un ispettore, mi ha consigliato di chiamare i carabinieri, che avrebbero arrestato i rei per pizzo. Addirittura! Aveva un accento napoletano, era simpatico e l’ho presa bene. Nel concerto precedente un altro uomo, questa volta in divisa, è stato almeno più diretto. Chiedendomi retoricamente e con un certo implicito sfottò, visto che il mio accento non è affatto sud tirolese, se vivevo a Palermo. E perché mai non avevo ancora capito, da siculo purosangue, come funzionano le cose a certe latitudini.
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