Giornale Centonove del 4 maggio 2007
La fede contro la mafia
Francesco Palazzo
La fede contro la mafia
Francesco Palazzo
Si chiamavano tutti e due Giuseppe, il primo inteso Pino o 3P, il secondo Peppe. Il primo di cognome faceva Puglisi, il secondo Diana. Erano due sacerdoti del sud, di generazioni diverse e di regioni diverse. Quando morì, don Puglisi aveva cinquantasei anni, don Diana trentasei. Tutti e due uccisi, il primo dalla mafia, l’altro dalla camorra. Il parroco palermitano di Brancaccio nel giorno del suo compleanno, il 15 settembre 1993, il sacerdote di Casal di Principe nella giornata del suo onomastico, il 19 marzo 1994. Sul sacerdote campano è uscito per i tipi delle Paoline (€ 12 – pagg. 203) un libro di Rosario Giuè , “Il costo della memoria – Don Peppe Diana il prete ucciso della camorra”. Un lavoro da cui emerge la figura di don Diana, un uomo che ha combattuto la camorra e che per questo è stato ucciso. Questa potrebbe sembrare un’ovvietà. Così non è stato nel corso delle vicende processuali, descritte negli ultimi capitoli. E proprio da qui partiamo per leggere parallelamente le due biografie. Nel processo di primo grado, Don Diana è descritto come un soggetto che sì ha combattuto la camorra, ma che per ingenuità si è trovato a custodire un carico d’armi di uno dei due clan che si contendevano, agli inizi degli anni novanta, il potere camorristico nella zona. Un fatto non provato, che poi sarà smontato in appello e in cassazione, ma che negli anni ha gettato una coltre d’opacità sul giovane prete. Nel caso di Puglisi, invece, è emersa sin da subito nelle aule di tribunale il suo spessore di pastore. Tuttavia, a ben conoscere i fatti, anche per don Pino si tentò di mettere in giro voci su vicende passionali o peggio, che fortunatamente non trovarono terreno fertile. La stessa cosca di Brancaccio volle far apparire l’assassinio come un fatto non riconducibile a sé. Per questo utilizzò il silenziatore, un’arma con un calibro diverso rispetto al solito e tentò di fare apparire l’agguato come la degenerazione di uno scippo. Se in Sicilia fu semplice capire di cosa si trattava, forse fu determinato dal fatto che nella nostra regione, a differenza che in Campania, si era tristemente abituati a delitti di un certo tipo. Dal lavoro di Giuè si rintraccia l’atteggiamento della chiesa nei confronti della giustizia, uguale a quello tenuto per Puglisi. In un caso come nell’altro non si è costituita parte civile, avanzando la tesi che solo ai fatti di fede è interessata. L’autore ricorda che la chiesa, quando si tratta di difendersi in sede giudiziaria per fare valere quelle che ritiene le proprie ragioni su argomenti di carattere economico, non esita ad adire le vie legali. Sulle posizioni assunte dalla chiesa, Giuè stesso rammenta con disappunto il diverso trattamento questa volta attribuito da una parte a Puglisi, di cui si persegue con convinzione la beatificazione, e dall’altra a Diana, sostanzialmente dimenticato dalla chiesa, prima e dopo i processi. Probabilmente, ci pare ipotizzi Giuè, in questo comportamento opposto ha influito l’essere in qualche modo critico nei confronti della sua stessa chiesa di Don Diana e, al contrario, la dimensione più “canonica” di don Puglisi. Un altro dato parallelo che riguarda le due vicende è il ruolo di coloro che materialmente portarono a termine gli omicidi. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a due collaboratori di giustizia. Ma qui le somiglianze si fermano. Il killer reo confesso di Puglisi, con la sua testimonianza, ha contribuito a rafforzare l’immagine positiva del parroco palermitano, oltre che svelare il contesto del fatto delittuoso. Invece, quello che la cassazione indica come l’esecutore materiale dell’omicidio di don Diana, ha contribuito in prima persona a distorcere in negativo la sua immagine. Non ammettendo direttamente, peraltro, il ruolo centrale avuto nell’azione di morte, che solo la giustizia ha infine sanzionato. L’autore del libro smonta un luogo comune, ossia che le sentenze non si commentano. Invece, proprio la lettura critica delle motivazioni della sentenza di primo grado, che prende per buono il ruolo incerto di Diana, fa venire fuori le contraddizioni delle stessa, poi capovolte in appello e in cassazione. Da dove viene fuori tutta la dimensione anticamorra del parroco napoletano. Con una differenza sostanziale rispetto al percorso di Puglisi. Dove quest’ultimo è sostanzialmente isolato nel territorio in cui si muove, non trovando (e forse non cercando) la collaborazione degli altri parroci delle parrocchie vicine, don Diana invece cerca (e trova) una complicità dei suoi confratelli. Sul sacerdote campano tante cose si potrebbero ancora dire, chi vorrà potrà approfondirne la conoscenza leggendo di persona il lavoro davvero interessante e ben scritto di Giuè. Noi, proseguendo, in questo viaggio parallelo, altri tre aspetti. Il primo. Le dinamiche mafiose che portano ai due crimini sono diverse. Nel caso di Pino Puglisi la cosca di Brancaccio si muove senza altri fini, vuole stroncare definitivamente l’operato del parroco e dare una lezione alla chiesa italiana dopo il grido contro la mafia di Giovanni Paolo II del maggio 1993 ad Agrigento. Per don Diana la cassazione ha definitivamente stabilito che il parroco viene eliminato nell’ambito della lotta tra le due cosche che in quel momento si contendono il governo criminale di Casal di Principe. Il clan perdente progetta ed esegue l’omicidio di un parroco impegnato tenacemente a combattere la camorra per creare problemi d’ordine pubblico al gruppo criminale egemone. Un altro tema parallelo riguarda le testimonianze successive al delitto. A Casal di Principe coloro che hanno visto testimoniano senza difficoltà e danno un aiuto decisivo alle indagini, soprattutto nell’individuazione dell’esecutore materiale. A Palermo, considerato che l’omicidio è avvenuto in una zona popolare e in una serata calda di metà settembre, non sono mai giunte testimonianze oculari decisive. L’ultimo accostamento sono i luoghi diversi dove sono stati commessi i due omicidi. Don Diana è ucciso dentro la sua chiesa. Con Puglisi Cosa nostra non è entrata nel tempio. Ha preferito inondare di sangue un marciapiede qualunque di un’anonima e problematica periferia palermitana.
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