domenica 28 aprile 2013

Non pagare in autobus? Sai che novità per i palermitani.

LiveSicilia
28 aprile 2012

Chi non paga sugli autobus e non vuole la rivoluzione
Francesco Palazzo
     
http://livesicilia.it/2013/04/28/chi-non-paga-sugli-autobus-e-non-vuole-la-rivoluzione_305732/

Sfondano una porta aperta gli studenti palermitani delle scuole superiori che all'inizio della settimana scorsa, annunciando un corteo poi svoltosi venerdì, hanno appeso dei cartelli dentro gli autobus invitando a non timbrare il biglietto. E' come chiedere agli italiani se vogliono pagare le tasse o ai commercianti se sono felici di emettere lo scontrino fiscale. I passeggeri si sono uniti alla protesta. Figuriamoci. Magari gli studenti non lo sanno, ma quello di non obliterare il ticket nei mezzi Amat è uno sport diffusissimo. La protesta ha al centro la precarietà economica ed esistenziale che ci sta investendo in pieno. Su uno dei cartelli esposti c'era scritto che si vuole il reddito minimo garantito, case, trasporti e sanità gratuiti per tutti i disoccupati e i precari. Anzi, un altro messaggio inneggiava a trasporti pubblici gratuiti e funzionanti garantiti a tutti e tutte indiscriminatamente.

Forse ai ragazzi sfugge un piccolo particolare. Non pagare un servizio pubblico di base, come quello del trasporto, è un danno e non un favore che si fa alle categorie svantaggiate che la loro iniziativa intende proteggere. Se facciamo andare in default, e già la situazione dell'Amat è abbastanza pesante anche per altre ragioni, il trasporto pubblico, esortando la gente a non obliterare il tagliando, cosa resterà per muoversi, se non i mezzi privati? E chi può permettersi, secondo i nostri studenti, di spostarsi a piacimento sul proprio mezzo giornalmente, con quello che costa il carburante, se non chi appartiene a quelle fasce di reddito che si possono ancora consentire uno stile di vita al di sopra della media? Probabilmente i nostri studenti dovrebbero rendersi conto che solo diminuendo quell'ampia fascia di portoghesi che giornalmente bivaccano sui mezzi Amat a scrocco, e non estendendola come loro propongono di fare, si può permettere all'azienda di percepire più incassi e così pensare, eventualmente, ad una riduzione dei costi per l'utenza.

Inoltre, propendere ancora per una politica dell'assistenzialismo di massa (case, reddito e servizi gratis) non è, come quella di non sborsare un centesimo per il biglietto, esattamente una novità. Quell'assistenzialismo che loro vorrebbero è lo stesso, che lo sappiano o no, che ha fregato e sta fregando la loro generazione. Il precariato a vita in cui si dibattono i loro genitori è la prima causa del futuro incerto che li attende e delle tante porte chiuse che troveranno non appena finiranno di studiare. A meno che non cambino registro valutando la possibilità di vederla in un altro modo. Lasciando per sempre il solco già arato molto bene dalle generazioni precedenti, iniziando a pretendere il riconoscimento del merito e mettendo in circolo idee nuove. Cercando di non lisciare il lupo per il verso del pelo (incoraggiando a non pagare il biglietto fanno proprio questo), ma affrontando con coraggio i veri nodi della questione che li vede coinvolti.

Non sarebbe male, ad esempio, presentarsi in piazza insieme ai tanti lavoratori dei vari bacini di precariato che protestano e chiedere alla politica di mettere, per sempre, un punto a tutto ciò. Sia chiaro, chi non ce la fa va aiutato. Ma la vera rivoluzione, cari ragazzi e ragazze, se proprio volete farla, è quella della normalità. Vi conviene. Una normalità dove il lavoro e il reddito derivano dallo studio, dall'impegno e non sono il risultato di un assistenzialismo fine a se stesso. Una normalità in cui pagare il biglietto dell'autobus è solo un gesto di civiltà. Se per caso cambiaste idea, provate a risalirci, sugli autobus, dicendo ai presenti che devono pagare perché quello è un servizio da tutelare. Troverete certamente meno accoglienza. Non preoccupatevi. Quello sarà il segnale che siete sulla strada giusta. 

sabato 13 aprile 2013

Associazioni antimafia: una casa comune per contare.

LA REPUBBLICA-PALERMO
12/4/2013 - PAG. I
Anche l'antimafia è rimasta senza casa
Francesco Palazzo
 
Il progetto di una casa comune delle associazioni antimafia palermitane esiste da tempo. Durante le due legislature degli anni novanta dell'attuale sindaco, si arrivò anche a trovare un luogo. Se ricordiamo bene il cosiddetto palazzo Barone di via Lincoln, dove sorgono uffici comunali. La cosa non ebbe seguito perché gli spazi offerti non sembrarono adeguati. Nel 2004 l'Osservatorio sulla Partecipazione, una delle tante aggregazioni che durano da Natale a Santo Stefano, cercò invano di arrivare ad un protocollo d'intesa da sottoporre all'amministrazione comunale. Ogni realtà associativa, più che guardare al percorso comune, si limitò a scrutare il proprio ombelico. Nel giugno del 2005 il Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato ha formalizzato una proposta articolata e interessante, chiamando a raccolta associazioni, scuole, università, forze politiche e sindacali. Si proponeva uno spazio polivalente che potesse essere mostra permanente sul fenomeno mafioso e sull'antimafia sviluppatasi in Sicilia, biblioteca emeroteca su mafia e antimafia, con una raccolta di atti giudiziari e di documentazione, casa delle associazioni e laboratorio di nuove iniziative. Nel luglio successivo alcuni consiglieri comunali presentarono una mozione con la proposta di utilizzare per tale finalità Palazzo Tarallo, di proprietà comunale, sito nel quartiere Albergheria. Umberto Santino, fondatore del Centro Impastato, su questo giornale, nel 2006, si chiedeva che fine avesse fatto quella mozione. Palazzo Tarallo è stato restaurato e riaperto nel dicembre 2012 con due mostre riguardanti l'arte contemporanea e la fotografia. Per la verità una proposta alternativa dell'amministrazione comunale c'era stata. Ai Centri Impastato, Terranova, Pio La Torre e alla Fondazione Costa era stata messa a disposizione Villa Pantelleria per realizzare la Biblioteca della Legalità. Ma i sodalizi associativi si sarebbero dovuti occupare delle ingenti spese di restauro. Insomma, l'aspirazione ad una casa comune dell'antimafia è tutt'oggi all'anno zero. Nei due decenni che ci separano dalle stragi del biennio 1992/1993 tanto lavoro, teorico e pratico, si è fatto nel mondo dell'associazionismo, ma ciascuno per conto proprio, senza la possibilità di fare sintesi e di sommare i percorsi anziché disperderli in mille rivoli. Il progetto di una casa comune dell'antimafia e della legalità poteva e potrebbe essere un solido e duraturo punto di riferimento per andare oltre l'emotività dei grandi fatti di sangue e dell'emergenzialismo che ne è sempre seguito. Siamo ancora alla ricerca di un'antimafia in grado di fare tesoro dei tanti carismi e dei molti saperi che una lunga storia di lotta ai poteri mafiosi, iniziata sul finire dell'ottocento ci ha tramandato. Ciò porta a sottovalutare e a non combattere, in quanto comunità che riesce a fare fronte comune, prescindendo dalle azioni della magistratura e dalla debolezza della politica su questa tematica, la forza che Cosa nostra è ancora in grado di esercitare. E si tratta di aspetti finanziari internazionali, di inserimento nell'economia pulita visto che i capitali sporchi in un momento di crisi di liquidità s'impongono più facilmente e di controllo del territorio che non disdegna il ricorso alle armi, come anche accaduto recentemente pare per il commercio di droga. Senza contare che un'antimafia sociale polverizzata contribuisce a isolare, di fatto, quanti sono in prima fila a investigare sulle cosche e sui loro rapporti con il potere politico ed economico. La pianificazione dell'attentato contro il sostituto procuratore Nino DI Matteo può essere, in questo senso, più di un campanello d'allarme. Speriamo di non doverci ritrovare nuovamente nelle condizioni di chi si mobilita, collettivamente, sempre un minuto dopo.

giovedì 28 marzo 2013

Il PUT d'aprile. Qualcuno ci crede?

LA REPUBBLICA PALERMO
27 MARZO 2013
PAG. 1
L'inutile gazeboclastia dell'amministrazione
Francesco Palazzo



DEVO ammettere che del PUT (per gli amici meno avvezzi agli acronimi Piano Urbano del Traffico) mi ero quasi dimenticato. Assurse all'onore delle cronache panormite ai tempi delle ZTL (per i più affezionati le Zone a Traffico Limitato). Ricorderete quel cartoncino che per averlo ci siamo dovuti fare ore di code, pagando. Una fatica immane. Sarà per questo che ancora molti palermitani lo esibiscono come uno scalpo intoccabile, ancorché inutile, sui parabrezza delle auto. Non si sa mai. Dovesse tornare di moda, uno così è pronto. Le ZTL, appunto, non si poterono fare perché mancava il PUT. Almeno così decisero i giudici del Tar Sicilia nel giugno del 2008. Sono trascorsi cinque anni, che in politica sono un'eternità, e apprendo che il PUT, nella mia mente già in cammino, ancora non c'è. Anzi, per la verità, verrà presentato oggi dall'amministrazione comunale. Era ora, visto che la prima proposta di delibera sul PUT è del 1999. Alcuni di voi portavano ancora i calzoni corti e non c'era nemmeno l'euro. La notizia del PUT ancora non nato è venuta fuori come corollario del provvedimento preso dagli amministratori palermitani contro quei locali che hanno dei gazebo o cose simili nelle sedi stradali. Li devono, o dovrebbero visto che si annuncia una proroga, togliere, altrimenti multe a tempesta. Ma, è questo il punto, la norma antigazebo (che a me ricordano le primarie e dunque mi fanno simpatia a prescindere) non è percorribile al momento non essendo vigente il PUT. L'ultima notizia è del gennaio scorso. Annunciava che il nostro PUT sarebbe arrivato in consiglio comunale che lo dovrebbe modificare in parti importanti, visto che l'amministrazione in carica non lo condivide così come è stato predisposto dalla precedente amministrazione. Adesso si attende la sua presentazione in programma per oggi, (nel corso della presentazione sindaco e assessori hanno assicurato che sarà pronto ad aprile, dopo il passaggio in consiglio comunale). Per la verità qualcosa di simile la leggemmo pure a maggio 2011. Il PUT aveva appena avuto l'avallo dalla regione, era stato adottato dalla giunta comunale e inviato a Sala delle Lapidi per l'approvazione definitiva entro il 15 giugno di quell'anno. Secondo un'ottimistica previsione dell'assessore alla mobilità di allora «i consiglieri comunali daranno senz'altro il loro valido contributo». Evidentemente, se siamo ancora a discutere del PUT non venuto alla luce, senz'altro il contributo (anche invalido) i consiglieri non lo diedero. Dal sito del comune di Palermo leggo una notizia del 4 marzo 2013 nella quale si riporta che il sindaco ha voluto sottolineare l'importanza della collaborazione tra la giunta e il consiglio comunale «perché è quest'ultimo che è chiamato a pronunciarsi su importanti provvedimenti amministrativi che avranno un grande impatto sulla vita dei cittadini, a partire per esempio dal PUT, il piano urbano del traffico». Nella stessa nota leggiamo che il presidente del consiglio comunale «ha voluto sottolineare l'impegno del consiglio ad esaminare in tempi più brevi possibili i grandi provvedimenti oggi all'esame». Siamo certi (come potremmo pensare il contrario!) che tra questi "grandi provvedimenti" vi sia pure il nostro piccolo PUT. Che ormai ci fa quasi tenerezza pur non avendolo mai visto all'opera. E ancora di più gli vorremo bene quando lo vedremo in carne e ossa. Quasi sento nei suoi confronti uno spirito di protezione. Sono pronto a giurare che d'ora in poi non lo perderò più di vista. Per finire, una sola domanda di merito sulla gazeboclastia alla giunta in carica. Ma siete proprio così sicuri che, nella situazione non brillante in cui si trova oggi il capoluogo, e usiamo un pietoso eufemismo, ciò che attenta al decoro della città siano, per primi, i gazebo di bar, pub, ristoranti e pizzerie?




giovedì 14 marzo 2013

Noi siamo gente che paga le tasse!


La Repubblica Palermo
14 Marzo 2013 - Pag. 1
Il piacere e la sorpresa dell'onestà fiscale
Francesco Palazzo
 
E' un'esperienza comune in Sicilia frequentare un locale o usufruire di mano d'opera e non trovarsi poi con niente in mano. Se vai al Capo, ad esempio, uno dei mercati più importanti di Palermo, avere uno scontrino è un'impresa titanica. Qualche esercente ti risponde di non avere nemmeno la cassa per emettere il prezioso bigliettino. Ogni volta che la guardia di finanza effettua dei controlli a tappeto, purtroppo sporadici e quindi sostanzialmente inutili, la percentuale di infedeltà fiscale in Sicilia si avvicina a percentuali stellari. Ovviamente, il torto sta anche dalla parte di chi non chiede lo scontrino o la ricevuta, pensando di fare solo un favore all'evasore di turno e non un danno a se stesso e a tutta la società. E non pensate che si tratta soltanto di appartenenti al ceto popolare, che magari possono non sapere come vanno le cose nel mondo. Ho visto fior di professionisti sganciare banconote da cinquanta euro ai banconi delle pescherie o nei ristoranti e non avvertire l'esigenza di avere indietro una pezza d'appoggio comprovante quanto sborsato. Se questo è il quadro, quando capita qualcosa che ti colpisce in senso contrario, è il caso di segnalarla. Un sabato di marzo andiamo a cenare in un ristorante di un paese delle Madonie, Castelbuono. La cittadina degli asini che raccolgono l'immondizia. E, in effetti, se ne vede poca in giro. Strade pulite e tirate a lucido. Una comunità che nell'ultimo decennio ha valorizzato molto il proprio territorio e ciò, inevitabilmente, è diventato un importante volano economico, che porta visitatori e quindi soldi. Ma non divaghiamo. Al momento di pagare chiediamo lo scontrino perché quello portato al tavolo non contiene estremi fiscali, ma soltanto l'avvertenza di ritirare la ricevuta dopo l'avvenuto pagamento. Così facciamo, tuttavia torna indietro un altro pezzo di carta senza estremi fiscali. Mostriamo un minimo di disappunto, ma ci viene detto che la cassa ha dei problemi tecnici e non è possibile in quel momento eseguire l'operazione. Prendiamo atto. Veniamo invitati comunque a passare l'indomani a ritirare quanto ci spetta, nel frattempo abbiamo lasciato l'indirizzo di posta elettronica per essere avvertiti delle iniziative gastronomiche che si svolgono all'ombra del Castello dei Ventimiglia. La mattina successiva ci passiamo davanti ma è ancora presto. Ci godiamo una bella giornata di sole per le vie del paese e non ci pensiamo più. In ogni caso, avendo pagato con carta di credito, c'è traccia fiscale dell'avvenuta transazione. Arrivati a Palermo, sono già le ventitré e trenta, ricevo sul palmare la notifica di una mail. Proviene dal ristorante e contiene il seguente sorprendente messaggio: “ci scusi per l'inconveniente, non è stata una cosa voluta ma abbiamo avuto problemi col registratore di cassa. In allegato può trovare anche la nostra serietà e il modo in cui lavoriamo con onestà e professionalità! Noi siamo gente che paghiamo le tasse! Ci perdoni. Noi cerchiamo in tutti i modi di essere sempre corretti, non solo verso il cliente ma anche verso la società che ci circonda. Grazie per averci scelto. L'aspettiamo nuovamente a Castelbuono”. In allegato il file con la foto del nostro scontrino e, come se non bastasse, un secondo file con l'immagine di una ricevuta fiscale dello stesso importo. E le sorprese non finiscono. C'è anche un terzo file dove vengono riprodotti alcuni scontrini emessi, a pranzo e a cena, sempre quel sabato. Non so a voi, ma al sottoscritto non è mai capitata una cosa del genere. Né in Sicilia, né altrove. Noi siamo gente che paga le tasse! Quale miglior slogan pubblicitario può esserci per convincere le persone a visitare, tornandoci, la Sicilia?


mercoledì 20 febbraio 2013

Via D'Amelio vietata. Tutto il resto si può fare.

LA REPUBBLICA PALERMO
19 FEBBRAIO 2013 - PAG. I
Francesco Palazzo
 
Ma insomma, se una forza politica, in questo caso Futuro e Libertà, che domenica pomeriggio si è ritrovata in Via D'Amelio per una manifestazione, decide di fare un'iniziativa di questo tipo, si può sapere che male c'è? Subito sono scattati, come un sol uomo, i difensori non si capisce di che cosa. La motivazione della critica, che sembra nobile e invece non lo è affatto, è che siamo in piena campagna elettorale per le politiche. E allora? Non è forse in campagna elettorale che si devono lanciare messaggi forti e precisi all'elettorato? Cosa sono le campagne elettorali se non il momento in cui ciascuno si presenta con la propria identità, cercando il consenso, al cospetto del corpo elettorale. O è forse meglio i leader di partito comizino in luoghi neutri senza dire una sola volta la parola mafia e parlando di ponti sullo stretto e amenità varie? No. Le critiche, piuttosto a chi va in certi posti della memoria, vanno rivolte a chi si tiene lontano da certi contesti e preferisce uscirsene pulito pulito. Perché in realtà, il tema della criminalità organzzata, che intanto è tornata platealmente a sparare in un quartiere in cui niente accadde per caso, e potrebbe farlo ancora, è il grande assente in questo mese di surreale propaganda politica in Sicilia. Sullo sfondo primeggia la vittoria al Senato in terra sicula, che pare sia il viatico più importante per avere la maggioranza in quel ramo del parlamento oppure impedirla comunque ai vincitori. E siccome ogni voto può essere utile e decisivo nella battaglia campale, non si butta via niente. Ma proprio niente. Al tavolo si chiamano commensali d'ogni tipo. Presentabili o meno, non importa. Si arruolano, dall'una e dall'altra parte, capibastone con i loro nutriti e pasciuti battaglioni di consenso al seguito. Quanto stia costando, e costerà, tutto questo, proprio in termini di legalità e lotta alla mafia, lo sapremo molto presto. Non appena, dopo domenica e lunedì prossimi, si sarà depositata tutta la fitta nuvola di polvere di un confronto elettorale all'ultimo sangue. Sarebbe proprio questo il problema da porsi. Come si sta raccogliendo il consenso in Sicilia per arrivare vittoriosi alla conta del Senato? Quali e quanti patti a futura memoria si stanno facendo? E chi li pagherà? E quanto costeranno a tutti noi? Sono domandine, secondo me, di un certo rilievo. Ma pochissimi se le sono poste e ancora meno sono coloro che hanno risposto. Diciamolo. Proprio in terra di Sicilia stiamo assistendo a un brutto e indigeribile confronto elettorale. Non si parla non soltanto di mafia e dei suoi legami ancora vivi e vegeti con la politica, ma neppure di uno solo dei tanti gravi e drammatici problemi che sta vivendo l'isola. Se questo è lo scenario, davvero si può pensare di alzare la polemica al vetriolo sull'innocente e persino troppo ingenuo comizio di Gianfranco Fini in via D'Amelio? Almeno quella è stata un'iniziativa elettorale chiara e ben leggibile da tutti. Uno afferra il micorofono, dice delle cose e fa della lotta alla mafia la cifra del proprio impegno politico. E la cosa finisce lì. Almeno così potremo misurare parole e comportamenti futuri di quanti hanno parlato nel luogo dove morì Paolo Borsellino. Dovremmo preoccuparci, o almeno occuparci, invece, di quanto sta avvenendo, non nelle pubbliche piazze, in cui ciascuno può essere giudicato da tutti, ma nelle segrete stanze della politica siciliana in questi ultimi giorni che ci separano dall'ingresso nei seggi elettorali. Ma questa è una cosa più complicata e dunque su di essa si preferisce sorvolare.

domenica 10 febbraio 2013

La guerra contro i magistrati. Vivi.

LiveSicilia
10 Febbraio 2013
Su Falcone Ingroia non sbaglia

Francesco Palazzo

 
 
Ovviamente, chi dice che non va toccata la memoria dei morti di mafia ritiene, ciascuno per suo conto, perché ogni testa è tribunale, di avere una sorta di copyright, un diritto d'autore scolpito sulle dieci tavole della legge. Quanti nei comizi, in vista delle varie tornate elettorali, hanno usato i loro nomi per diffondere idee politiche di parte? Quanti hanno fatto parlare i morti di mafia in questi ultimi venti anni? Solo ogni tanto alcuni di loro, detentori di un passato che evidentemente custodiscono in cassaforte, alzano il ditino e dicono a qualcuno che no, quello proprio non può. Ora è il turno del processo inquisitorio contro Antonio Ingroia. Avrebbe sbagliato ad accostare le critiche, che lo stanno investendo in misura industriale, in quanto candidato premier di una coalizione, a quelle che un tempo ricevette Giovanni Falcone. Quando era a Palermo e veniva accusato di tenere le prove dei cassetti e quando andò a Roma e venne sfregiato con l'epiteto di venduto ai voleri del principe. Accusato da chi? Non mi dite che anche voi avete dimenticato. Ma accusato dagli stessi, per lo meno dalla maggior parte di questa squadra formatasi dopo il 23 maggio del 1992, che oggi ne conservano e ne difendono dagli usurpatori infedeli le sacre gesta.

E tutto questo per quella bomba esplosa in quel tratto di autostrada. Perché se i boia di Capaci non avessero azionato il timer, quel pomeriggio di ventuno anni addietro, Falcone lo avrebbero continuato a massacrare quasi tutti quelli che appartengono al fiume di amici che si è ritrovato ad avere da defunto. E che dicono pure quella frasetta quasi buona per i baci Perugina. La conoscete. L'antimafia appartiene a tutti, i morti di mafia appartengono a tutti. Che è un po' la lotta alla mafia a bagnomaria. Appartiene a tutti e quindi a nessuno. Ma state attenti al gioco di prestigio. Coloro che affermano che l'antimafia, e i suoi morti, sono patrimonio di tutti avrebbero bisogno di un traduttore simultaneo. Perché in realtà stanno dicendo che la vera antimafia appartiene solo a loro. Che rilasciano licenze e attestati di benemerenza.

Ma non eludiamo la domanda attuale. Ha sbagliato Antonio Ingroia a dire che le critiche da lui ricevute sono della stessa specie di quelle che coprirono Falcone da vivo? No, non ha sbagliato. Così come il magistrato vivente, perché se fosse già morto tutti ne difenderebbero la memoria dall'oblio, viene apostrofato di fare politica con ancora fresca la divisa di magistrato, così a Falcone si oppose la stessa critica, ossia che aveva venduto la sua casacca e la propria autonomia. Nel primo caso alla sinistra, nel secondo a Roma, ai socialisti, in ultima analisi diventando un amico del malaffare. Perché anche questo è stato detto. Non parliamo degli ostacoli che tanti misero gli misero in mezzo ogni qual volta doveva raggiungere qualche carica più che meritata. Non è il caso di fare nomi, ma qualche cognome lo si può fare. I riformisti del PD di oggi, che lanciano strali contro Ingroia in difesa del martire Falcone, potrebbero, ad esempio, spiegarci perché ieri, quando non si chiamavano più PCI ed erano diventati PDS, si opposero affinché Falcone diventasse capo della superprocura. E mancava poco al botto di Capaci. Perché dopo, è chiaro, Falcone diventò l'eroe di tutta la nazione.

Dottor Ingroia, io non la voterò alle elezioni. Il suo progetto elettorale, Rivoluzione Civile, non mi convince. Ciò per ragionamenti politici che richiederebbero molte parole e non è il caso di tediare i lettori. Ma questo è un altro discorso. Il problema delle querelle che la vede contrapposta ai difensori (quasi tutti postmortem, dunque a vanvera) di Falcone e Borsellino, è invece abbastanza semplice, in fin dei conti, da decifrare. Bastano, in questo caso, poche sillabe. Che mi permetterà di fare uscire fuori per come le penso. Lei è vivo, dunque colpevole. Se ne faccia una ragione. 

domenica 20 gennaio 2013

Porticciolo di S. Erasmo. Quando l'ottimo e nemico del bene. Ovvero, mentre il medico studia...


La Repubblica Palermo
20 gennaio 2013
Francesco Palazzo
 
Quando mi trovo a passare nei pressi del porticciolo di S. Erasmo, mi rendo conto che a volte, a forza di lottare per il bello, ci teniamo per decenni il pessimo e ci conviviamo. Non so che fine ha fatto l'annosa diatriba tra chi vorrebbe realizzare in quel sito un attracco per imbarcazioni da diporto e chi teme che questo sia un modo per snaturare il luogo. Ho visto una stampa d'inizio 900. L'acqua arrivava a toccare la strada, il fronte del mare era molto più largo e nella caletta soggiornavano più di quaranta barche. Andateci oggi. Intanto, è quasi occultato alla vista. Dopo il prato del Foro Italico e l'Istituto fondato da Padre Messina, vi trovate davanti due pompe di benzina, prima erano tre, una delle quali non più funzionante. Se vi mettete tra le pompe e l'inizio dello specchio d'acqua, la vista è desolante. Una specie di parcheggio per auto e mezzi più grossi. Immondizia ovunque, resti di barche, pneumatici, sacchetti, bottiglie di plastica, rifiuti organici. Una parte di quella che una volta era un'estremità del porticciolo, è adesso una montagnola, formatasi nel tempo non certo per opera meritoria di chi ha scambiato quel posto per una discarica. Attorno al nostro (ex) porticciolo molte costruzioni cadenti e una palazzina in fase di ristrutturazione abbandonata da tempo. Ci da qualche informazione l'unico pescatore che incontriamo. Pescatore si fa per dire. Ha più di settantanni e sta aggiustando delle reti per il figlio che continua a fare il mestiere che fu suo e prima ancora di suo padre. E' all'interno di una casetta al cui esterno compare la scritta OPA (Organizzazione Pescatori Associati). Ma è ben chiaro che di pescatori da associare ve ne sono ormai ben pochi. Nell'altra facciata della casupola si può leggere “Centro raccolta del pesce”, ma buttandoci un occhio dentro si vede una specie di piccolo deposito pieno di tutto tranne che di pescato. Lui si ricorda di quando la cooperativa, fondata nel 1954, era molto numerosa e tanti palermitani andavano a rifornirsi di pesce. Dice che ogni tanto viene qualcuno. Misura, progetta, ipotizza e promette. Tanti posti barca per i turisti e altrettanti per chi vuole ancora vivere di pesca. Poi continua l'agonia. Alcuni cani e decine di colombi, gli unici che apprezzano il contesto, annusano e volteggiano. Ora il punto è questo. In attesa di sapere chi vincerà la lotta, tra gli amanti del diportismo e quelli del partito contrario, si può tentare di non fare morire il malato? Ci vuole molto ad abbattere la pompa di benzina non funzionante e a trasferire quella attiva di qualche centinaio di metri? E' un impresa titanica, fatta questa operazione, recintare tutta l'area in modo che non vi possa più entrare alcun mezzo privato? E' fantascienza ripulire la zona sistematicamente, così come si fa con altri luoghi molto meno belli di Palermo? E' cosa da pazzi mettere alcune panchine intorno a questo affascinante balcone sul mare? Del resto, si è dimostrato che quando si vuole si può. Si sono tolte le giostre dal Foro Italico e abbiamo avuto il prato e la passeggiata sul golfo. Si è sistemato in maniera egregia lo spazio adiacente la cala. Quasi trent'anni addietro hanno sloggiato i polipari dalla piazza di Mondello e da allora si vede ciò che prima era occultato alla vista. Insomma, c'è uno dei posti più belli di Palermo che sta morendo. Chi può fare qualcosa, si faccia avanti. Intanto salviamogli la vita, con piccoli ma decisivi interventi. Poi ci sarà tempo per continuare a discutere di tutto il resto.

venerdì 11 gennaio 2013

La chiesa e quei due bambini.

CENTONOVE
Settimanale di Politica, Cultura, Economia
N. 1 - 11 gennaio 2013 - Pag. 46
SE IL PRETE ASPETTA UN FIGLIO
Francesco Palazzo
 
Che ne penserebbe quel bimbo nato nella stalla più famosa dell'universo, del suo quasi coetaneo che verrà chiamato al mondo in conseguenza dell'unione tra un ministro della chiesa e la sua compagna di vita? Forse capirebbe. Visto che lui viene dentro la storia in una situazione molto più unica che rara. Sa che la vita segue percorsi tortuosi e la salvezza può anche venire da un bue e da un asinello che fanno da scaldino. Il vertice della diocesi di Trapani, invece, non ha avuto dubbi. Ha definito dolorosa, anche se onesta (ma pare l'onestà di chi confessa pubblicamente un crimine), la scelta di un prete di seguire la sua donna che attende un figlio. Ma può essere mai doloroso l'amore per una compagna e per il frutto a venire di tale sentimento? Si è aggiunto che il presbiterio e la chiesa locale vivono con grande sofferenza e lacerazione quanto accaduto. Ma per quale motivo dovrebbe sentirsi ferita una comunità che registra una scelta d'amore di un suo membro? Non è forse lo stesso bambino, nato simbolicamente il 24 notte in tutte le chiese del mondo, a porre l'amore come primo comandamento? Il punto è che in ambito cattolico si vive sempre con grande imbarazzo quanto accade nelle camere da letto. Sia che vengano frequentate da laici sia, a maggior ragione, che siano visitate dai chierici. I pastori di anime intendono porsi da guida per le vite dei fedeli, ma non appena si trovano a vivere un normalissimo sentimento all'interno del loro mondo, vanno in tilt. Non sarebbe stato del tutto umano, da parte della chiesa, anziché definire in termini luttuosi l'evento, declinarlo con gioia, nella certezza, e nella speranza, che due persone hanno intrapreso una strada di condivisione scegliendo di costruire una famiglia? Anzi, il giubilo doveva essere ancora più grande proprio perché la famiglia, composta da un uomo, una donna e dalla prole, viene additata dal cattolicesimo come il parametro più perfetto di una società ordinata. Su questa storia, troppo si è detto dell'uomo, pochissimo della donna, quasi un dettaglio la sua esistenza, niente del nascituro. Tuttavia, proprio su una vita che esordisce la cristianità ha fondato il suo essere più profondo e la sua giustificazione storica più certa. Una contraddizione troppo stridente. Eppure, come dice il prologo del vangelo di Giovanni, il verbo si fece carne. Ma una cosa è la teoria, un'altra la pratica. Se il presbitero avesse rinunciato all'abito talare per fare l'ingegnere, il politico, il medico, il commercialista, o qualsiasi altra cosa che fosse stata mille miglia lontana dal corpo di una femmina e dal frutto che porta in grembo, non sarebbe diventato il caso che abbiamo letto sugli organi d'informazione. Quindi il nocciolo della vicenda non è che una persona ha scelto una vocazione anziché un'altra, ciò avrebbe meritato soltanto qualche riga in cronaca. Ma che c'entrino in maniera diretta i versanti sessuale e procreativo. E' questo che crea scandalo agli occhi degli uomini di chiesa. Uomini. Perché se il ponte di comando ecclesiastico fosse composto anche da donne, si sarebbe reagito in maniera diversa di fronte ad un affetto che si consolida. Ciononostante, la scala gerarchica della diocesi di Trapani, i preti che la compongono e i fedeli che si sentono turbati, proprio in relazione al Natale appena trascorso, che altrimenti è davvero vuoto formalismo, hanno la possibilità di modificare il loro stato d'animo in relazione a quanto accaduto al loro compagno di fede. Non è una tragedia né una vergogna, non un trauma, né un dramma. Pensateci. Nel trionfo dell'amore che avete festeggiato nella famiglia che a Betlemme ha accolto un pargolo, ci sta tutta la storia, che quindi è di gioia, non di mestizia, di questo vostro confratello. E sin troppo facile venerare la notte e il giorno di Natale colui che, già si sa, è diventato Dio. Più difficile sarebbe stato entrare in quella stalla, più di duemila anni fa, e riconoscere, oltre le apparenze, il miracolo del divino che è nella vita. Avere fede, al netto di tutti i dogmatismi, forse significa solo questo.

domenica 23 dicembre 2012

Cu acchiana acchiana un m'interiessa, basta ca un acchiana u cuntrulluri.

CENTONOVE
Settimanale di Politica, Economia, Cultura
N. 48 del 21 Dicembre 2012
Pag. 46
Amat senza controlli
Francesco Palazzo
 
L'AMAT, l'azienda di trasporto pubblico palermitana, ha avuto difficoltà nel pagare gli stipendi di novembre. Non è la prima volta che accade. Pare che il deficit sia di 20 milioni. Somma che si aggiunge ai 140 milioni che il comune deve all'Azienda. Sono già state tagliate delle linee. Ci sono vie d'uscita da questa situazione? Si potrebbe iniziare, banalmente, controllando sempre e facendo pagare tutti i viaggiatori. Perché ciò, incredibilmente, non avviene. E' come se al supermercato o al bar pagasse solo chi ne ha voglia o chi incappa in un episodico controllo. Tali esercizi commerciali calerebbero le saracinesche nel giro di niente. Mi è capitato di prendere il 101, alle 11 e 30, dallo stadio sino al Teatro Massimo. Alle fermate che intercorrono tra i due punti citati, si sono imbarcate novanta persone. Sono stato attento, le obliteratrici hanno emesso il loro particolare suono, tipico di quando si infila dentro il biglietto, quindici volte. Come viaggiavano gli altri 75? Non lo sapremo mai, nessuno ha controllato. Nella migliore delle circostanze avrebbero potuto avere ciascuno o un abbonamento, oppure essere in possesso di un biglietto in corso di validità. A Oslo o a Londra l'avremmo chiusa così. Ma basta avere un minimo di esperienza di viaggi in autobus a Palermo, per potere invece pensare che gran parte di essi viaggiavano a scrocco. Del resto, quasi tutti quelli che salivano e non obliteravano, avevano quell'aria circospetta e indagante che ha il palermitano quando cerca di scrutare se ci sono controllori in vista. Una della massime più gettonate nel capoluogo in vista delle elezioni è “cu acchiana acchiana un m'interiessa, basta ca un acchiana u cuntrulluri”. Se fosse vero che gran parte dei non obliteranti in realtà stava utilizzando in maniera gratuita un mezzo pubblico, dalle 11 e 30 alle 11 e 50 di un sabato mattina l'AMAT ha perso dei soldi. E' possibile quantificare? Una stima di qualche tempo addietro individuava in un 35 per cento la pattuglia dei portoghesi. Ci sembra al ribasso, ma diamola ancora per buona. Ciò potrebbe significare che trentadue passeggeri dei novanta non hanno pagato. Moltiplichiamo tale cifra per un euro e trenta, il costo del singolo biglietto. In venti minuti, l'AMAT ha presumibilmente perso, in un sola linea, per un breve tratto di una sola corsa, quasi 41 euro. Se proiettiamo tale passivo su un'intera giornata e poi a livello mensile e quindi a livello annuale, considerando tutte le linee e tutte le corse, ci rendiamo conto di come un privato avrebbe già chiuso da tempo i battenti. Ma, statene certi, un privato non lascerebbe margini così ampi di libertà agli utenti. Evidentemente ci sono abitudini difficili da scalfire. Nei mezzi dell'AMAT si continua ad accedere da tutte le bussole, cioè non si applica una disposizione della stessa azienda che obbligherebbe, se ricordiamo bene, ad entrare dalla porta anteriore. In tal modo, come succede in altre città europee e italiane, recentemente l'ho sperimentato a Como, i conducenti potrebbero essere autorizzati, attraverso una disposizione di servizio, a controllare i titoli di viaggio. Attualmente ignorano se gli utenti sono in regola o no. Ma il mancato incasso, oltre a riguardare tutti, qualcuno dovrebbe spiegarglielo, minaccia anche il loro stipendio. Cosa che, infatti, sta avvenendo. E qui l'esempio è limitato ad una linea del centro città. Dove, anche quando sale a bordo il controllo, è sempre composto da due impiegati, a volte anche tre. Ciò che altrove fa una sola persona, abbattendo del tutto il numero dei non paganti, da noi viene svolto da tre o quattro, che però, complessivamente, non fanno scendere complessivamente di molto l'asticella di quanti utilizzano gratuitamente un mezzo pubblico. Se ci trasferiamo in periferia, è facile ipotizzare che il picco degli evasori sia notevolmente più pesante. Si può cominciare, dunque, per tentare di colmare almeno in parte il disavanzo finanziario della partecipata comunale, col mettere in pratica un sistema che permetta di controllare sistematicamente tutti coloro che usufruiscono dei mezzi AMAT?

domenica 9 dicembre 2012

ARS: se questo è solo l'inizio, come sarà la fine?

LiveSicilia
 
9 Dicembre 2012
Se all'ARS si litiga già dal primo giorno
 
Francesco Palazzo
 

 
 

Da che mondo è mondo, al primo appuntamento si è galanti sino all'inverosimile, è tutto uno sfolgorare di sorrisi e ammiccamenti. Ciò vale anche nelle dinamiche istituzionali. Avete mai visto gli inquilini delle aule di camera e senato guadarsi in cagnesco già al primo round? Certo, durante la legislatura il clima si surriscalda, i cambi di casacca si susseguono, le vicende politiche si alternano. E allora si passa alle maniere forti. Sino ad arrivare alla fine, dove neanche ci si guarda più in faccia. Ma, suvvia, il primo giorno di scuola no. Eppure all'Assemblea Regionale Siciliana, neanche il tempo di suonare la campanella del primo giro di pista, che sembrava di essere ancora a quell'altra assise. Quella appena sciolta. Dove se ne sono viste di tutti i colori. Ma solo da un certo punto in poi. Qui invece da subito spintoni e parole infuocate. E se questo è l'inizio, cioè una maggioranza, seppure relativa, che si squaglia come neve al sole, e un'altra minoranza, più coesa, farla subito da padrone, ci potrebbero attendere cinque anni scintillanti. Da ricordare e tramandare ai posteri. E dire che la più alta assemblea rappresentativa siciliana era partita con più di un buon auspico.

Tante facce nuove, ma veramente, molti giovani e tante, tantissime, donne che viene il cuore solo a dirlo. Uno, con tali premesse, si aspettava non dico il gol di tacco o la rovesciata in piena area tipo Pelè nel film Fuga per la Vittoria. Ma almeno qualche buona azione manovrata e schemi aggiornati. Macché. Siamo rimasti a bocca aperta. Appena il tempo dei sorrisi di circostanza dei parlamentari, con familiari al seguito che, in quello che dovrebbe essere il campo centrale della politica siciliana, si è alzato un gran nuvolone di polvere come nemmeno nei campetti di periferia. Dove tra i dilettanti è facile che subito il clima si surriscaldi sino ad arrivare a cose grosse. Non so se riesco a spiegarmi. Ma già si parla nella maggioranza-minoranza, senza mezzi termini, del bisogno di un “chiarimento politico”. Non so se la locuzione vi ricorda qualcosa. Ci fa cascare dritti dritti nei nostri teneri ricordi della prima repubblica. Quando nella Dc, ma dopo un interminabile periodo di lunghi coltelli e di sangue che colava a rivoli, non certo dopo la prima stretta di mano, si registrava un impazzimento generale. Qualcuno allora chiamava il time out del chiarimento politico, ossia si ridistribuiva il potere utilizzando il buon vecchio manuale Cencelli. E a questo punto, dopo che ciascuno aveva avuto quel che gli spettava, non un grammo in più, né un pelo in meno, tornava la pace guerreggiata. Sino al successivo redde rationem.

Però, ecco, i democristiani, grandi maestri nella cucina del potere, facevano di tutto per evitare che si arrivasse a tal punto. La nuova legislatura siciliana esordisce invece, senza preamboli (altro termine di democristiana memoria), con uno scenario di questo tipo. Insomma, manco si inaugura la nuova casa, che sin dal fischio d'inizio dell'arbitro volano i piatti in aria e quelli dei piani di sotto e di sopra sentono grida, accuse e offese alle rispettive famiglie.

Quando si aspettavano il suono del dolce amore appena consacrato davanti all'altare elettorale al cospetto del celebrante corpo votante. Abbiamo la sensazione, così, ad occhio e croce, speriamo di sbagliarci, che il “chiarimento politico”, (a menza palora...), sarà il primo di una lunga serie. E siccome, come detto e come ci dice il calendario, siamo solo e soltanto all'inizio, temiamo che i “chiarimenti politici” (capisci a me) potrebbero essere la cifra del quinquennio che attende i siciliani e le siciliane che hanno appena votato i loro deputati.

Tanto che corriamo il pericolo di svegliarci una mattina e chiederci non cosa farà per noi quel giorno il parlamento regionale, ma come è finito, e se è finito, il trentanovesimo o il cinquantesimo “chiarimento politico” della notte prima.         

venerdì 16 novembre 2012

Regionali: il mercato del consenso.

CENTONOVE
Settimanale di Politica, Cultura, Economia
N. 43 del 16 Novembre 2012
Pag. 46
Il voto che costa
Francesco Palazzo
 
Tre episodi vissuti direttamente, uno prima delle elezioni e due la settimana successiva al 28 ottobre, possono servire a capire come si è raccolto il consenso di una parte (residuale, piccola, ampia?) della minoranza di siciliani che è andata al voto. Sabato mattina, vigilia delle elezioni. Presso il popolare mercato palermitano del Capo due galoppini fermano diversi conoscenti ai quali si rivolgono in maniera concitata. Il messaggio è che recandosi in una determinata piazza di Palermo, portando la fotocopia della scheda elettorale, si potranno ricevere due buste di spesa senza uscire un centesimo dalla tasca. Alcune persone assicurano che è tutto vero. Uno del piccolo capannello che si forma, assicura che suo cugino c'è andato il giorno prima e ha ricevuto quanto promesso. Un altro suona alla moglie e sale a casa per prendere la scheda elettorale. Un commerciante rientra in negozio e dice che lui andrebbe, ma due pacchi di spesa sono pochi. Se si trattasse di cinquecento euro si potrebbe cominciare a discutere. A un certo punto i galoppini vanno via di corsa. Occorre battere altre zone e portare altrove la lieta notizia della spesa a sbafo in cambio del voto. Avrà funzionato tale metodo di raccolta del consenso last minute? Qui siamo allo scambio che precede il voto. Tutto si basa sulla fiducia. Coloro i quali riceveranno il “dono” poi non sgarreranno dentro la cabina elettorale. “Ma come fanno a controllare”? Uno del Capo se lo chiede, i galoppini assicurano che ci riescono, ottenendo l'assenso preoccupato dei presenti. Un anziano zittisce tutti. “Io se mi danno la spesa ci voto, è una questione d'onore”. Altro scenario a tre giorni dal voto. Siamo nella zona vicina al Civico e al Policlinico. Tre giovani discutono animatamente, i decibel aumentano man mano che la discussione entra nel vivo. In questo caso niente fiducia. Il “dono”, sotto forma di moneta sonante, sarebbe stato consegnato dopo aver contato i voti. I tre ventenni ne fanno una questione basilare per la consistenza delle loro finanze. Dovrà trattarsi di una somma non trascurabile. Il problema è concreto e va risolto. Il tipo che ha chiesto, secondo questi giovani, raccolta di voti in cambio di soldi non ha pagato. Malgrado, dice il più nervoso dei tre, abbia preso migliaia di preferenze. Uno dei tre sembra saperla più lunga. Annuncia che comunque lui tornerà tra qualche giorno e a muso duro andranno ad affrontare la questione. Ad un certo punto si coglie la motivazione del mancato pagamento. I voti spuntati dalle urne in quella zona non sono stati numericamente quelli pattuiti. Pochi voti, niente denaro. Perché, secondo quanto sostiene uno dei tre, chi è stato fedele alla promessa ha già ricevuto quanto stabilito. Ma loro sostengono che i voti li hanno capitati. A un certo punto siamo costretti ad allontanarci, ma da lontano vediamo che il teso simposio continua. Riceveranno i nostri racimolatori di voti quanto ritengono di avere diritto? Il terzo episodio, che probabilmente spiega il primo e il secondo, è un dialogo carpito, a sette giorni dalle elezioni, tra professionisti che vorrebbero una politica pulita e sanno però come funziona quella sporca. Andrebbe così, spiega quello che sembra il più esperto. Chi raccoglie voti con metodi, diciamo, discutibili, fa un ragionamento molto semplice. In una zona mobilita i galoppini e sa che deve aspettarsi un certo numero di voti. Se ne arrivano due, tre in meno, va bene, può essere che ci sia qualche malato che proprio non può recarsi al seggio. Ma se ne mancano qualche decina, ecco che paga tutto il gruppo a cui, in quella zona, nei diversi seggi, è stato assegnata la missione di convincere, distribuendo beni di ogni tipo, la gente a votare per il candidato. Allora, forse, i tre ragazzi hanno svolto bene il loro compito, ma il gruppo a cui appartengono non ha lavorato complessivamente bene e quindi niente corrispettivo pure per loro. Se questa è la regola, chissà come è finita ai galoppini del Capo. Avranno ricevuto il compenso dopo aver piazzato le buste di spesa all'ombra del Teatro Massimo?

venerdì 9 novembre 2012

La violenza sulle donne e la pubblicità.

CENTONOVE
Settimanale di Politica, Cultura, Economia
N. 42 del 9 Novembre 2012
Pag. 46
Carmela, la pubblicità non c'entra
Francesco Palazzo
 
Quando accadono fatti come quello dell'uccisione della giovane liceale palermitana, cerchiamo parole e motivazioni su cui appendere crimini così atroci. E' umano. E allora assistiamo a un campionario di sociologismi, magari da approfondire, per carità, ma che spesso mi sembrano dei tentativi a buon mercato per trovare vie d'uscite dai labirinti mentali che certi accadimenti creano dentro le nostre coscienze. Subito dopo l'omicidio della giovane Carmela, abbiamo visto salire sul bando degli imputati pure la pubblicità che commercializza prodotti sbandierando corpi di donne. Addirittura il comune intende fermare tutte le campagne promozionali sessiste. Ora, a parte il fatto che semmai occorrerebbe prendersela, più che con i pubblicitari, con le donne che si fanno ritrarre e donano i propri corpi, ma davvero si pensa che ciò possa essere, anche lontanamente, collegato, o motivare, atti come quello accaduto in Via Uditore o i tanti che si verificano con sempre maggiore frequenza? Tutti questi omicidi o aggressioni dovrebbero essere compiuti da uomini che, vedendo pubblicità su pubblicità, giorno dopo giorno, alla fine scelgono una donna su cui scaricare la libido che le immagini succinte del corpo femminile provocano. Se cosi fosse, dovremmo assistere pure ad una strage di uomini, visto che questi ultimi compaiono sempre più, forse in misura maggiore delle donne, nei manifesti di cui sono pieni le nostre strade. Ma davvero vogliamo raccontarcela così? Ma non sono sempre i mariti, i fidanzati, i padri, ossia il cerchio delle conoscenze e delle parentele più intime a farsi carico di sferrare colpi su colpi, perseguitando sino ad annullare identità e vite? E cosa c'entra, con tutto questo, un gluteo posto in bella vista in una fiancata di un autobus, un decolté impresso in un tre per sei, una coscia immortalata in uno spot televisivo? Magari c'entra un'altra cosa. Che a fatica, noi maschi perbenisti, che andiamo in cerca di mostri per non leggerci dentro, riusciamo ad ammettere. E cioè che l'immagine che abbiamo delle donne della nostra vita è quella dei nostri nonni e dei nostri bisnonni. Che non ammazzavano perché le loro compagne, figlie, mogli e fidanzate stavano al loro posto. Un posto che però la cultura borghese non ha modificato, semmai aggiornato e reso più presentabile. Insomma, quanti, pur sentendosi moderni e rispettosi delle donne, magari partecipanti alle fiaccolate contro i femminicidi, non pensano che queste debbano, contemporaneamente, badare alla casa, ai figli, lavorare, fare la spesa, stirare, lavare, occuparsi delle cene per farci fare bella figura e tutte le corvée a cui millenni di storia le hanno destinate? Se voi pensate che tutto questo accada in via Oreto, vi sbagliate, perché succede soprattutto nei nostri quartieri bene e nelle nostre case accessoriate e all'ultima moda. Ah, non dobbiamo dimenticare che, per molti appartenenti alla cultura borghese, che non stanno in via Oreto e non guadagnano quanto quelli della via Oreto, il problema della fedeltà non è bilaterale. Le loro donne devono rimanere fedeli, loro possono passare da un'amante all'altra. Lo fanno perché vedono le pubblicità? Non diciamo sciocchezze. Va bene, allora, lo slogan, che contiene un impegno che deve essere di tutti, “fermiamo i femminicidi”. Ma fermiamo anche le analisi inconsistenti e le banalità. Perché non aiutano ad affrontare bene la questione e creano falsi problemi. Piuttosto, guardiamoci di più dentro, noi che pensiamo di esserne fuori da certe questioni. E domandiamoci, nella rude pratica quotidiana e non solo nell'esternazione di bei principi, che ruolo consegniamo alle donne della nostra vita. Per parte mia, continuerò a guardare serenamente le pubblicità che ritraggono donne. Così come quelle che ci consegnano immagini di altri esseri viventi. In fondo, quando c'era carosello ci divertivamo, non pensavamo affatto che fosse un crimine contro l'umanità.

mercoledì 31 ottobre 2012

Regionali in Sicilia: la storia e la cronaca.

LIVESICILIA
31 10 2012
 
PD, NIENTE DA FESTEGGIARE
 
Francesco Palazzo


 
 
C'è chi addirittura, per commentare la vittoria di Pd e Udc alle regionali del 28 ottobre, ha scomodato l'affermazione delle liste del Blocco del Popolo dell'aprile del 1947. Ma dovrebbe essere chiaro un po' a tutti gli attori della scena politica che al massimo possono provare a scrivere la cronaca. La storia è un'altra cosa. Anche la vittoria di Orlando era stata salutata dall'attuale sindaco come un passaggio dalla seconda alla terza repubblica. Ora il suo partito, Italia dei Valori, non arriva neppure al cinque per cento alle regionali e supera, di pochissimo tale asticella soltanto a Palermo. Elezioni che vanno, elezioni che vengono. Stiamo alla cronaca, per la storia c'è tempo. E la cronaca ci dice che i due grossi partiti che si erano dati battaglia nell'assemblea regionale della legislatura appena finita, ossia il Pd e il Pdl, perdono consensi e deputati. Per i berlusconiani è un tracollo, ma anche i democratici, appena finiscono di festeggiare, potrebbero avere motivo di riflessione su tale esito uscito dalle urne di fine ottobre. Il partito di Bersani, a livello nazionale, viaggia al 27 per cento e quello siciliano viene relegato ad una cifra che è esattamente la metà. Poi c'è la questione della Sicilia laboratorio, che anticipa sempre. In realtà, proprio per la frammentazione che ha caratterizzato queste elezioni siciliane, è davvero difficile che tale quadro possa ripetersi quando si voterà alle politiche. Idv e Sel sono ai minimi termini.
Ormai la sinistra nella nostra regione ha davvero un rilievo di pura testimonianza. Nelle stesse elezioni amministrative palermitane di primavera, una parte si è persa dietro la candidatura di Ferrandelli, l'altra non è riuscita neppure a sfruttare l'onda lunga del successo di Orlando, fermandosi sotto la soglia di sbarramento. E' una famiglia politica, quella della sinistra siciliana, vecchia, con poche idee, molto settarismo e appena una manciata di voti. Ci vorrebbe qualche iniezione di modernità nel linguaggio e di riformismo nelle azioni. Ma non c'è neppure un minimo di furbizia elettorale. Nelle regionali del 2006, dipietristi e sinistra, uniti, andarono oltre il 5 per cento, oggi e nel 2008 hanno deciso di cambiare schema e per la seconda volta consecutiva sono fuori dall'Ars. Una novità il voto di domenica ce la consegna. Per la prima volta, era accaduto con Orlando, con la Borsellino, e in misura minore con la Finocchiaro, il candidato del centrosinistra, con solo uno 0,1% in più, prende sostanzialmente quanto il suo schieramento. In genere stacca i partiti che lo sostengono, anche se per poco, come accaduto nel 2008. C'è da dire, però, che in questa occasione la lista del presidente (6,2%) raggiunge il risultato più rilevante rispetto a quanto avvenuto con la Borsellino (4,9%) e con la Finocchiaro (3,1%).
 Il fenomeno contrario si è verificato per il candidato del centrodestra, Musumeci. Generalmente, in questo schieramento politico sono le liste a trascinare i candidati alla presidenza, che si posizionano diversi punti sotto le loro coalizioni. Stavolta, al contrario, Musumeci ha staccato di un punto la somma delle liste alle quali era collegato. Perciò ha più di una ragione ad avercela con il Pdl. Dal punto più strettamente politico, molti osservatori preconizzano un sistema di alleanze molto simile a quello appena archiviato. Può essere che accada, ma adesso è il Pd, che è riuscito ad entrare al governo dalla porta principale, e non gli autonomisti, ad avere il coltello dalla parte del manico. E potrebbe non essere esattamente la stessa cosa del film già visto. Occorrerà vedere la squadra completa degli assessori e poi le politiche che si realizzeranno nei vari settori. Sperando che si cominci col dire la verità sulla situazione finanziaria della regione. Ovviamente, sul banco di prova sono anche i quindici deputati grillini eletti. Dal dire al fare c'è spesso di mezzo il mare, in Sicilia può esserci anche l'oceano. Sull'astensionismo, non è il caso di arrovellarsi più di tanto. Pensate che con il 64,1 per cento, nel 2008, si è parlato di una partecipazione record alle elezioni presidenziali americane. Che contano un po' di più delle regionali siciliane. Con tutto il rispetto per chi si sente già nella storia e che ci auguriamo sappia invece regalarci qualche sprazzo di buona cronaca. Un dato certo già c'è. Il presidente eletto dovrebbe regalarci cinque anni tranquilli dal punto di vista giudiziario. Non sarà tanto, ma intanto accontentiamoci di questo. Ora è il momento di passare dagli slogan ai fatti. Prima di dire che la mafia può fare le valigie è andare via, ne deve passare di acqua sotto i ponti della politica siciliana.

venerdì 12 ottobre 2012

Sicilia: una campagna elettorale da dimenticare.

LiveSicilia

Giovedì 11 Ottobre 2012

L'apologia di Hitler e quella della cattiva politica

         Francesco Palazzo

 

Va bene, Hitler è Hitler. Ma i cinque manifesti affissi da un artista a Mazara del Vallo, che riproducono Adolf nel tipico saluto nazista, vogliamo metterli accanto alle migliaia di manifesti e faccioni, con frasi che farebbero ridere se già non facessero piangere, che invadono da settimane le nostre contrade? E che, statene certi, aumenteranno esponenzialmente, tipo pioggia tropicale, in queste ultime due settimane di campagna elettorale.
Campagna elettorale si fa per dire. Mai visto un dibattito politico così spento, senza contenuti, senz'anima. Dove a prevalere sono le citazioni a giudizio dentro il governo, all'interno delle coalizioni e tra le coalizioni. Una querelite acuta che appesantisce, se ve ne fosse il bisogno, una gara elettorale che ci fa rimpiangere il passato. E non ci sarebbe bisogno di aggiungere altro. Perché questi undici anni, cioè da quando si elegge direttamente il governatore, non sono stati una passeggiata.
Insomma, diciamolo chiaramente, le sfide del 2001, 2006 e 2008 tra i due candidati di volta in volta più accreditati alla poltrona di Palazzo d'Orleans, almeno si potevano guardare. Contendenti con i quali si poteva essere più o meno d'accordo, ma lo spessore delle proposte politiche era abbastanza definito, le coalizioni in grado di assicurare maggioranze ai vincitori e anche la preparazione dei pretendenti al ruolo di governatore appariva mediamente superiore allo schieramento dei presidenti in pectore che oggi si propongono alle urne. L'unico evento in grado, è il caso di dire, di muovere le acque è la nuotata di Beppe Grillo tra Scilla e Cariddi, credo che in questo veda bene Roberto Puglisi.
Ma torniamo all'uomo con i baffetti. L'autore dei manifesti ritraenti Hitler, e già fatti rimuovere dal comune (peccato che la stessa solerzia non vi sia per i tanti manifesti elettorali abusivi che stanno sporcando la Sicilia), è stato denunciato, a quanto leggiamo, per apologia del fascismo. Ma cosa dovremmo fare allora con i tanti messaggi che inneggiano a più che improbabili rivoluzioni, rivolgimenti, cambiamenti epocali, con sorrisi che francamente sembrano, sono, sideralmente lontani dagli stenti in cui vivono quotidianamente le famiglie siciliane? Che apologia è quella che vuole fare diventare bianco il nero con una bacchetta magica, senza avvertire neanche lontanamente il disagio di chi non sta proponendo nulla per affrontare una situazione economica e sociale drammatica? Apologia della cattiva democrazia? Del consenso carpito con carrettate di parole a vuoto? Di un autonomismo ormai ridotto a un'asta senza bandiera, con la quale volevamo essere speciali e non siamo riusciti a essere neanche normali? E' forse l'apologia del voto che non serve a nulla, visto che le maggioranze e gli accordi si faranno dal 29 ottobre in poi? E' l'apologia del clientelismo scientifico di cui si continua a fare pieno uso? E sì che è facile difendersi da Hitler, dagli artisti creativi e dalle paure del passato.
Basta fare sparire dai muri cinque manifesti e formalizzare una denuncia. Ma come difendersi dal presente e dal futuro con un ceto politico che ormai non riesce a parlare che a se stesso, e non sente che nessuno ascolta più? Ma chi volete che si impicci delle liti, dei piatti che volano, degli stracci che saltano in aria. Nessuno. Ma sappiamo che la baraonda serve a coprire l'apologia più grave. Quella dell'omissione della verità per fini di parte, per vincere senza sapere poi esattamente cosa fare. E la verità è che la prossima legislatura regionale sarà per tutti un salto nel buio. Il buio dei conti che non torneranno, di un governo che dovrà arruolare i deputati uno per uno, pagando ogni volta dazio, di un'assemblea legislativa che sarà una bolgia incontenibile di appetiti personali. In confronto a tutto ciò, quei manifesti con Hitler mi sembrano addirittura simpatici.

venerdì 21 settembre 2012

Don Puglisi: la beatificazione e l'indifferenza.


CENTONOVE
Settimanale di Politica, Cultura, Economia
N. 35 del 21 9 2012 - Pag. 46
Don Puglisi e l'auto bruciata
Francesco Palazzo
 
Il diciannovesimo anniversario della morte di don Puglisi si può raccontare parlando della beatificazione che sarà celebrata a Palermo il 25 maggio 2013. Oppure lo si può leggere attraverso un episodio accaduto nella notte tra il 12 e il 13 settembre. Cioè nei giorni in cui nel quartiere e in città, con diverse manifestazioni, si ricordava quanto avvenne quella sera del 15 settembre 1993. C'era (e c'è) una macchina completamente bruciata dentro un parcheggio privato. A venti metri del busto in marmo raffigurante Puglisi, posto al centro della piazza con la corona di alloro ancora fresca. A non più di quaranta metri, che sono ancora meno dei cento passi famosi, dalla chiesa di S. Gaetano. Dove don Pino visse gli ultimi suoi tre anni di sacerdozio e di vita. Il mezzo appartiene ad un giovane commerciante, un artigiano orafo, che si è esposto a viso aperto nella battaglia antiracket. Forse cortocircuito, ma che le auto brucino per questo motivo è davvero molto improbabile, forse un attentato ben camuffato. In ogni caso, visto la persona a cui è capitata la disavventura e il rione in cui avviene il fatto, un fatto inquietante. Che richiederebbe, proprio nel quartiere che fu di Puglisi, qualche gesto deciso e concreto di solidarietà. Invece si è soltanto registrato un gelido silenzio. Si può dare una chiave di lettura, partendo da questa circostanza, su come arriva, nel luogo della sua profezia, l'eredità di Puglisi alla beatificazione? Si può provare. Anche perché l'indifferenza di oggi fa a pugni con le parole chiare e nette che don Pino pronuncio in un'omelia domenicale dell'estate del 93. Qualche mese prima che un proiettile alla testa lo fermasse per sempre schiantandolo su un marciapiede sotto casa. Rosso in viso e con le grandi orecchie infiammate dalla rabbia, dall'altare commentava molto duramente, facendo arrivare aperta solidarietà alle vittime e invitando i fedeli ad andarli a trovare, l'incendio notturno delle porte di tre componenti del Comitato Intercondominiale Hazon. Con il quale lui lavorava da tempo nel territorio per portare diritti e servizi senza chiedere una lira di finanziamenti pubblici, anzi rimettendoci di tasca sua. Ancora non si sapeva, lo diranno i processi, i pentimenti successivi e le sentenze, ma erano stati gli scagnozzi della famiglia mafiosa locale a compiere l'operazione. Come si permettevano quegli inermi cittadini, non legati a qualche potente della politica, ed un parroco con i gomiti dei maglioni mal rattoppati, a chiedere che a Brancaccio si potesse vivere dignitosamente? Puglisi non attese gli esiti delle indagini. Da persona nata e cresciuta in quei luoghi, seppe subito in che direzione guardare e cosa dire pubblicamente per non lasciare da sole le vittime dell'attentato incendiario. Da quel grido di accusa di allora e dal silenzio odierno si sono fatti passi in avanti o indietro? Se non vogliamo vestirci dell'antimafia retorica delle ricorrenze, un abito che a molti piace indossare, bisogna ammettere che si è tornati parecchio indietro. E non soltanto per l'episodio citato. Nel rione è tornata, più forte dei tempi di Puglisi e che lui volle combattere con tutte le sue forze sino alla fine, una cappa micidiale di indifferenza e paura. Che si mescola con i piccoli gesti della criminalità spicciola, comprese attività di abusivismo selvaggio e predatorio o spaccio di sostanze stupefacenti, che avvengono alla luce del sole, e le grandi manovre della mafia, sempre presente. Basta farsi una passeggiata nei luoghi che furono di don Pino, e prima di lui di un altro coraggioso parroco, Rosario Giuè, di cui poco si parla nelle ricostruzioni storiche, per rendersi conto della distanza che intercorre tra la beatificazione di maggio e la realtà che connota uno dei posti da cui dipende la salvezza o la dannazione di Palermo. E forse dell'intera Sicilia.

domenica 16 settembre 2012

Regionali 2012. Si fa presto a dire elezioni.

LiveSicilia
16 Settembre 2012
Le elezioni.....embè?
Francesco Palazzo
 
 
 
Voi chiamatele, se proprio restate contenti, elezioni. Io penso di aver capito una cosa. Il giro di valzer siciliano, che si ballerà nei seggi d'inizio autunno, è la prova generale di quella che sarà la nuova legge elettorale a livello nazionale. Voi votate tranquilli e poi pensiamo noi a fare le alleanze nelle assemblee rappresentative. Mani libere e cuore leggero. Gente a cui, evidentemente, piacere vincere facile. Pensate un po' cosa ne sarà della Sicilia e dei siciliani nella prossima assemblea regionale siciliana. Quello che abbiamo visto in passato sarà ricordato con struggente tenerezza. All'indomani del voto, visto che nessuno dei contendenti si aggiudicherà la maggioranza, considerato lo spezzatino di candidature in campo, si aprirà il mercato e tutti, proprio tutti, nessuno escluso, cercheranno di portare a casa qualcosa. Alcuni tacciano di gossippari coloro che fanno balenare ipotesi di accordi già stabiliti sottobanco tra alcuni degli attuali contendenti. Hanno perfettamente ragione.
Ma quali gossip e gossip! La realtà, come sempre in Sicilia, è più frizzante e incredibile di qualsiasi pettegolezzo da corridoio o chiacchiera da bar. Dicono che la polverizzazione di facce e le alleanze variabili come il tempo, siano la conseguenza logica di un bipolarismo malato cronico da tempo. E siccome uno sta male, meglio prendere bene la mira, sparargli un colpo alla tempia e farla finita subito. Per risparmiare nella spesa sanitaria potrebbe essere un ottimo metodo. L'eredità che lascia il morituro, del resto, è consistente. Direi regale. Seppellito l'osso della logica bipolare, sulla quale si sta andando al voto negli Stati Uniti, ma noi siamo, inutile dirlo, più avanti anni luce, rimarrà nelle mani dei partiti, degli eletti, dei forti gruppi di pressione, tutta la polpa. Volete che non ci venga fuori una succulenta pietanza?
In questo scenario, secondo voi, che cosa possono dire i candidati alla presidenza di chiaro e definito sulle quattro cose da fare subito affinché la Sicilia non affondi? Niente di significativo e percettibile. Solo balbettii. Se le alleanze si fanno dopo le elezioni, come si fa a pronunciare parole chiare? Vi immaginate cosa significherà comporre un governo sotto il fuoco di fila dei tanti pretendenti ai vari troni della politica regionale che spunteranno come funghi da lunedì 29 ottobre? Allora forse è meglio, almeno per questo giro, evitare di prenderci in giro e non chiamarla elezione diretta del governatore della Sicilia. La legge elettorale, infatti, promuovendo la balcanizzazione del consenso politico, viene assolutamente svilita e annullata. I siciliani e le siciliane, che lo sappiano o no, ma sarebbe onesto recapitargli il messaggio, non eleggeranno un bel nulla. Solo una faccia, più o meno sorridente, più o meno affidabile, che salverà la forma della democrazia. Il resto, la sostanza, a cutra, come dicono a Berlino e dintorni, se la contenderanno quelli che contano, non molti, in Sicilia.
Si poteva fare diversamente? Certamente. Bastava che i quattro candidati più accreditati facessero, visto che dicono tutti di amare la Sicilia, che perciò sta morendo di questo troppo asfissiante trasporto affettivo, un gesto di responsabilità. Presentando due coalizioni all'elettorato siciliano e proponendo tre o quattro cose da fare per non continuare a bere l'acqua di una crisi finanziaria molto seria. E magari indicando due squadre di assessori. Non è un obbligo, quest'ultimo. Ma certamente gli elettori avrebbero apprezzato e si sarebbero potuti orientare meglio. Ma figuriamoci. Siamo a pane e acqua e voi chiedete il salmone. Ma dove vivete? In realtà stiamo tornando, a Roma come a Palermo, ma in Sicilia si anticipa sempre perché siamo i più furbi del suolo italico, all'età della pietra della democrazia rappresentativa. Tu mi dai il voto e poi non rompere che ci penso io che ne so più di te. Dal 28 ottobre sera, non pensateci più. La messa (in scena) della partecipazione sarà finita e potrete andare in pace.

mercoledì 5 settembre 2012

Italo e la Siclia del novecento con i treni che non arrivano mai.

La Repubblica Palermo - Mercoledì 5 Settembre 2012
Pag. I
Quel treno superveloce di un altro pianeta
Francesco Palazzo

Il 26 agosto è partito Italo. E' un treno che collega, più volte al giorno, Roma e Milano in due ore e 45 minuti. Dispone di collegamento wireless gratuito, servizio ristorante e addirittura di un vagone cinema. Troppa grazia. Roma e Milano distano quasi 600 chilometri. Cosa può importare a chi vive e si sposta in Sicilia tale notizia? Niente. Solo che ad inizio autunno si andrà alle urne per il rinnovo dell'assemblea regionale e per l'elezione del governatore. E viene, così, a tempo perso, voglia di confrontare Italo, che beato lui corre veloce, con la lentezza esasperata dei nostri viaggi regionali lungo le linee ferroviarie. Che è un po' la proiezione sul territorio dei ritardi barocchi, perché spesso travestiti da rivoluzione, della nostra politica. Per dire, se volevate andare il 26 agosto, cioè nel giorno in cui Italo emetteva il primo vagito, da Palermo a Catania, separate da 209 chilometri, due terzi in meno di quelli che ci sono tra Roma e Milano, dovevate mettervi buoni buoni e considerare che ci avreste impiegato da un minimo di 2 ore e 45 minuti, con un convoglio partente alle 6 e 38, quindi con levataccia incorporata, ad un massimo di 4 ore e minuti 16. E questi sono i tempi migliori. Perché se, per caso era vostra intenzione prendere le mosse, invece, il giorno prima, 25 agosto, il gioco si sarebbe fatto ancora più duro. Da un minimo di 4 ore e 28 e un massimo di 6 e 05 minuti. Ovviamente, wireless, punti ristorazione e cinema ve li potevate scordare. E ancora non avete visto niente. Perché, se sempre il 26 agosto, pensavate di recarvi sciaguratamente in quel di Siracusa, potevate dimenticare la dimensione temporale. Perché, se sceglievate di partire comodamente alle 10 e 07, sappiate che sareste arrivati alle 18 e 20, in tutto 8 ore e 13 minuti. Palermo da Siracusa è divisa da 258 chilometri, meno della metà di quelli che intercorrono tra Roma e Milano. Uno, però, potrebbe obiettare. Ma che ci dovevo andare a fare io a Catania e Siracusa? Giusto. Non è un obbligo. Voi vi sareste tenuti più vicini, andando magari a visitare il bel centro storico di Trapani. Sono 107 chilometri, una bazzecola: Italo ci metterebbe meno di mezz'ora. In tal caso, potevate agilmente scegliere tra 2 e 31 minuti o, preferendo affrontare la vita con calma, vivervi per intero il treno che vi avrebbe scaricato a Trapani in 4 ore e 21 minuti. Ma se vi fosse venuto il desiderio di visitare i luoghi del Commissario Montalbano, per il 26 agosto niente da fare, non c'erano treni per Ragusa, e neanche il 25. Il 27 avreste avuto una sola possibilità. In sette ore nette il vostro treno avrebbe percorso i 271 chilometri che staccano i palermitani dai ragusani. Potremmo proseguire con i tempi che ci vogliono per collegare Palermo con le restanti province di Messina, Enna, Caltanissetta e Agrigento. Ma non aggiungeremmo niente di significativo alla nostra storia. A questo punto, però, qualcuno dirà che la politica siciliana c'entra poco con questo scenario. Formalmente sarà anche così. Parliamo di infrastrutture novecentesche che non possono essere ammodernate ricorrendo al bilancio della regione. Ma tutti sappiamo che le cose stanno in un altro modo. Solo una classe dirigente locale di non altissimo livello poteva determinare, nei quasi sette decenni autonomisti, queste condizioni di modernità mancata. Fanno, perciò, sorridere quei contendenti per le le elezioni d'autunno che si sfidano sull'autonomismo, ormai ridotto a una bandiera lacerata e piena di buchi. Manco buona per essere sventolata nelle infinite stazioni da dove transitano i treni siciliani che non arrivano mai.

lunedì 20 agosto 2012

Preti e liste per le regionali. Nè una novità, nè un pericolo.

LA REPUBBLICA PALERMO - DOMENICA 19 AGOSTO 2012
PAG. XIX
NON E' UNO SCANDALO SE I PRETI FANNO POLITICA
Francesco Palazzo

Le hanno sponsorizzate un gruppo di prelati e laici. Le hanno bocciate tre vescovi di peso, quelli di Palermo, Mazara del Vallo e Piazza Armerina. Le liste per le regionali che potrebbero essere partorite nelle sacrestie meritano qualche riflessione. Si tratta di rispondere a due domande. È una novità assoluta? È un pericolo per la Chiesa, per i laici impegnati nella gestione della cosa pubblica e per la politica? Tutti ricordiamo che la Primavera di Palermo, che segnò l' ascesa di Leoluca Orlando, ebbe uno dei punti principali di azione e di analisi presso i Gesuiti di padre Pintacuda e padre Sorge. E fu attivamente sostenuta da un movimento, Città per l' Uomo, nato all' inizio degli anni Ottanta per favorire un vero decentramento nei Consigli di quartiere. Ebbene, Città per l' Uomo, che partecipò da protagonista alla vita politica cittadina, come ricorda Fabrizio Lentini nel suo bel libro "La primavera breve", venne fuori dal mondo cattolico palermitano ed ebbe la sua sede iniziale al Centro studi sociali dei Gesuiti. Si dirà che erano tempi diversi e che sono circostanze da collocare in un ambito storico e politico differente da quello attuale. Che le cose non stiano così ce lo dice un terzo avvenimento recentissimo. In occasione delle amministrative palermitane, uno dei candidati, Fabrizio Ferrandelli, e il cartello di associazioni, Palermo Più, che lo sosteneva con candidati al Consiglio comunale e assessori designati, hanno avuto quale promotore e ispiratore padre Gianni Notari, il gesuita sino a poco tempo addietro alla guida del Centro Arrupe, ora operante a Catania. Tre casi guardando ai quali è lecito dire che le liste ipotizzate per le regionali da laici e sacerdoti, in cui i primi chiedono ai secondi di fare da garanti, non sono una novità. Resta da rispondere al secondo quesito. Ossia se è un pericolo per la Chiesa, per la politica e per i laici credenti impegnati la formazione di liste siffatte. Si potrebbe intanto dire che se non sono state un problema le tre storie raccontate in precedenza, ma un lievitoe un arricchimento per tutti, non si capisce perché adesso dovrebbe scattare la sirena dell' allarme. Ma non c' è solo questo aspetto di coerenza nella valutazione dei fatti che occorre evidenziare. La cosa più importante è che se c' è, da parte di pezzi della società, che comprende i chierici e i laici che hanno ipotizzato le liste, la consapevolezza di agire alla luce del sole in una competizione politica, salvaguardando la forma e la sostanza delle regole cattoliche che non prevedono per i presbiteri l' elettorato passivo, non si può che essere attenti al fenomeno, senza per forza stroncarlo sul nascere. Non ci perde l' ecclesia, non viene sminuita la politica e non fa un passo indietro la dimensione laica. Nella misura in cui quest' ultima rimane staccata dagli aspetti confessionali e gioca se stessa nel campo aperto del confronto elettorale. Meglio avere laici credenti che si spendono direttamente, anche con il sostegno iniziale di una parte del clero, che tanti baciapile, meglio conosciuti come atei devoti, formalmente autonomi dalle autorità ecclesiastiche ma che invece non sanno dove sta di casa la laicità. E che fanno spesso della fede e della politica ciò che vogliono, utilizzandole per aumentare il loro potere e non per servire le comunità che amministrano.

mercoledì 1 agosto 2012

L'ARS che fu: l'improbabile codice etico e la norma impallinata.

LA REPUBBLICA PALERMO - MERCOLEDÌ 01 AGOSTO 2012
Pagina XV
QUANTI INDAGATI NEL PALAZZO ASPETTANDO UN CODICE ETICO
FRANCESCO PALAZZO


L’affossamento all’Ars dell’emendamento che tendeva a non nominare nei pubblici uffici persone incappate in rinvii a giudizio per mafia e per alcuni reati riguardanti la pubblica amministrazione, è un fatto che può essere letto da diversi punti di vista. Durante il dibattito in aula è emerso il profilo garantista, si è sottolineato che non si è colpevoli sino a sentenza definitiva. Cosa del tutto legittima se riguarda un candidato alle elezioni o un eletto, oppure un funzionario in servizio. Ma qui la cosa avrebbe riguardato i nominati, ossia persone che vengono chiamate discrezionalmente dall’organo politico per completare una giunta, per riempire vuoti d’organico o perché esperti di qualcosa che l’amministrazione non possiede. Dunque, c’entra poco qui la presunzione d’innocenza. Il cittadino tal dei tali è illibato sino a sentenza definitiva. Ma perché, se mi serve un esterno da nominare, devo proprio andarne a prendere un tipo che ha procedimenti in corso per reati di mafia oppure consumati dentro la pubblica amministrazione? Non c’è motivo. E, per la verità, non ci vorrebbe neanche una norma per comportarsi in tal modo. Dovrebbe essere iscritta nel codice genetico della classe dirigente la buona pratica di non far toccare la cosa pubblica a chi ha qualche problema con la giustizia. Ma così non è, perciò ci vuole la legge. Che, come in questo caso, viene impallinata nel segreto dell’urna. Così potrà anche accadere ancora che, nominato qualcuno con precedenti giudiziari a carico, poi si dica che non se ne sapeva niente, che non si poteva sapere. Durante il dibattito all’Ars è emerso che queste cose vanno regolate dai codici etici, da condividere in pompa magna tra i partiti seduti attorno a un tavolo. È lo schema classico per affossare ciò che non si vuole digerire. Quando non si vuole fare una cosa, o quando si sa benissimo come si vuole continuare a farla, si tira fuori il codice etico. Ne abbiamo conosciuti a decine. Scritti così bene, con stili talmente raffinati e altisonanti, che neppure sembravano veri. E infatti sono rimasti lettera morta. Ma la vera paura dei nostri (mancati, in questo caso) legislatori era quella di non mettersi sotto i piedi alcuni articoli fondamentali della Costituzione. Cosa poteva pensarne il commissario dello Stato? Ora, questo è l’argomento più curioso di tutti. Perché, legislatura dopo legislatura, il massimo organo rappresentativo della Regione non si è preoccupato affatto quando mandava al vaglio del commissario alcuni provvedimenti improbabili, sospesi sul nulla. Eppure questa volta, su un tema così importante, si teme il suo giudizio e si erge a baluardo insormontabile la Costituzione. Vai a capire.

martedì 31 luglio 2012

La borghesia sarà mafiosa, ma nei quartieri popolari manco babbiano.

LiveSicilia - Domenica 29 Luglio


Francesco Palazzo

        

Nella metà degli anni Ottanta, dalle parti di Brancaccio, la festa estiva del santo - pare - servì anche a suggellare la pax mafiosa scoppiata nel territorio dopo anni di ammazzatine in ogni angolo del quartiere. La chiamarono guerra di mafia. Era la scalata al potere dei corleonesi. Vero o no che fosse il collegamento tra quella manifestazione religiosa, con spettacoli e giochi di fuoco d'ordinanza, e la situazione meno cruenta dentro Cosa nostra, è un fatto che le processioni, con tutto il corollario di raccolta di fondi casa per casa e negozio per negozio, saldino, sovente, tradizione, credulità popolare, fede genuina, chiesa cattolica e criminalità. Non accade sempre, non accade dappertutto, ma lo si può dire con una certa sicurezza. E' ovvio che in queste manifestazioni venga coinvolta tanta gente che non c'entra nulla con la mafia. Io stesso, per dire, se non fosse stato per il servizio militare, avrei tranquillamente partecipato, nel mio quartiere d'origine, all'evento di devozione popolare citato all'inizio. Allora poco mi occupavo di certe letture dei fatti. Sono cose che ho saputo e intuito dopo. Né si può dire che tutti coloro che fanno parte dei comitati organizzatori difendano o rappresentino interessi mafiosi. Sarebbe stupido e ingiusto affermarlo.
Ma, anche negli ultimi anni, sempre in quel rione, ho avuto modo di verificare che, parallelamente ai festeggiamenti per il santo, anzi talvolta spostate di qualche settimana rispetto ad essi, sembra per attendere che qualcuno lasci le patrie galere e possa assistere a piede libero, si svolgono esibizioni canore di tutto rispetto. I neomelodici napoletani vanno forte pure lì e le dediche dal palco, per gli ospiti dello stato, non mancano. Don Puglisi, dal 1990 al 1993, e prima ancora di lui Rosario Giuè, la cui fondamentale opera di parroco a Brancaccio dal 1985 al 1989 mai si cita quando si parla di quella zona, cercarono, riuscendoci, di porre dei paletti su tale argomento. Per dire che la chiesa, quando non si gira dall'altra parte, può fare molto per evitare che altri si approprino del culto per i propri fini.
Pensavo a questo, tornando ai miei vent'anni, età in cui, come dice Guccini, è tutto ancora intero, riflettendo sulle polemiche relative ai saluti verso i carcerati formulati durante il concerto che alla Kalsa ha fatto da contorno ad una festa religiosa. La constatazione da fare, secondo me, realisticamente, evitando di scandalizzarci davanti all'ovvio, è che il cuore dei quartieri popolari, più o meno periferici, ha nei confronti dell'agire e del pensare mafioso una condivisione molto profonda e di lunga durata. Che quelli delle zone bene (viene da ridere quando qualcuno si esprime in tal modo), non vogliamo ammetterlo, perché ci piace pensare che le nostre quattro fiaccolate in occasione degli anniversari illuminino tutti gli antri oscuri e maleodoranti di questa città e della Sicilia intera, è un discorso. Che, probabilmente, fa da guanciale morbido alle nostre coscienze di benpensanti che vogliono farla facile. Che le cose stiano in un altro modo, e se ne freghino della circostanza che noi preferiamo non vederle, è un dato che non c'è neanche bisogno di dimostrare.
La cartina di tornasole sono gli applausi a scena aperta, lunghi e sentiti, tante standing ovation, indirizzati a chi dai vari palchi snocciola i nomi degli ospiti delle patrie galere. Momentaneamente rapiti alla vista, ma vivi e vegeti nel cuore degli amici e degli amici degli amici. Cosa voglio rappresentare con tutto questo? Che esiste senz'altro la borghesia mafiosa. Che la mafia, dall'unità ad oggi, è soprattutto un fatto di classi dirigenti. Ma è altresì, ognuno stabilisca la percentuale che ritiene più opportuna, un vissuto di popolo. Che condivide, protegge, tramanda e foraggia le mafie sui territori. Solo che spesso siamo propensi a condannare duramente la borghesia, forse al di là dei propri demeriti e collusioni. E troviamo più congeniale, al contrario, emettere un giudizio più clemente sul popolo spicciolo. Ritenendolo, quasi sempre, vittima necessitata e non coprotagonista volontario, quale secondo me è, dei sistemi mafiosi. Forse dovremmo ripensare un po' il tutto e chiederci perché le mafie hanno ancora tanto consenso. E che parte abbiano le moltitudini che vivono nei quartieri popolari nella costruzione e nella fortificazione di esso.

giovedì 19 luglio 2012

Borsellino, un anniversario pieno di buio.

LiveSicilia

Perché non andrò alle commemorazioni

Giovedì 19 Luglio

Francesco Palazzo

E' un pessimo anniversario il ventesimo della carneficina di Via D'Amelio. Pure le solite parole, che cerchiamo in genere di cesellare, asciutte e senza fronzoli, per evitare l'umidità appiccicaticcia dell'anticiclone siculo della retorica, non vengono fuori. E' amaro constatare, dopo settemila e trecento giorni, che “la stanza della verità”, come dice Antonio Ingroia, è ancora buia. Come si fa a sostenere il contrario? Ma la cosa è probabilmente ancora più complessa. Il problema è che se si continua ad occultare e a coprire, quando si accenderà la luce, se mai si spingerà quel pulsante, quella stanza potrebbe essere pure vuota, spoglia, deserta. Ma poi, ci chiediamo, è una sola la stanza da illuminare? Temiamo che sia sin troppo semplicistico immaginare un'unica chiave che possa aprire la toppa della stanza degli orrori. O, se volete, della più oscena delle normalità. Perché, insomma, queste complicità tra mafie e politica, abbiamo l'impressione che siano disseminate in vari luoghi, in tante memorie, in molteplici reticenze, in una miriade di occhi che hanno visto e si sono girati da un'altra parte. Di mani che potevano afferrare la presa e invece sono state tenute in tasca.
Per paura, per complicità, per connivenza, per indifferenza. Fate voi. Che importa. Sono un'infinità i file da aprire. E, più passa il tempo, meno sono le probabilità che questi forzieri dell'indicibile contengano qualcosa che possa davvero interessare i tribunali e la storia. Il risultato è che, oggi, se non vogliamo prenderci in giro e consolarci con i pannicelli caldi delle marce e delle fiaccolate, delle idee dei morti che camminano sulle nostre gambe, lo stato, che in questo caso non merita di essere scritto con la l'iniziale maiuscola, si mostra lacerato e diviso di fronte a una delle stazioni più cruente, il periodo stragista dell'inizio degli anni novanta in Sicilia e nel continente, della storia repubblicana. Oggettivamente, se vogliamo andare all'osso della questione, e chi scrive deve sempre cercare di farlo, è un bel regalo ai poteri criminali. Qualsiasi cosa s'intenda con essi. E che certamente non coincidono del tutto con i macellai che fanno il lavoro sporco. Il migliore dei doni, non c'è dubbio alcuno. In effetti, quelle bombe del '92 e del '93, che si credeva avessero lacerato solo Cosa nostra, tanto era suicida un piano di quel tipo, vogliamo dire i motivi non semplicemente militari per cui si arrivò a tanto, hanno messo dentro il corpo delle istituzioni un veleno per il quale ogni antidoto non fa altro che peggiorare il male. Perché è sempre quello sbagliato, visto che la patologia non si riesce neanche a definire con certezza.
Tra ammiccamenti, accordi, trattative, papelli, disattenzioni, ritardi, processi costruiti sul nulla, memorie intermittenti e, forse, non sempre complete e veritiere, collaboratori di giustizia che riscrivono pezzi di storia, procure spaccate, palazzi dei veleni, non si sa più da che parte guardare. Sì, per carità, prima o dopo si arriverà a qualche pronunciamento giudiziario, che traccerà qualche labile solco. Ma difficilmente si perverrà ad una memoria condivisa, certa, univoca. Dove tutti, dal primo all'ultimo cittadino di questa Repubblica, possano orientarsi tra le nebbie delle imposture, vere o presunte, e respirare a pieni polmoni un po' di aria pulita. Dopo vent'anni, se abbiamo l'onesta intellettuale di ammetterlo e non vogliamo nasconderci colpevolmente dietro le nostre fiaccole rassicuranti, questo consegniamo a chi nasceva allora. Alle nuove generazioni. Questo ci rimane tra le mani. Potremmo non dirla questa verità e metterci in coda nella nostra bella marcia. Io quest'anno, per la prima volta, non andrò. Non ne ho voglia.

venerdì 13 luglio 2012

Consiglio comunale di Palermo, non cominciamo bene.

LiveSicilia

Giovedì 12 Luglio 2012

Consiglio, non buona la prima

Francesco Palazzo

    

La nuova legislatura comunale a Palermo, che sembrava essere partita bene per i diversi atti di governo messi in campo dalla giunta nelle prime settimane di vita, è inciampata in una brusca frenata nel primo vero atto politico importante, ossia l'elezione dei vertici di Palazzo delle Aquile. Il clima a Sala delle Lapidi non è stato dei migliori già al secondo giorno di scuola. Il che è un record. In negativo. Sono volate parole grosse, che poco si sposavano con gli abiti nuovi e con i sorrisi dei consiglieri e delle consigliere sfoggiati nella giornata inaugurale. Ora c'è la guerra delle stanze da assegnare ai gruppi, ma è un dettaglio.
Torniamo alla sostanza. Dentro l'IDV c'è chi ci è rimasto parecchio male per il metodo poco democratico con il quale si è arrivati alla scelta del nome da fare votare per la presidenza del Consiglio. A occhio e croce, abbiamo la forte sensazione, che ovviamente i fatti potrebbero smentire a partire da domani, che la folta pattuglia dei dipietristi sia attraversata da qualche maretta e da divisioni. Il Partito Democratico, dal canto suo, non c'è rimasto bene che una vicepresidenza vicaria del consiglio non sia andata alla candidata più votata di quel partito, ma ad una esponente di IDV. Ma il PD ha alzato la voce pure per la vicepresidenza destinata all'opposizione di centrodestra, che si era accordata su un esponente del PDL. Che, invece, è stato impallinato da IDV in aula a favore di un esponente dell'UDC. Non parliamo dell'ira degli ex padroni della città e dell'ascia di guerra dissotterrata dal PDL, che aveva votato, insieme a quasi tutti i cinquanta consiglieri, il neopresidente del consiglio comunale.
E' vero che sia il PDL che il PD sono ridotti ai minimi termini e che le spaccature di Italia dei Valori sono tutte da dimostrare. Ma non ci si aspettava certo che il clima, visto la maggioranza bulgara di cui la nuova amministrazione dispone, fosse subito infuocato, la città venisse relegata in fondo al vicolo e in cima si stagliassero gli appetiti dei partiti e dei singoli. La qual cosa, se si pone in perfetta continuità con quanto vissuto in quel consesso dal 2001 sino a poche settimane addietro, non ci fa ben sperare per il futuro. Perché il rischio adesso è che, sin dall'inizio, saltando la classica e scontata luna di miele, finiscano col prevalere sorde guerre intestine e palesi atti di guerriglia dichiarati e che a pagare siano ancora una volta Palermo e i palermitani. Si dirà che, per quanto importante, si tratta soltanto del primo round e che il match è ancora tutto da giocare. Però, ecco, questo primo scricchiolio è da segnalare con preoccupazione.
Perché, ricordiamocelo, non occorre solo che siano migliori rispetto al passato il sindaco e la sua squadra di governo, ma che si registri pure una netta inversione di tendenza nell'assemblea dei consiglieri. E forse questa legge, che si preoccupa soltanto di elevare il target della carica monocratica, non fa altrettanto, probabilmente, per l'altro corno del governo delle città. Storicamente il più rissoso e il meno produttivo. Oltre quanto detto, cambiando prospettiva, c'è anche da dire qualcosa sulle scelte soggettive compiute dalla più importante assise politica cittadina. Anche in questo caso, nulla avendo da ridire sulle qualità umane e politiche delle persone prescelte, ci è parso che si sia seguita la linea grigia e burocratica della politica politicante. Un po' manuale Cencelli, un po' il corto respiro della mancanza di coraggio.
Quando, probabilmente, anche nella scelta dei nomi occorreva dare un segnale diverso, più dinamico, meno incancrenito. Anche volendo rispettare la differenza dei numeri che incroceranno le armi sullo scacchiere di Sala delle Lapidi. Insomma, per la presidenza e per le due vicepresidenze del Palazzo di Città occorreva una ventata di novità, una folata anagrafica, la possibilità di sentire un nuovo linguaggio nella tolda di comando della casa comune che si staglia sulla Piazza della Vergogna. Non è stato possibile oppure non si è tentato. Vedremo il seguito e avremo senz'altro più fondati elementi per giudicare. Intanto, non buona la prima.